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I LIBRI DI LUISA IN SCRITTURA VOLUME 1 E 2



 Per avere invece  le rivelazioni del Padre ad Eugenia Ravasio 
dovete scrivere  ad :  "Associazione  Dio è Padre" Casa Pater   cap  135-67100 -  Aquila - . email:    avemaria@armatabianca.org
sito:www.armatabianca.org


vi faccio sapere inoltre che  chi vuole i libri di Luisa Piccarreta in forma cartacea ed in offerta libera può  richiederlo chiamando a questo numero 3881934654(wind)



        IMPORTANTISSIMO

"CREDO CHE GESU' VOGLIA DARE ANCHE IN ALTRI PUNTI DEL MONDO LA STESSA ACQUA MIRACOLOSA DEL DIVINO VOLERE E DELL' INFINITA MISERICORDIA DI GESU' ,PERO' SOLO A QUEI FIGLI DEL DIVINO VOLERE CHE CON FEDE INDEFETTIBILE PORRANNO NEL LUOGO CHE LE INDICHERA' NEL CUORE LA DIVINA VOLONTA' :
1) L'IMMAGINE DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE DI PORTO EMPEDOCLE ( LA FOTO CHE C'E' NEL MIO BLOG CON LA MADONNINA DI LOURDES ED IL PORTO DI PORTO EMPEDOCLE),

2) IL GESU' MISERICORDIOSO DI VILNUS  CON LA PREGHIERA SOTTO :"GESU' INFINITAMENTE MISERICORDIOSO, CONFIDO E SPERO IN TE,DONAMI LA TUA VOLONTA' IN TUTTI I MIEI ATTI E PRENDITI SEMPRE LA MIA , NELLA DIVINA VOLONTA'. POI SOTTO SCRIVERE IL MIO BLOG:  

 http://acquamiracolosa33.blogspot.it/

 DIETRO IL QUADRO DI GESU' MISERICORDIOSO METTETE  A META'  BUSTO LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA ANCHE A META BUSTO ED IN FORMATO PICCOLO  15 CM PER 15CM I VEGGENTI MARIJA PAVLOVIC  E IVANKA IVANKOVIC ,  SANTA RITA CHE MI HA FATTO CONOSCERE I LIBRI DI LUISA PICCARRETA ,PADRE PIO CHE MI HA CONVERTITO, SAN MICHELE ARC. CHE MI ASSISTE  E MI LIBERA SEMPRE DAL NEMICO, PADRE JOZO  PARROCO DELLA CHIESA  DI MEDJUGORJE  NEL PERIODO DELLE PRIME APPARIZIONI, SAN PADRE  ANNIBALE  MARIA DI FRANCIA DI MESSINA CHE MI  HA FATTO  AVERE I LIBRI  DIFATTI HO LETTO I LIBRI  QUANDO LUI E' STATO FATTO BEATO E LUI  E' STATO  QUELLO CHE  HA CREDUTO IN LUISA E HA PUBLICATO  I SUOI LIBRI  . SOTTO ANCORA  IL MIO BLOG  :     ACQUAMIRACOLOSA33.BLOGSPOT.IT  METTETE LA SCRITTA:" IN QUESTO BLOG TROVERETE TUTTI I LIBRI DI LUISA PICCARRETA LA SANTA DEL DIVINO VOLERE CHE  HA RICEVUTO DA GESU'  LE VERITA' ETERNE SUL DIVINO VOLERE IN CIRCA 40 VOLUMI. ATTRAVERSO QUESTI SCRITTI GESU' DICE A LUISA CHE L'UOMO RITORNERA' ALLO STATO D'ORIGINE PRIMA DEL PECCATO  CIOE' SEMPRE UNITO AL DIVINO VOLERE  VIVRA' COME UN ANGELO SULLA TERRA, LA SUA SANTITA' SARA' SIMILE A QUELLA DI MARIA E OTTERRA' GRAZIE  INFINITE, OGNI COSA CHE VORRA' TUTTO SARA' DATO IN EREDITA'  AI FIGLI DEL DIVINO VOLERE CHE NASCERANNO DAGLI INSEGNAMENTI DI  QUESTI SCRITTI SULLA DIVINA VOLONTA', UNO SOLO DI QUESTI SANTI SARA' PIU' SANTO DI TUTTI I SANTI MESSI INSIEME , SARA' COME UN SOLE CHE ILLUMINA TUTTI  IN TUTTI I TEMPI,GESU' DICE A LUISA DI ENTRARE SEMPRE NELLA SUA UMANITA' E DI UNIRSI ALL'ATTO UNICO DELLA DIVINA VOLONTA', DI PREGARE SEMPRE  :GESU' TI DO LA MIA VOLONTA' TU DONAMI LA TUA  E DESIDERARE SEMPRE CHE SIA GESU'  A FARE  TUTTE LE NOSTRE AZIONI."


3) UNA SCRITTA PER TERRA NEL GIARDINO CON LE PIETRE COLORATE :"DIVINA VOLONTA'" 

4) IL QUADRETTO DELLA SACRA FAMIGLIA DI NAZARET COME L'HO MESSO IO NEL GIARDINO VICINO LA MADONNINA DI LOURDES  PER TERRA , UN PO RIALZATO DALLA PARTE SUPERIORE E DECORATO AI LATI CON PIETRE COLORATE .

5) LA STESSA POESIA (INNO AL DIVINO VOLERE )AFFIANCO ALLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE DI PORTO EMPEDOCLE BEN ESPOSTA APPESA A 2 CATENE SOTTO 2 TRONCHETTI D'ALBERO DI ARANCIO O LIMONE A FORMA DI U LARGA CAPOVOLTA .



                   POESIA:                 INNO AL DIVINO VOLERE

"Nel Voler Divin solea alzar ineffabili canti nei monti e valli

L’eco risuonar di rumor di carri

Guerre dei funesti eventi riecheggiar come bombe nei nostri cuor

Alzatevi o eroi combattenti come negli antichi tempi per il Signor,

unitevi nell’Amor e prendete le vostri armi, nella Santità per distruggere l’eterno nemico infernale

il serpente tentator che avanza nel fuoco delle campagne di Armagheddon

ove l’ira di Dio lo farà tremar e lo invaderà il terror per la disfatta che lo coglierà ,

il grido dei bimbi che giocano in festa si ode già nelle piazze per il nostro trionfar"

LA POESIA , I QUADRI DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE , DELLA SACRA FAMIGLIA DI NAZARET, DI GESU' MISERICORDIOSO DI VILNUS, ED IL QUADRO CON LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA , POTETE PROCURARVELO IN UN NEGOZIO DI STAMPA DIGITALE CHE USANO MATERIALI E TECNICHE STAMPANTI CHE NON SI SCOLORANO SE LE IMMAGINI SACRE SONO ESPOSTI AL SOLE ED ALLA PIOGGIA .



Quaderno di “Memorie dell’infanzia”
e
Volume 1





Luisa Piccarreta
“La Piccola Figlia della Divina Volontà”



Luglio 15-1926
Mio Gesù, amor mio, mia Mamma celeste e sovrana Regina, venite in mio aiuto, prendete fra le vostre mani il povero mio cuore; non vedete come mi sanguina per il duro combattimento di dover cominciare da capo, per dire la mia povera esistenza, della mia infanzia? A qualunque costo vorrei sfuggire questo dolorosissimo e duro sacrificio, e tanto più duro perché inaspettato; ma una novella ubbidienza esce in campo per martoriare la mia povera ed insignificante esistenza. Gesù, Mamma, venite in mio aiuto, altrimenti mi sento che la mia volontà vorrebbe uscire in campo di nuovo, per avere vita e poter dire un ‘no’ reciso a chi mi comanda. Ah, Gesù, permetterai tu forse che io abbia che ci fare[1] col mio vo­lere, dopo tanto tempo che tu con tanta gelosia lo tieni legato ai tuoi piedi come dono e trionfo della piccola figlia tua? Mi hanno imposto di pregare per sapere da te se debbo o no farla, e tu invece di essere con me, mi hai detto: “Ciò servirà a far conoscere la terra che doveva illuminare il sole della mia Volontà[2], per formare il regno suo”. Ah, Gesù, che importa a me far conoscere la mia piccola terra! E a te deve importare che si conosca il tuo Volere, non è vero o Gesù? Ma Gesù ha fatto silenzio ed è scomparso, ed io pronunzio con tutta l’intensa amarezza dell’anima : “Fiat! Fiat!”, ed incomincio.
Onde dico in principio ciò che mi hanno detto, la stessa mia famiglia.
Nacqui il 1865, 23 aprile, la domenica in albis, di mattina; la sera stessa mi battezzarono. Diceva mia madre che io nacqui a rovescio, ma lei non soffrì nulla nel parto, tanto che io, negli incontri e circostanze della mia povera vita, son solita di dire: “Nacqui al rovescio! È giusto che la mia vita sia al rovescio della vita delle altre creature”. Onde ricordo che nella mia tenera età di tre o quattro anni, fino all’età di circa dieci, ero di temperamento pauroso, ed era tanta la paura che, né sapevo star sola, né dare un passo da sola; ma ciò era causato che fin dall’età di tre anni, nella notte facevo quasi sempre sogni di paura. Sognavo il demonio, che mi metteva spavento tale da farmi tremare; molte volte lo sognavo che mi voleva portare con sé e mi tirava forte, ed io facevo tutti gli sforzi per fuggire; ed io nello stesso sogno sudavo freddo, mi nascondevo, fuggivo in braccio alla mamma mia; quindi il giorno mi restava l’impressione dei sogni, e tale paura come se da tutte le parti il demonio volesse uscire. Ora credo che ciò mi fece bene, perché sin da quella tenera età io recitavo molte Ave Maria e Pater Noster a tutti i santi [di cui] io conoscevo il nome, per avere la grazia di non farmi sognare il demonio; e se mi veniva nominato un altro santo che io non conoscevo, subito aggiungevo un Pater, se era santo maschio, un’Ave se era donna, perché dicevo che se non li onoravo tutti, mi facevano sognare il demonio. Ricordo che le sette Ave alla Mamma addolorata, fin da quell’età le recitavo sempre, sicché tenevo una lungaggine di Pater ed Ave Maria; e perciò mentre le altre bambine e mie sorelline giocavano, io restavo un po’ discosta da loro, oppure insieme con loro perché avevo paura, ma non prendevo parte ai loro giuochi innocenti, per recitare le mie lunghe Ave e Pater Noster… Ricordo pure che qualche vol­ta sognavo la Vergine, che mi cacciava il demonio, ed una volta mi disse: “Figlia mia, piangi, che è morto mio Figlio”. Io restai scossa e la compativo; ma ciò mi rendeva infelice. Quando giunsi all’età più capace in cui potevo fare la meditazione, leggere, non potevo appartarmi per la paura, e quindi non potevo fare ciò che volevo.
Ora, avendomi fatta all’età di undici anni figlia di Maria, un giorno, mentre volevo pregare e meditare, la paura mi sorprese e stavo per fuggire in mezzo alla famiglia, mi intesi una forza nel mio interno che mi tratteneva, e sentii nel fondo dell’anima mia una voce che mi diceva: “Perché temi? C’è l’angelo tuo vicino al tuo fianco, c’è Gesù nel tuo cuore, c’è la Mamma celeste che ti tiene sotto il suo manto; perché dunque prendi paura? Chi è più forte: l’angelo tuo custode, il tuo Gesù, la tua Mamma celeste, o il nemico infernale? Perciò non fuggire, ma restati e prega, e non aver paura”.
Questo sentire nel mio interno mi recò tanta forza, coraggio e fermezza, che si allontanò la paura, ed ogni qual volta mi sentivo sorprendere dalla paura, mi sentivo ripetere la stessa voce nel mio interno, ed io mi sentivo portare come con mano dal mio angelo, dalla sovrana Regina e dal dolce Gesù; mi sentivo trionfante in mezzo a loro, in modo che acquistai tale coraggio che mi allontanò tutta la paura; molto più che i sogni paurosi cessarono del tutto. Così potetti restare sola, camminare sola, andare sola in giardino quando si stava alla masseria, mentre prima, se ci andavo, solo che vedevo muoversi un ramo d’albero, fuggivo, perché pensavo che lì sopra c’era il demonio.
Ricordo che un giorno, ricordando la paura della mia piccola età, i tanti sogni del nemico, che mi rendevano infelice la mia fanciullezza, dicevo a Gesù: “A che pro, amor mio, aver passata la mia infantile età con tanta paura, con tanti sogni cattivi, che mi facevano tremare, sudare ed amareggiare un’età così tenera? Io non ne capivo nulla, né credo che il nemico avesse nessuno scopo, stante un’età così piccola”; e Gesù mi disse: “Figlia mia, il nemico intravedeva qualche cosa su di te: che mi potresti[3] servire a qualche cosa della mia grande gloria, e che lui doveva ricevere una grande sconfitta, non mai ricevuta; molto più che vedeva che, per quanto si sforzava, non poteva far penetrare in te nessuno affetto o pensiero meno puro, perché io gli tenevo chiuse le porte, e lui non sapeva da dove entrare; vedendo ciò si arrabbiava e cercava di atterrirti, non potendo altro, con sogni paurosi e di spavento. Molto più che non sapendone la cagione dei miei grandi disegni su di te, che dovevano servire alla distruzione del suo regno, si metteva sul­l’attenti per indagare la causa, con la speranza di poterti nuocere in tutti i modi”.
Nostro Signore è stato tanto buono con me, dandomi genitori buoni, e [in] più stavano attenti a non farci sentire neppure una parola di bestemmia o meno onesta. Mi amavano, ma con amore dignitoso e serio. Ricordo che mai mio padre, essendo bambina, mi pigliò in braccio, né di avergli dato, né ricevuti baci; neppure a mia madre ricordo d’averla baciata, e quando fui grande e mi misi a letto, la mamma, dovendo andare alla masseria e mancare lunghi mesi, nel licenziarsi da me faceva atto di volermi baciare, ed io, vedendo ciò, prima che lo facesse le baciavo la mano, ed essa si asteneva di fare quello sfogo tutto materno.
Il babbo e la mamma erano angeli di purità e di modestia. Sono stati larghi coi loro dipendenti: la frode, l’inganno, non tenevano luogo in casa nostra. Era tanta la custodia che mai ci affidarono a persone estranee, ma sempre con loro. Io mi auguro che il benedetto Gesù abbia premiato tanta virtù, dando loro per soggiorno la patria celeste. Ricordo pure che io ero di temperamento vergognoso, e se venivano parenti o altri a farci visita, io me ne fuggivo sopra, per non farmi trovare, oppure mi nascondevo dietro d’un letto e pregavo, ed allora uscivo, quando mi chiamavano e mi dicevano che se ne erano andati; e quando la mamma mia andava a far visita ai parenti e voleva portarmi insieme, piangevo, perché non volevo andare; ed io ed un’altra mia sorellina, quasi dello stesso temperamento, ci contentavamo di restarci sole chiuse a chiave, anziché d’uscire. Questa vergogna non mi faceva prendere parte a nulla, né a feste, né a divertimenti, anche innocenti, che si usano nel­le famiglie; ero la sacrificata della vergogna, e se i miei mi costringevano, stavo in croce, perché la vergogna, tutte le cose me le rendeva estranee.
Onde ricordando tutto ciò, che in qualche modo ren­deva infelice la mia fanciullezza, il dolce Gesù mi disse: “Figlia mia, anche la vergogna con cui ti circondai nella tua tenera età fu una delle più grandi gelosie d’amore per te; non volevo che in te entrasse nessuno, né il mondo, né le persone; volevo renderti estranea a tutti. A nessuna cosa volevo che tu prendessi parte e che ti facesse piacere, perché avendo stabilito fin d’allora che dovevo formare in te il regno del Fiat supremo, e dovendo tu prendere parte alle sue feste ed alle gioie che in Esso ci sono, era giusto che nessun’altra festa tu godessi, e che dei piaceri e divertimenti che ci sono sulla terra ne dovresti[4] restare digiuna. Non ne sei contenta?”. Ma ad on­ta che ero vergognosa e paurosa, ero di temperamento vivace, allegra; saltavo, correvo e facevo anche delle impertinenze.
Ora, dopo, all’età di dodici anni circa, incominciò un altro periodo della mia vita: incominciai a sentire la voce interna di Gesù, specie nella comunione. La prima la feci a nove anni, e nel medesimo giorno ricevetti il sacramento della santa cresima. Quindi non di rado [la voce di Gesù] si faceva sentire nel mio interno quando facevo la santa comunione. Delle volte rimanevo le ore intere inginocchiata, quasi senza moto, dopo la comunione, e sentivo la voce interna che diceva: - e ora mi rimproverava se non ero stata buona – “attenta”; e se nel corso del giorno ero stata qualche volta distrattella, oh, come mi riprendeva, e finiva col dirmi: “Eppure mi dici che mi vuoi bene; e dove è questo tuo bene?”.
Io mi sentivo morire nel sentirmi dir ciò, e promettevo di essere più attenta, e Gesù soggiungeva: “Vedrò, vedrò se sarà vero…; le parole non mi bastano, ma voglio i fatti”.
La comunione diventò la mia passione predominante. In essa accentrai tutti i miei affetti. Ero certa di sentir parlare nostro Signore; e quanto mi costava l’es­serne priva, perché ero costretta dalla famiglia ad andare insieme con loro alla masseria, e dovevo stare lunghi mesi senza messa e senza comunione. Quante volte rompevo in pianto nel vedere alberi, fiori, la creazione tutta…!
Dicevo tra me: “Le opere di Gesù sono intorno a me; solo Gesù non è con me… Deh, parlami tu fiore, tu sole, tu cielo, tu acqua cristallina che scorri nel nostro laghetto, parlatemi di Gesù; siete opere delle sue mani, datemi notizie di lui…! E mi sembrava che tutte di lui mi parlassero. Ogni cosa creata mi parlava di ciascuna qualità di Gesù, ed io piangendo, che non potevo ricevere Colui che tutte le cose amavano, e che sapevano così bene narrare della bellezza, dell’amore, della bontà di Gesù, piangevo e giungevo fino ad ammalarmi. Anche nella meditazione sentivo la voce di Gesù, ma qualche volta mi mancava; invece nella comunione, mai. E quante volte meditando restavo le due o le tre ore senza potermi distaccare; come leggevo il punto e mi fermavo, così la voce di Gesù sentivo nel mio interno, che atteggiandosi a maestro mi spiegava la meditazione. Fin d’allora mi faceva nel mio interno, l’amabile Gesù, lezioni sulla croce, sulla mansuetudine, sull’ubbidienza, sulla sua vita nascosta… A tal proposito, della sua vita nascosta, ricordo che mi diceva: “Figlia mia, la tua vita deve essere in mezzo a noi nella casa di Nazareth. Se lavori, se preghi, se prendi cibo, se cammini, devi avere una mano a me, l’altra alla Mamma nostra, e lo sguardo a san Giuseppe, per vedere se i tuoi atti corrispondono ai nostri, in modo da poter dire: ‘Faccio prima il mio modello sopra a ciò che fa Gesù, la Mamma celeste e San Giuseppe, e poi lo seguo’. A seconda il modello che hai fatto, io voglio essere ripetuto da te nella mia vita nascosta; voglio trovare in te le opere della Mamma mia, quelle del mio caro san Giuseppe, e le mie stesse opere”. Io restavo confusa e gli dicevo: “Mio amato Gesù, io non so fare”.
E lui: “Figlia mia, coraggio, non ti abbattere; se non sai fare domandami che io ti insegni, ed io subito t’in­segnerò; ti dirò il modo come facevamo, le mie intenzio­ni, l’amore continuo di tutti e tre, che[5] io come mare e loro come fiumicelli eravamo sempre gonfi, in modo che uno straripava nell’altro, tanto che poco tempo tene­vamo di parlarci, tanto eravamo assorbiti nell’amore. Vedi quanto stai dietro? Molto hai da fare per raggiungerci; ti conviene molto silenzio ed attenzione, ed io non ti voglio dietro, ma in mezzo a noi”.
Onde, quando non sapevo fare, domandavo a Gesù, e lui m’insegnava nel mio interno. Cercavo quasi sempre, quanto più potevo, di appartarmi dalla famiglia per starmi sola, per mantenere il silenzio; prendevo il mio lavoro e chiedevo alla mamma che mi permettesse di andarmene sopra, e lei me lo concedeva.
Sicché la mia mente stava nella casa di Nazareth, ed ora guardavo l’uno, ora l’altro, e mi confondevo nel vederli così attenti nei loro umili lavori, così assorbiti nelle fiamme d’amore, che s’innalzavano tanto in alto che i loro lavori restavano incendiati e trasformati in amore; ed io, meravigliata, pensavo tra me: “Loro amano tanto, ed il mio amore qual è? Posso dire che i miei lavori, le mie preci, il cibo che prendo, i passi che faccio, sono fiamme che s’innalzano al trono di Dio, e formando fiume straripa nel mare di Gesù?”. E vedendo che non lo era, restavo afflitta; e Gesù nel mio interno mi diceva: “Che hai? Non ti affliggere; a poco a poco giungerai. Io ti starò sopra, e tu seguimi e non temere”.
Se io volessi dire tutto ciò che passai nel mio interno nella mia fanciullezza, andrei troppo per le lunghe; molto più che nel primo volume da me scritto, senza precisare l’epoca, prima o dopo, quando fui più piccola o quando fui più grande, sta dato un accenno del lavorio della grazia nel fondo dell’anima mia, perché così mi fu detto: che non faceva nulla che non mettessi l’ordine dell’età, né quello che era stato prima, né quello che era stato dopo, ma purché dicessi quello che in me era passato; molto più che dopo tanti anni mi riusciva difficile tenere l’ordine di ciò che era passato nel mio interno. Ed ora, per non fare ripetizione, passo avanti.
Ricordo che, ragazza, avevo quasi una smania di volermi far suora, e siccome andavo dalle suore a scuola, io sentivo un affetto un po’ spinto per loro, ma però le[6] volevo bene perché volevo essere come una di loro; ma nel mio interno mi sentivo rimproverarmi di questo affetto, e mentre promettevo di non amare altro che Gesù, ricadevo di nuovo, e Gesù ritornava a darmi amari rimproveri. Unico affetto che ricordo, che ho sentito in vita mia in modo speciale, che poi non mi son sentita più amore con nessuno. Che tirannia è un affetto naturale e forse anche innocente, al povero cuore umano! Lo ricordo con terrore; i rimproveri interni mi mettevano in croce; mi sembrava che il mio affetto teneva in croce Gesù, e Gesù per ricambio metteva in croce me, e perciò non godevo la vera pace, perché è la natura dell’amore umano, guerreggiare un povero cuore. Aver pace ed amare persone con modo speciale, non esiste nel mondo, e se esiste significa non aver coscienza, ed ancorché fosse con fine santo o indifferente. Ma il benedetto Gesù la fece subito finire, ed ecco come.
Una mattina pregai la mamma che mi mandasse a far visita alla superiora, e l’ottenni con stento e sacrificio. Mentre andai, domandai che mi facessero uscire la superiora, e dopo mi fu risposto che stava occupata e non poteva uscire; io restai come ferita nel sentir ciò. Andai in chiesa e sfogai la mia pena con Gesù, e lui prese occasione da ciò per farmela finire. Mi parlò del suo amore e dell’incostanza dell’amore delle creature, e come voleva che assolutamente la finissi, dicendomi che: “Quando un cuore non è vuoto, io lo rifiuto, né posso incominciare il lavorio che ho disegnato di fare nel fondo dell’anima”. Ma chi può dire tutto ciò che mi disse nel mio interno? Ricordo che là finì, ed il mio cuore restò impavido, senza sapere amare più nessuno.
Onde pregavo sempre Gesù che mi facesse giungere a farmi suora, e spesso lo domandavo quando me lo[7] sentivo nel mio interno, se doveva giungere a compimento la mia vocazione religiosa, e Gesù mi assicurava dicendomi: “Sì, ti contenterò; vedrai che sarai suora”. Io restavo tutta contenta nel sentirmi assicurare da Gesù, e cercavo di disporre la famiglia per ottenere il consenso, la quale era contraria, specie la mamma; giungeva fino a piangere, e mi diceva che mi avrebbe contentato se avessi voluto farmi suora di clausura, ma delle suore attive, non me l’avrebbe fatta mai vincere. Io però, a dire il vero, volevo farmi suora attiva, perché quelle che conoscevo erano state le mie maestre, ma sopravvenne la mia lunga malattia, e mise termine alla mia vocazione; e molte volte mi lamentavo con Gesù e gli dicevo: “Ep­pure mi dicevate la bugia, mi davi la burla, promettendomi che dovevo giungere a farmi suora”.
E Gesù molte volte mi ha assicurato che mi diceva la verità, dicendomi: “Io non so né ingannare né burlare; la chiamata che io facevo a te era più speciale: chi mai col farsi suora, anche nelle religioni più strette, non può camminare, non prendere aria, non godere nulla? E quante volte nelle religioni fanno entrare il piccolo mon­do e si divertono magnificamente? Ed io resto come da parte. Ah, figlia mia, quando io chiamo ad uno stato, io so come realizzare la mia chiamata; il luogo è per me indifferente, l’abito religioso per me dice nulla, quando nella sostanza dell’anima è quello che dovrebbe essere se fosse entrata in religione; e perciò ti dico che sei e sarai la vera monacella del cuore mio”.



Oh, grande sacrifizio che mi s’impone dalla santa obbedienza alla mia capacità, di dover mettere su carta quanto tra me ed il mio diletto Gesù è avvenuto nel corso di sedici e più anni. Mi sento come schiacciata sotto di sì ingente peso; ciò nonpertanto mi accingo, a mia grande confusione, a compierlo, ma fidente in Gesù, mio sposo diletto, affinché voglia rendermelo meno gravoso; così potrò compierlo per la maggior gloria di Dio e per l’amore che nutro verso la nobilissima virtù del­l’obbedienza.
In te, o Gesù, con te e per te, do principio; di me diffido, in te confido; senza di te io nulla posso; ma sempre nel principio, nella durata del tempo che mi occorre, e nel termine, sia fatto tutto per la maggiore gloria tua, per accrescimento del mio amore verso di te, e per la mia grande confusione.
In una Novena del santo Natale del mio sempre amabile Gesù, ancora in età di diciassette anni, volli prepararmi a questa festività con la pratica giornaliera di diversi atti di virtù e mortificazioni, a scopo speciale di onorare i nove mesi che Gesù si compiacque stare nel verginale seno di Maria Santissima; mi proposi, quindi, di fare nove meditazioni al giorno, concernenti sempre il sacrosanto mistero dell’Incarnazione.
In una meditazione mi proponevo di portarmi col pensiero lassù, in paradiso, e m’immaginavo la Santissima Trinità in decisivo consiglio di voler riscattare l’u­man genere, decaduto nella più squallida miseria, da cui, senza dell’operato divino, giammai poteva sorgere a novella vita di assoluta libertà; quindi mi ravvisavo il Padre in atto di voler mandare il suo Unigenito sulla terra, il Figliuolo in atto di assentimento alla nobile idea del Padre, e lo Spirito Santo in atto compiacentissimo di voler essere, nel suo pieno consenso, tutto a maggior bene e salvezza dell’umanità. La mia mente si confondeva, e si meravigliava tutto l’essere mio nell’intuire un sì grande mistero di sì reciproco amore, così forte e sì uguale, tra le Divine Persone, che tutto si rendeva diffusivo per il copioso vantaggio degli uomini, e quindi consideravo l’ingratitudine degli uomini, nel mettere in non cale il copioso frutto di sì grande amore. In questa considerazione mi sarei stata non solo una bella ora, ma ancora tutta l’intera giornata, se non mi avesse fatto sentire[8] una voce nel mio interno che mi diceva: “Basta così per ora; vieni meco e vedi altri eccessi più grandi del mio amore verso di te”.
La mia mente, quindi, veniva trasportata a considerare il mio sempre amabile Gesù, risiedente nel purissimo seno di Maria Santissima, Vergine e Madre, ed io rimanevo stupita nel considerare un Dio sì grande che non può essere contenuto dai cieli, pur tuttavia, per amor dell’uomo, così annichilito, impicciolito e ristretto, da non potersi muovere, e quasi neppure respirare nel materno seno. A tale considerazione, che mi faceva struggere di amore pel nascituro Gesù, dal mio interno mi si faceva sentire una voce che mi diceva: “Vedi quanto ti ho amato? Deh! Procurami un po’ di largo nel tuo cuore; togli tutto ciò che non è mio, acciocché mi dia più agio a potermi muovere e respirare nel tuo cuore”. Il mio cuore allora si sentiva tutto distruggere di amore per lui, ed io gli chiedevo perdono dei falli miei, promettendogli di voler essere tutta sua; mi sfogavo in amarissimo pianto e, sebbene di giorno in giorno ripetevo la stessa promessa, nondimeno, ad onor del vero ed a mia confusione, mi trovavo di aver commessi i soliti miei difetti, a vista dei quali nel grande mio dolore esclamavo: “O mio buon Gesù, quanto sei stato e tuttora sei benevolo verso questa misera creatura, abbi sempre di me pietà!”.
Così passava la seconda ora di meditazione, e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi troppo seccante delle mie insipide e per me increscevoli narrazioni. E poiché la voce interna richiedeva da me che le stesse meditazioni si ripetessero in ciascun giorno della suddetta Novena, altrimenti non mi dava né tregua né riposo, m’ingegnavo come meglio potevo a far ciò: quando inginocchiata, quando prostrata a terra, e quando ne ero impedita dalla famiglia procuravo di seguirlo ancora lavorando, per contentare sempre il mio buon Gesù.
Così passai tutti i giorni della santa novena, tanto che giunse la vigilia in cui il mio diletto Gesù volle dar­mi la non insolita ed inaspettata ricompensa. Nella vigilia del santo Natale, io me ne stavo sola e solerte nel dar termine alle suddette meditazioni, e mentre mi sentivo più che mai accesa d’insolito fervore, mi si fa innanzi il graziosissimo bambinello Gesù, tutto grazioso e bello, sì, ma tremante più che mai dal freddo per il poco amore che gli si dava dalla ingrata creatura. Lo vidi in atto di volermi abbracciare, ed io, fuori di me per una insolita gioia, subito mi alzai e corsi per abbracciarlo, ma egli, nell’atto di stringerlo fra le mie braccia, tosto mi scomparve, il che di nuovo si ripetette per ben tre volte, senza farsi da me abbracciare, per cui mi fece restare tanto commossa ed accesa di amore, da farmi cadere in dolce ed amoroso deliquio, che mi è difficile poter dire a parola, né tampoco mettere su carta, giacché mi mancano i vocaboli per ben esprimermi; però non posso negare d’essermi sentita tutta trasformata di amore per lui, e ciò per parecchi giorni, e che poi a rilento venne a scemarsi quell’insolito fervore provato, sino a tanto che, dopo lungo tempo, non ne feci più conto alcuno, e nemmeno feci di ciò motto ad anima vivente. La voce interna, però, d’allora in poi non mi lasciò mai più e, perché vi cadevo ancora, dopo delle mie solite mancanze mi riprendeva in ogni cosa non fatta bene; mi correggeva, insegnandomi il modo di far tutto sempre bene; mi animava se ci cadevo di nuovo, facendomi promettere più diligenza in avvenire. In una parola, il Signore, d’allora e sempre, ha agito ed agisce con me come un buon padre verso un figlio tendente a sviare sempre dal diritto sentiero della virtù, usando tutte le paterne diligenze e cure per ritenerlo nel dovere, in modo da formarsene poi il suo onore, la sua gloria e la sua più ricercata e fulgida corona di virtù. Ma purtroppo, per mia vergogna e confusione, mi conviene tuttora esclamare: “Oh quanto, o Gesù, ti sono stata ingrata!”.
Il mio divin maestro Gesù, in questo modo diede principio e vi pose mano a spogliare il mio cuore da tutte le affezioni che ci attaccano alle creature, per cui sempre e con voce interna mi è venuto dicendomi: “Io sono il tuo tutto, che merita di essere amato da te con uniformità al mio amore che ti porto. Vedi, se tu non al­lontani da te questo piccolo mondo che da ogni intorno ti circonda, cioè, pensieri, affetti ed immaginazioni verso le creature, io non posso entrare del tutto nel tuo cuore e prendere stabile possesso.
Questo mormorio continuo nella tua mente è d’im­pedimento a farti sentire più chiara la mia voce, a farmi versare in te le mie grazie, a farti innamorare totalmente di me, che sono sposo tutt’affatto geloso. Promettimi di voler essere tutta mia, ed io metterò mano all’opera per fare di te tutto quello che voglio. Tu hai ragione di dirmi che tu nulla puoi fare da te sola, ma non temere, farò io il tutto per te; dammi la tua volontà e ciò mi basta”.
E tutto ciò me lo ripeteva più spesso nella santa comunione, in cui mi effondevo in lacrime di pentimento, e gli promettevo più che mai di essere tutta sua, gli chiedevo perdono se fino a quel punto non ero stata secondo il suo Volere, e mi protestavo di veramente volerlo amare di tutto cuore, pregandolo ancora che non mi lasciasse sola, ché senza di lui sentivo che avrei potuto far di peggio. E Gesù, facendo sentire la sua voce da dentro il mio cuore, continuava a dirmi: “No, no; verrò assieme con te, dovunque tu vada, affine di osservare tutte le tue azioni, per dirigere ed equilibrare tutti i movimenti e desideri del tuo cuore”.
E così me la passavo tutto il giorno, non solamente pensando continuamente a lui, ma intenta ancora alla sua voce, che internamente mi riprendeva ogniqualvolta mi lasciavo trasportare un po’ a lungo nel discorrere con la famiglia di cose indifferenti o meno che necessarie; subito mi diceva: “Questi tuoi discorsi non mi sono graditi, ché ti riempiono la mente di cose che a me non appartengono, e ti circondano il cuore di una polvere nociva, in modo da farti perdere l’efficacia della mia grazia elargitati, rendendola così debole e non più viva; deh, imita me, quando io stavo nella casa di Nazareth, che avevo la mia mente non ad altro occupata che a quanto concerneva la gloria del Padre mio e la salvezza delle anime; la mia bocca non si apriva se non a fare discorsi santi, cercando con le mie parole di indurre altri a far riparare le offese che si facevano al Padre mio, e quindi saettavo i cuori che, spezzati dal dolore e rammolliti dalla grazia, li tiravo al mio amore. Che dirti poi delle spirituali conferenze che tenevo con la Madre mia e col mio padre putativo? In una parola, tutto ciò che si diceva, richiamava Dio, e tutto ciò che si operava era indirizzato e riferito a lui; perché non potresti fare tu altrettanto?”.
Se non che io, al suo dire, internamente restavo mu­ta e tutta confusa, e quindi cercavo quanto più potevo di starmene sola, ed era allora che gli confessavo la mia debolezza, gli chiedevo aiuto e grazia efficace per poter eseguire puntualmente quanto egli da me richiedeva, protestandomi che da me sola non avrei potuto fare altro che male. Guai, poi, se la mia mente o il mio cuore sfuggiva talvolta ad interessarsi di persone a cui volevo ancor io bene; la sua voce subito mi riprendeva aspramente, dicendomi in tono vibrante: “Questo è dunque il bene che mi vuoi? Chi mai ti ha amato al par di me? Vedi, che se tu non la fai finita, io mi allontano da te, lasciandoti sola ed in balìa di te stessa”. Ed io allora, a tali e tanti altri rimproveri amari, mi sentivo spezzare il cuore, e non facevo che piangere dirottamente, chiedendogli perdono. Se non che una mattina, finalmente, dopo aver fatta la comunione, mi diede un lume tanto chiaro sull’amore sì grande che mi portava e sulla volubilità ed incostanza dell’amore delle creature, che il mio cuore ne restò tanto preso, che d’allora in poi non è stato più capace di amare altra creatura fuori di lui. M’insegnò anche il modo come amare le creature senza di staccarmi giammai da lui, col guardare cioè le creature come immagini di Dio, in modo che, se mi veniva fatto del bene, dovevo riconoscerlo come venuto da lui, primo movente ed autore di quel bene che mi si faceva, ma che si serviva di loro per elargirmelo; se invece mi veniva fatto di ricevere qualche male, dovevo pensare che Iddio permetteva farmelo fare dalle creature a scopo solo del mio maggior bene, sia spirituale che corporale. Il mio cuore, quindi, più a Dio si sentiva tirato e legato, per cui avveniva che, mirando tutte le creature in Dio e l’immagine di Dio in ciascuna di loro, non più perdevo la stima [verso di] loro, e se mi motteggiavano, mi sentivo anzi più obbligata ad amarle in Dio, pensando che mi facevano fare nuovi acquisti di meriti per l’anima mia; se all’opposto mi si appressavano con lodi ed applausi, ricevevo il tutto con disprezzo, dicendo fra me: oggi questo, domani possono odiarmi, in vista dell’incostanza della creatura. Il mio cuore, insomma, acquistò d’allora tale libertà da non saperlo esprimere.
Dopo che il mio divin maestro mi sottrasse dal mon­do esterno, facendomi allontanare da qualsiasi creatura, e mi liberò dai pensieri ed affetti verso la creatura, vi pose mano a purificare tutto l’interno del mio cuore, da cui faceva risuonare spesso spesso, la sua dolce voce al mio udito, dicendomi: “Adesso che siamo rimasti soli, e non v’è più chi possa disturbarci, non sei più contenta ora, più di prima, che eri intenta a contentare coloro che ti erano sempre da vicino? Vedi quanto è più facile contentare uno solo che tanti? Ora contentiamoci a vicenda, facendo conto che tu ed io siamo soli in questo mondo; promettimi di essermi fedele, ed io verserò in te tali e tante grazie da restarne tu stessa meravigliata. Sopra di te ho fatto grandi disegni; sempre però che tu voglia corrispondere e conformarti al mio Volere, mi delizierò nel fare di te una perfetta mia immagine, cominciando tu ad imitar me dal mio nascere sino al morire. Non aver dubbio che tu non possa riuscirvi, perché io stesso t’insegnerò un po’ alla volta il modo da tenervisi”. Di giorno in giorno, infatti, mi ha parlato, specie dopo la santa comunione, di che dovevo occuparmi ed affaticarmi per rendere copioso il frutto della grazia che mi elargiva, a scopo di sua imitazione.
La prima cosa di cui tanto mi ha parlato, è stato sul­la necessità di purificare l’interno del mio cuore, e l’an­nichilamento di me stessa con l’acquisto della santa umiltà, per cui mi veniva spesso dicendomi: “Vedi, per fare che io versi nel tuo cuore le mie grazie, è necessario che ti convinca che da te sola niente e sempre niente puoi; sappi che io mi guardo assai bene dal comunicare grazie e doni a quelle anime che sono sempre intente ad attribuire a sé i buoni effetti che risultano dalle loro opere fatte nella mia grazia; queste mi fanno tanti furti dei doni e grazie, dall’amor mio loro donati, che se li ritengono come acquistati da loro stesse, per cui sempre devi dire: ‘I frutti che si producono nel mio giardino non sono da attribuirsi a me, tapina, ma effetti dei doni del divino mio amore, elargiti a profusione al mio cuore’. Abbi sempre in mente che io sono largo nel versare anche a torrenti le mie grazie a quelle anime che conoscono se stesse, purché niente usurpino per loro, ma ogni cosa ri­tengano fatta mercé la mia grazia, e facendo quella stima che si conviene, non solo mi siano grate, ma vivano ancora in continuo timore che ogni grazia, dono e favore, possono perdere se non mi corrispondono. Nei cuori che puzzano di superbia, io non posso entrarvi, perché, gonfie queste anime di loro stesse, non hanno nel loro cuore un posticino dove collocarmi, e perché non fanno alcun conto delle mie grazie, e queste, di cadute in cadute, vanno in rovina. Perciò voglio che tu faccia spesso spesso, anzi continuamente, atti di umiltà, e che te ne stia come un bambino in fasce che, non potendo da sé muovere un passo, né una mano per operare, tutto si aspetta dalla madre; così voglio che te ne stia vicino a me, come un bambino cioè, a pregarmi sempre che ti aiuti e ti assista, confessandomi ancora il tuo nulla ed aspettando tutto da me”.
Oh quanto, a questo parlare di Gesù, m’impicciolivo e mi annichilivo, in modo che, alle volte sentivo tutto l’essere mio come disfatto ed annientato, tanto che, sen­tendomi incapace di operare il bene, né abile a dare un passo, né un respiro senza essere sorretta ed aiutata da Gesù, tuttavia cercavo di fare il possibile per contentarlo in tutto, rendendomi umile ed obbediente.
Considerando, di mano in mano, lo stato di vita a cui Gesù mi chiamava, messo a confronto di quello già da me decorso, mi sentivo circondata da tali e tante miserie, che avevo vergogna di presentarmi a qualsiasi per­sona, riconoscendomi come la più cattiva che sia stata nel mondo, per cui mi ritiravo per quanto più potevo dalle creature, dicendo fra me stessa: “Oh, se sapessero quanto sono stata cattiva e le tante grazie che il Signore mi sta facendo, certo che non potrebbero non avermi in orrore! Spero che Gesù non voglia permettere che sappiano l’una e l’altra cosa, altrimenti mi getterebbe nel fi­nale mio annientamento”. Malgrado ciò, mentre il giorno seguente andavo a ricevere Gesù sacramentato nel mio cuore, pareva che facesse festa, nel vedermi così annientata, e [per] altre cose concernenti lo stato del mio perfetto annientamento in cui mi chiamava e [che] venivami suggerendo; sempre però in modi diversi dall’an­tecedente. Potrei asserire, senza errare, che le quante volte Gesù mi ha parlato, ha usato meco modi sempre nuovi nello spiegarmi le cause e gli effetti della virtù che inculcavami, e che altri modi diversi terrebbe, se migliaia di volte volesse parlarmi sulla stessa virtù. O mio divin maestro, quanto sei sapiente! Ed io, che non ti ho corrisposto, quanto sono stata ingrata! Confesso, però, che la mia mente ha cercato sempre di afferrare la verità, come la volontà di seguirla, nell’atto che Gesù mi ha parlato, ma che poi ho molto perduto, sia l’una che l’altra, ed io non ho potuto effettuare sino al termine quanto Gesù chiedevami; per questo sempre più mi umi­liavo, confessando la mia dappocaggine, e promettendo in seguito più attenzione e buon volere; ma con tutto ciò, se non ero aiutata da Gesù non riuscivo a fare quel bene con quella perfezione da lui voluta.
Ed appunto per questo, egli spesse volte mi ha detto: “Se tu fossi stata più umile e sempre più vicina a me, non l’avresti fatta sì male quell’opera, ma perché talvolta hai creduto dar principio, proseguirla e terminarla senza di me, ti è riuscita, sebbene con tutto il tuo rincrescimento, non a seconda del mio Volere. Invocami, perciò, nel principio di ogni tua azione che intraprendi, abbimi sempre presente per farla meco, e così sarà compiuta a perfezione; sappi che facendo sempre così acquisterai la più profonda umiltà; all’opposto rientrerà in te la superbia, e questa soffocherà il germe, gettato in te, della bella virtù dell’umiltà”.
Così dicendo, mi diede tanta luce di grazia, da farmi comprendere quanto brutto è il peccato della superbia, che è il più grande affronto che gli si possa fare e la più orrenda ingratitudine, poiché questa accieca talmente l’anima da farla cadere nella più enorme empietà, cagionando così la totale rovina dell’anima.
Questa luce di grazia fuori dell’ordinario, accordatami spesso dal mio Gesù, mi lasciava una profonda tristezza del passato ed un vivo timore dell’avvenire, e perciò, non sapendo che fare per riparare il malfatto, facevo qualche mortificazione di mia volontà, ed altre ne chiedevo al confessore, che non sempre mi venivano concesse; ma tutto ciò che facevo sembrava ombra di penitenza, per cui non potendo e non sapendo fare altro, mi struggevo in lacrime, pensando ai peccati commessi, ed usavo ogni mezzo per unirmi al sempre mio amabile Gesù, giacché il timore che standogli discosta potessi far di peggio, si era talmente impossessato di me, che io stessa non so dire ciò che avveniva in me. E chi può dire le quante volte ricorrevo al mio Gesù, per confidargli la pena dei falli miei, che vivamente sentivo nell’intimo del mio cuore, per chiedergli le mille volte perdono, per ringraziarlo delle tante grazie concessemi, e per invocarlo ad essermi sempre più vicino?
“Vedi - gli dicevo spesso - o mio buon Gesù, quanto tempo ho perduto, quanta grazia ho sperperata, mentre che, sia nell’uno che nell’altra, avrei potuto tesoreggiare nell’accrescimento del mio amore verso di te, sommo ed unico mio bene e mio tutto?”.
E continuavo così a ripetere continuamente a Gesù il male commesso, e in un modo quasi noioso, ma Gesù severamente mi ha ripresa, dicendomi: “Non voglio più che ci pensi al passato. Sappi che quando un’anima si è umiliata, perché convinta di aver fatto il male, e quindi l’anima contrita ed umiliata è stata lavata nel mio sacramento di penitenza, ed è più disposta a morire anziché ritornare ad offendermi, è un affronto che fa alla mia misericordia, e nello stesso tempo impedimento al­l’amor mio, in quanto che ella, con la sua mente, s’in­volge sempre nel fango del passato, per cui non posso farle prendere nel mio amore il volo verso il cielo, sino a tanto che voglia continuare a stare immersa nelle sozze idee, pensando al passato. Vedi, io del male da te commesso non mi ricordo più, avendo tutto perfet­tamente dimenticato. Vedi tu forse qualche rancore in me? Oppure qualche ombra di malumore verso di te?”.
Ed io a lui: “No, no, Signore, che anzi sei tanto buono che mi sento spezzare il cuore nel pensare alla tua bontà e tenerezza di amore verso di me, quantunque ti sia stata tanto ingrata”.
Ed egli: “Ebbene, figlia mia, perché vuoi portarti ancora al passato? Quanto sarebbe meglio che pensassimo ad amarci vicendevolmente!
Cerca perciò, d’ora innanzi, di contentarmi, e sarai sempre in pace”.
D’allora in poi, infatti, non ci ho pensato più, proponendomi di contentare il mio adorabile Gesù, sebbene tornassi spesso spesso a pregarlo che avesse avuto la bontà d’insegnarmi il modo come riparare il tempo malamente passato. Ed egli: “Vedi che sono pronto a fare quello che tu vuoi, ma devi ricordare quel che da tempo ti dissi, che la cosa più vantaggiosa è l’imitazione della mia vita; dimmi, che cosa ti manca ora?”.
Ed io: “Signore, mi manca tutto; non ho altro che il proprio nulla”.
E Gesù: “Ebbene, non temere, che a poco a poco faremo tutto. Conosco quanto sei debole, ma è da me che attingerai la forza, la costanza e la buona volontà di seguire puntualmente tutto ciò che ti sarà detto. Voglio che tu sia retta nell’operare: un occhio deve guardare me, e l’altro a ciò che fai. Voglio che le creature ti scompariscano affatto, così che quando verrai da esse comandata, tutto eseguirai come se ti venisse comandato direttamente da me, affinché con l’occhio fisso in me non giudichi nessuno, non guardi se la cosa sia penosa e disgustosa, facile o difficile; chiuderai gli occhi a tutto ciò che ti sarà comandato, e li aprirai in me solo, pensando che sto sopra di te a mirare il tuo operato, e spesso mi dirai: ‘Signore, dammi la grazia di far bene ciò che per te solo voglio intraprendere, continuare e terminare; non voglio rendermi più schiava delle creature’. Ondeché, se cammini, se parli, se operi, e qualsiasi altra cosa, lo farai ad unico fine del mio maggior piacere e compiacenza. Voglio che nelle mortificazioni, ingiurie e contraddizioni che ti venissero fatte, abbia lo sguardo fisso in me, pensando che non sono le creature, ma io, che di mia propria bocca ti stia dicendo: ‘Figlia, voglio farti un po’ soffrire; voglio renderti bella per mezzo di queste sofferenze; voglio arricchire l’anima tua di nuovi meriti; voglio lavorare sull’anima tua in modo da renderti simile a me’. E tu, soffrendo tutto per amor mio, mi farai un’offerta in rendimento di grazie, per averti fatto operare con merito; ed ancora ricompenserai di qualche benefizio coloro che ti avranno dato occasione di farti soffrire a torto. Così facendo camminerai direttamente innanzi; le cose tutte non ti daranno più inquietudini, e godrai perfetta pace”.
Dopo qualche tempo che Gesù mi fece esercitare nelle cose suddette, mi parlò dello spirito di mortificazione, facendomi ben comprendere che se il tutto non viene informato dall’amor suo, ancorché fossero virtù e grandi sacrifizi, se non hanno per principio, centro e ter­mine, l’amor suo, si rendono insipidi e senza alcun merito; e perciò mi diceva:
“La carità è virtù che dà splendore a tutte le altre, in modo che senza di questa tutte le opere riescono morte. L’occhio mio non riceve alcun’attrattiva dalle opere fat­te senza lo spirito di carità, giacché dette opere non han­no accessibilità al mio cuore. Statti perciò attenta a fare le tue opere, anche minime, con lo spirito informato a carità, cioè fatte in me, con me e per me, con lo spirito di sacrifizio; altrimenti non saranno riconosciute da me come mie, se non portano l’impronta della tua e mia mortificazione. Come la moneta, se non portasse impressa l’immagine del proprio re, non sarebbe ritenuta dai popoli come buona, ma falsa e quindi di nessun valore, così delle tue opere, se non sono innestate alla mia croce. Ora non si tratta più di demolire l’affetto alle creature, ma a te stessa; voglio farti morire in te, per farti vivere solamente in me; voglio, in una parola, imprimere in te la mia stessa vita. È vero che ciò ti costerà più di quanto hai fatto finora, ma fatti coraggio e punto temere; non tu sola ciò farai, ma io insieme con te, e tu con me faremo tutto”.
Mi dava quindi altri novelli lumi circa l’annichila­mento di me stessa, dicendomi: “Tu non sei e non devi stimarti altro che un’ombra che rapidamente passa, la quale, mentre vai per prenderla, ti sfugge. Se vuoi, perciò, divenire in me qualche cosa di grande, stimati sempre nulla; compiacendomi del tuo vero abbassamento, verserò in te il mio tutto”.
E nel dir ciò, il mio buon Gesù imprimeva nella mia mente e nel mio cuore tale annientamento di me stessa, che sentivo di volermi nascondere nei più cupi abissi, e vedendomi impossibilitata a farlo, provavo tale rossore da vergognarmi di me stessa; e mentre mi trovavo in questo disfacimento di stima propria, mi diceva: “Fatti sempre più vicina a me, anzi appoggiati al mio braccio, che ti sosterrò e ti darò forza da operare sempre e tutto per me”.
Essendo Iddio sommamente perfetto in se stesso, non può assolutamente, uscendo fuori di sé, non aspirare che l’opera sua non tenda sempre alla massima perfezione. Ora, se tutto ciò che è stato creato da Dio mira a questo, e non può naturalmente cessare dal tendere al miglioramento di sé, tanto più la creatura fornita d’intel­ligenza e volontà, non deve mai mettere in non cale la sua perfezione, se brama che Iddio abbia a trovare in lei la Sua compiacenza. Questa creatura, formata da Dio a sua immagine e somiglianza, può veramente raggiungere la massima perfezione richiesta da Dio, se sarà in tut­to uniformata alla Volontà di Dio e corrispondente alle grazie da lui elargite. Ora, se il Signore mi sta da vicino, se vuole che mi appoggi al suo braccio, se con ogni sua attrattiva mi pressa a gettarmi nelle sue paterne braccia e vuole che da lui debba attingere tutta la forza per ben operare, non sarei io stolta ed insensata se rifiutassi questa grazia e non corrispondessi al suo Santo Volere? Perciò io, più che ogni altra creatura, mi sento in dovere di seguire sempre il mio amabile Gesù, che mi dice:
“Da te stessa, tu sei veramente cieca, ma non temere; la luce mia, più che mai, ti sarà di guida, anzi, io stesso sarò in te e con te ad operare cose meravigliose; seguimi dunque in tutto e vedrai. Per ora mi metto innanzi a te come specchio, e tu non farai che guardarmi per imitarmi, ma non perdere di vista la mia persona. La prima cosa che devi mortificare in te è la tua volontà; devi distruggere in te quell’io, che tutto brama, fuorché il bene. Questa tua volontà sia sacrificata come vittima innanzi a me, ed in modo tale da rendere una sola la tua e la mia Volontà. Non sei tu di ciò contenta? Preparati, quindi, alle contraddizioni che ti saranno date da me stesso e dalle creature”.
Quindi, come il vento fa spogliare delle fogliuzze il calice del fiore e presenta il piccolo frutto che in se si sviluppa, così, alle parole del mio Gesù per far spogliare la mia volontà da ogni atto volitivo, seguivano le contraddizioni, da cui dovevo io prendere esempio pratico nella sua imitazione: se al mattino, infatti, mi svegliavo e subito non mi levavo da letto, la sua voce interna mi diceva: “Tu comodamente riposi, ed io non ebbi altro letto che la croce; presto, presto, sollevati, non prenderti tanta soddisfazione”. Se camminavo, e la mia vista si spingeva un po’ lontano, mi riprendeva subito, dicendomi: “Non voglio che la tua vista si porti lontano da te non più della lunghezza di un passo, e solo per non inciampare”. Se mi trovavo in campagna circondata da fiori di ogni specie, da piante ed alberi, ecc., mi diceva: “Tutto ho creato io per amor tuo, e tu per amor mio privati di questo diletto”.
Se in chiesa mi vedeva girare lo sguardo per fissarlo sugli arredi sacri, i paramenti ed altre cose innocenti e sante, subito mi riprendeva, dicendomi ‘che altro diletto dovevo prendere se non in lui solo?’. Se stavo comodamente seduta mentre lavoravo, dicevami: “te ne stai troppo comoda; non pensi che la mia vita fu un continuo penare?”. Ed io subito, per contentarlo, mi sedevo sulla metà della sedia… Lavorando con lentezza e svogliatezza: “Presto - mi diceva - aiutati, guadagna il tempo per stare meco in orazione”.
Talvolta mi assegnava anche il lavoro che dovevo fare in una data ora, ed io mi affaticavo per contentarlo, e se non ci riuscivo lo pregavo che venisse ad aiutarmi; ed egli tante volte accondiscendeva, facendo meco quel lavoro per avermi seco libera, non per trastullarci, ma quasi sempre per più pregare. Succedeva, quindi, che Gesù in poco tempo, o da sola o insieme con lui, mi faceva terminare quel lavoro a cui dovevo occuparmi tutto il giorno, e mi tirava all’orazione in cui mi teneva tutta assorta nella contemplazione di tanti lumi e grazie che si partono da Dio alle creature; ed io mi sentivo più invogliata di prima a farlo, ed avrei voluto, chissà per quanto tempo, continuare a stare in orazione, giacché né provavo stanchezza, né mai tedio, e tanta sazietà sentivo in me, che ero contenta di non prendere altro cibo se non quello che veniva dall’orazione; ma Gesù mi contraddiceva, e subito, all’ora del pranzo, dicevami: “Presto, presto, non farti attendere; voglio che mangi per amor mio, e mentre prendi il cibo che si unisce al corpo, mi pregherai di unire il mio amore al tuo, cosicché il mio spirito venga ad unirsi all’anima tua e ogni cosa tua resterà santificata dall’amor mio”. Se talvolta, mangiando, sentivo gusto di qualche cosa e continuavo a mangiare, tosto Gesù mi riprendeva, dicendomi: “Ti sei forse dimenticata che io non ebbi altro gusto se non che di mortificarmi sempre per tuo amore? Lascia dunque di mangiare questo, e prendi invece quell’altra cosa a cui non senti gusto”.
In una parola, Gesù ha cercato di far morire la mia volontà anche nelle cose più minute, per farla vivere solo e sempre in lui. Ecco perché il Signore permetteva che anche in questo amore tutto santo e totalmente per lui mi venissero le più grandi contraddizioni; tanto è vero che, quanto più vivo si faceva in me il desiderio di avvicinarmi alla mensa eucaristica, tanto che il giorno precedente e tutta la notte non facevo altro che prepararmi, per meglio dispormi a riceverlo, non chiudendo gli occhi al sonno per i continui atti di amore a Gesù, dicevogli spesso spesso: “Signore, fa presto, che non posso starmi senza riceverti; accelera le ore, sorga subito il sole, che mi viene meno il cuore per il grande desiderio della santa comunione”.
E Gesù mi diceva: “Vedi, io sto solo e soffro senza di te; tu però non darti pena che non puoi dormire, si tratta di un sacrificio, facendo da lontano compagnia al tuo Dio, al tuo sposo, al tuo tutto, che è in veglia per amor tuo; vieni a sentire tutte le offese che continuamente gli si fanno dalle creature… Deh, non negarmi questo sollievo con la tua amorosa compagnia, affinché i palpiti del tuo amore, unendosi ai miei, vengano a sce­mare, in parte, l’amarezza che mi procurano le tante offese che ricevo di giorno e di notte, ed io non ti lascerò sola nelle tue sofferenze ed afflizioni, ma ti ricambierò della mia compagnia”.
Ebbene, la mattina seguente, non appena si faceva giorno, con questo grande desiderio di ricevere Gesù in sacramento, andavo in chiesa, e recandomi dal confessore, questi, senza che gli facessi parola, più di una vol­ta mi diceva: “Questa mattina voglio che ti privi della santa comunione”; il che mi riusciva tanto amaro che al­le volte, mentre mi struggevo in lacrime, non ardivo di palesare nemmeno al confessore l’amarezza che provava l’anima mia, giacché lo stesso Gesù voleva che mi comportassi in tal modo, altrimenti mi rimproverava, e voleva però che avessi piena confidenza in lui, mio sommo bene, per cui gli aprivo spesso il mio cuore e gli dicevo: “Ahi, mio dolce amore, è questo il frutto della veglia che abbiamo fatta entrambi questa notte? Chi avrebbe potuto mai immaginare che dopo tanto aspettare e tanto desiderarti avrei dovuto restare priva di te? Conosco bene che in tutto e sempre devo ubbidire, ma dimmi, o mio buon Gesù, posso io stare senza di te? Chi mi darà la forza a starmene priva? E potrò avere io mai il coraggio di partirmene di chiesa, senza che ti porti meco in casa, mio sommo bene? Io non so che altro fare, ma tu, o mio Gesù, se vuoi, puoi a tutto rimediare”. Ma mentre così parlavo mi sentivo un fuoco insolito vicino a me, poscia una fiamma d’amore mi si accendeva in me, ed una voce interna che così mi parlava: “Cheta­ti, chetati… Ecco che sono già nel tuo cuore; di che temi adesso? Non più affliggerti; voglio io stesso asciugarti le lacrime… Poverina, tu hai ragione, che non potevi stare senza di me, non è vero?”.
A questo operato di Gesù ed a questo suo parlare, io ne restavo sorpresa, e tanto annientata in me stessa, che rivolta al mio Gesù gli dicevo: “Se io fossi stata buona, e non così cattiva, non avresti data l’ispirazione al confessore di contraddirmi così”. E lo pregavo, quindi, a non permettere più simili contraddizioni, perché senza di lui non avrei potuto affatto resistere, e avrei fatto chissà quanti spropositi.
Un giorno, finalmente, dopo la comunione, me lo sentii dentro di me tutto amore e mostrandomi tanto affetto che io ne fui meravigliata, per cui gli dissi: “Don­de, Gesù mio, tanta bontà verso di me, così cattiva ed incorrispondente al tuo amore? Fossi almeno buona… Ti corrispondessi almeno… Io temo che per la mia incorrispondenza tu mi abbia da lasciare; ed invece ti veggo, ora, tutto bontà, e più d’ogni altro tempo stringerti meco più intimamente”. E Gesù sempre più affabile: “Diletta mia, le cose passate non hanno fatto altro in te che un piccolo preparativo; adesso voglio venire al­l’opera. Voglio disporre così il tuo cuore, che tu venga ad internarti nel mare immenso dell’acerbissima mia passione, affinché tu, quando avrai ben compreso l’acer­bità delle mie pene, l’amore che mi divorava nel desiderio di soffrirle tutte per te, e poi, chi sono io, che per te le ho sofferte, e chi sei tu, vilissima creatura, allora non ti opporrai ai colpi e ai dolori della tua passione che soffrirai per amor mio, e con animo acceso di amore accetterai la croce che io, per te, da un pezzo tengo preparata. Anzi, al solo considerare che io, tuo maestro, tanto ho sofferto per te, ombre ti parranno le tue pene, dolce ti sarà il patire, e giungerai a non poter stare senza patimenti”.
A questo parlare di Gesù mi sentivo più che mai ansiosa di patire, ma nondimeno la natura fremeva allora, al solo pensare ai patimenti a cui dovevo sottopormi, e quindi pregavo Gesù che mi avesse dato dinanzi al patire tanta forza e coraggio da farmi sentire amore allo stesso patire a cui egli mi chiamava, affinché non mi servissi dello stesso, avuto come dono, per offendere lui come donatore.
E Gesù, tutto bontà e dolcezza: “Ciò, mia cara, va da sé, perché se non si sentisse, in qualsiasi cosa che s’intraprende, un certo che di trasporto e di amore, non la si potrebbe certo ben eseguire; e chi la intraprende di malavoglia, anche a portarla a termine, non riceverà da me il guiderdone. Sappi che tu, per innamorarti della mia passione, prima di ogni altra cosa, dovrai considerare con pacatezza e riflessione tutto quanto che ho patito per te, affinché tu possa farti il giudizio conforme al mio, del vero amore, che nulla eccettua pel bene della persona amata”.
Così incoraggiata da Gesù, mi diedi a meditare la sua passione, che fece tanto bene all’anima mia, che posso ben asserire, senza tema di errare, che tutto il bene mi è venuto da questa fonte di grazia e di amore. D’allora in poi, la passione di Gesù si fece strada non solo nel mio cuore e nel mio spirito, che sentiva al vivo la compassione, ma ancora, mercé questa considerazione, tutto il mio corpo veniva preso da tale orgasmo da provare i dolorosi effetti della stessa passione… Mi vedevo immersa in essa come in un mare immenso di luce, che coi suoi infocati raggi tutta mi compenetrava nel­l’amore di Gesù, che tanto aveva patito per me; sentivo poscia che quegli infiniti raggi mi facevano comprendere chiaramente la pazienza, l’umiltà, l’obbedienza e la carità di Gesù, in ciò che ebbe a sopportare per amor mio, che io ne restavo del tutto annichilita, conoscendomi tanto dissimile da lui. Quei raggi che m’inonda­vano erano, per me, tanti rimproveri, che tacitamente mi dicevano: “Un Dio tanto paziente; e tu…? Un Dio sì umile e sottomesso anche agli stessi suoi nemici; e tu? Un Dio tutto carità, per te soffre tanto; e le tue sofferenze per amor suo, dove sono?”.
Altre volte, poi, Gesù stesso mi faceva la narrazione delle acerbe sue pene e dolori, da lui sofferti per amor mio, ed io ne restavo tanto commossa da piangere amaramente… Ed un giorno, più che mai, mentre lavorando consideravo le acerbissime pene di Gesù, sentii il mio cuore talmente oppresso da sentirmi mancare il respiro, e temendo che stesse per accadermi qualche male volli distrarmi con l’uscire fuori al balcone. Ma cosa veggo io mai? In mezzo alla strada, una folla immensa di gente che passava di sotto al balcone, conducente il mio mansuetissimo Gesù, con la croce sulle spalle, che veniva tirato or da una parte ed or dall’altra. Lo scorgevo affannoso, col volto grondante sangue, ed in un atteggiamen­to sì pietoso da intenerire le stesse pietre, allorché alzò gli occhi verso di me, in atto di chiedermi soccorso. Chi può dire, ora, il dolore che provai in me? Chi, l’impres­sione prodottami da scena sì straziante…? Entrai subito nella mia stanza, non sapendo io stessa ove mi trovassi; il cuore me lo sentivo spezzare dal dolore e, piangendo dirottamente, fra me dicevo: “Quanto soffri, o mio buon Gesù! Potessi almeno aiutarti e liberarti da quei lupi così arrabbiati, o almeno soffrire io quelle tue pene, quei tuoi dolori e strapazzi in vece tua, per dare a te il più grande sollievo…! Deh, mio bene, dammi il patire, perché non è giusto che tu debba soffrire tanto per amor mio, ed io, peccatrice, starmi senza soffrire nulla per te”.
E Gesù, d’allora, mi accese tanto di amore per il dolce patire, che mi riusciva più doloroso il non patire; e questa brama si fece sì viva in me, che non si è smorzata mai più in me, tanto che nella comunione non chiedo altro, ardentemente, che mi renda simile a lui per mezzo del dolce patire. Ed egli pare che talvolta mi abbia soddisfatta, togliendosi ora una spina della sua corona e conficcandola nel mio cuore, ora conficcando qualche altra alla mia testa, e talvolta i suoi chiodi alle mani ed ai piedi, facendomi soffrire acerbissimi dolori, ma mai pari a quelli sofferti da lui…
Altre volte mi è parso che Gesù avesse preso il mio cuore fra le sue mani, e che lo stringesse tanto forte che, per il dolore, mi sentivo perdere i sensi; e per tema che le persone che mi circondavano potessero accorgersi di ciò che avveniva in me, lo pregavo dicendogli: “Mio Gesù, di grazia, fa in modo che io soffra, ma che tutto sia nascosto”. Mi contentò sino ad un certo tempo, ma poi, a causa dei miei peccati, qualche cosa avvertirono esse.
Talvolta, dopo la comunione, Gesù mi diceva: “Non potrai veramente somigliarti a me, mercé i patimenti che soffri in mia presenza, giacché io mi muovo ad aiutarti; ora voglio lasciarti un po’ sola, però sii più attenta di prima, giacché non ti darò più la mano per sorreggerti, e non sarò a correggerti in tutto. Se per il passato non hai fatto altro che seguirmi nell’imitazione, ora farai e soffrirai tutto di buon animo, pensando solo che ti starò cogli occhi fissi sopra di te, però senza farmi da te né vedere né sentire; e quando tornerò a farmiti vedere, verrò per premiarti se sarai stata fedele nel seguirmi, oppure per castigarti se mi sarai stata infedele”.
A tale intimazione restai tanto spaventata ed atterrita, che gli dissi: “Signore, tu che sei il mio tutto e la mia vita, dimmi, come potrò vivere senza di te, mio bene? Chi mi darà la forza per ben comportarmi? Tu solo sei stato, tu solo sei e tu solo sarai la mia forza ed il mio sostegno. Può essere mai che tu, dopo che mi hai fatto lasciare il mondo esterno e tutto ciò che mi circondava, in modo che mi sento come se nessuno più esistesse per me, vuoi ora lasciarmi in balìa di me stessa e priva della tua presenza? Hai forse dimenticato che io sono sì cattiva, e che senza di te nulla posso fare di bene?”.
E Gesù, con aspetto dolce e sereno: “È appunto per questo che ciò faccio, per farti ben capire chi sei tu senza di me. Non ti rattristare, che lo faccio per il tuo maggior bene, volendo così preparare il tuo cuore a ricevere nuove grazie che mi riserbo versare su di te. Sinora ti ho assistita visibilmente; adesso invisibilmente, per farti toccare con mano il tuo nulla; ti sprofonderò nella più profonda umiltà e ti fonderò nella mia grazia, la più elet­ta, per edificare sopra di te le altissime mura di ciò che intendo fare di te. Perciò, invece di affliggerti, dovresti prendere motivo di rallegrarti meco e ringraziarmi, ché quanto più presto ti farò oltrepassare questo mare tempestoso, tanto più presto giungerai al porto di salvezza; e quanto più dure saranno le prove a cui ti assoggetterò, tante più grazie ti largirò. Coraggio, dunque, che verrò presto a consolarti nelle pene”.
Sì dicendo, si sottrasse dalla mia vista, benedicendomi. Chi può dire la pena che sentii, il vuoto che mi lasciò nel cuore, le amarezze che m’inondarono l’anima, e le lacrime che versarono i miei occhi, nel vedere che Gesù, benedicendomi, si allontanava da me? Mi rassegnai però alla sua Santissima Volontà e, dopo aver baciato da lontano le mille volte quella mano che mi aveva benedetta, dando freno alle lacrime, presi a dire: “Ad­dio, sposo santo, addio… Ricordati della promessa fattami, di farti cioè presto vedere; assistimi sempre ed ognora difendimi e fammi tutta tua”.
Sì dicendo, mi vidi allora tutta sola, come se per me tutto fosse finito, giacché lui solo tenevo, e mancandomi lui non mi restava altra consolazione; e perciò, tutto ciò che mi circondava si convertì in pene amarissime, poiché le stesse creature mi stuzzicavano in modo tale che mi pareva ascoltarle nel loro muto linguaggio, come se mi dicessero: “Vedi, noi siamo opera del tuo amante e amato bene; ed egli ora, dov’è?”.
Se guardavo l’acqua, il fuoco, i fiori, le stesse pietre della mia stanza, e che so io, pareva che tutti mi dicessero: “Ah, vedi, tutte queste cose sono opera del tuo sposo, e sebbene hai il bene di vedere queste sue opere, non hai il bene di vedere il loro Creatore”. Ed io: “Deh, opere del mio Signore, ditemi voi, che n’è di lui? ditemi dov’egli trovasi. A me disse che sarebbe presto tornato, ma chi di voi saprebbe dirmi quando dovrà tornare, quando lo rivedrò?”. In tale stato, eterni sembravami i giorni, sempiterne le notti in veglia, le ore e i minuti co­me secoli ed anni che nient’altro arrecavano che amare desolazione, da farmi sentire venir meno il palpito del cuore ed il respiro, ed alle volte mi si gelava tutta la persona ed ero presa da un certo fremito di morte che tutta m’invadeva, per cui le persone di famiglia vennero ad avvertirsi del mio male.
Ma tutto ciò che allora soffrivo venne attribuito a male fisico, e quindi la famiglia insisteva che mi dovessi curare; e tanto mi si disse e si fece, che dovetti sottopormi alla visita medica, che non mi fece alcun pro. Io intanto continuavo a rammentarmi di quanto aveva detto ed operato in me il buon Gesù; mi ricordavo per filo e per segno tutte le sue grazie, tutte le sue dolci ed affabili parole, una per una tutte le paterne sue esortazioni e correzioni, e i singoli suoi rimproveri per richiamarmi al dovere del suo amore.
Sarei una falsaria se non asserissi che tutto ciò che si è operato fin qui non sia stato operato se non nella piena grazia, elargitami in gran copia dal Signore, che del mio non v’è che il puro niente e l’inclinazione al male; sicché dico francamente d’aver toccato con mano che, senza le tante grazie e lumi, non avrei potuto far altro che male. Ed in vero, chi mi sottrasse dalle frivolezze del mondo se non il mio amabile Gesù? Chi mi fece sentire quel forte incitamento a fare la novena di Natale, con nove meditazioni quotidiane sul mistero dell’in­carnazione di Gesù, per cui ebbi tanti lumi superni e grazie celesti? Di chi quella voce che internamente cominciò a parlarmi nell’intimo del cuore, lungo la detta novena, e che poi ha continuato sino ad oggi, non dandomi tregua né pace se non avessi fatto prontamente ciò che mi chiedeva? E quel modo usato nel farmi innamorare di lui, facendosi da me vedere in forma di graziosissimo bambino? E quel farmi da maestro, con l’inse­gnarmi, correggermi, rimproverarmi, per indurmi a spogliare il cuore da quelle affezioncelle, infondendomi il vero spirito di mortificazione, di carità e di orazione, per cui mi feci strada nell’internarmi nel mare immenso della passione di Gesù, e da cui attinsi quella dolcezza nel patire, e quella vera amarezza nel non soffrire; non è stata tutta grazia sua, suo dono, anzi, opera vera di Gesù? Ed ora che vuole scherzare meco, col sottrarsi dalla mia vista, tocco con mano che senza di lui non sento più quell’amore sì sensibile che sentivo prima per Gesù, non più quei lumi così chiari nelle meditazioni, da farmi stare due o tre ore assorta nella dolce considerazione… Ora, sebbene faccio quanto più posso per continuare a fare quello che facevo con lui, giacché mi sento ancora ripetere quelle sue parole: ‘Se mi sarai fedele verrò a premiarti; se ingrata, verrò per castigarti’, pur nonpertanto non ci riesco, come quando mi stava visibilmente o sensibilmente da vicino. In questo stato di privazione del mio Gesù passavo la santa giornata quasi sempre in amarezza, in silenzio ed in aspettazione di lui, che ancor non veniva come mi aveva promesso: “Verrò presto da te”.
L’unico conforto, intanto, era il riceverlo in sacramento, giacché qui certo lo trovavo e non potevo dubitare, tanto più che, alle reiterate mie suppliche, mi contentava quasi sempre col farsi sentire palpitante nel mio cuore, sebbene non così amoroso ed affabile come prima di mettermi alla prova, ma piuttosto severo e senza farmi parola. Passato, finalmente, quel periodo di tempo, facendo ogni cosa voluta da Gesù alla men peggio, me lo sentii tornare nel cuore e mi parlò in questi termini: “Dimmi, figlia del mio Volere, tutto ciò che vuoi; manifestami tutto ciò che è passato in te di dubbi, di timori, e tutte le tue difficoltà, a fine d’insegnarti il modo di comportarti in avvenire, in cui sarò assente”.
Ed io, allora, gli feci fedele narrazione, dicendogli: “Signore, vedi, senza di te niente ho potuto fare di bene: la meditazione mi è riuscita molto disgustosa, da non aver il coraggio di offrirtela; nella comunione non sentivo di trattenermi a lungo, mancandomi le attrattive del tuo amore; mi son sentita sempre vuota e sempre penosa della tua assenza, che mi ha fatto provare agonie di mor­te; la natura, di tutto voleva sbrigarsi subito per sfuggire quella pena di vedersi sola, e tanto più che il trattenermi a lungo mi sembrava perdita di tempo; ma il timore, però, che al tuo ritorno venissi da te castigata se mi fossi resa infedele, mi ha fatto continuare. Aumentava poi l’interna mia pena il considerare che tu, mio bene, di continuo vieni offeso, ed io, di quegli atti di riparazione, di quelle visite a te sacramentato, che mi facevi fare, niente ho potuto far bene senza di te, perché non trovavo Colui col quale potermela intendere… Ora che sei meco, dimmi un po’, come dovevo io fare?”.
Ed egli, benignamente ammaestrandomi, mi diceva: “Hai fatto male a startene così turbata; non sai tu che io sono spirito di pace, e che la prima cosa che ti ho raccomandato è stata di non funestarla mai nel tuo cuore? In quanto all’orazione, poi, quando non ti senti raccolta, non devi pensare ad altro, se non a startene tranquillamente in essa, ma non al motivo perché non ti sia riuscita; facendo come tu dici, vieni tu stessa a procurarti la stessa distrazione. Umiliati invece, confessandoti meritevole di quelle [sofferenze], e statti tranquilla; e come agnellino nelle mani del carnefice, che mentre viene ucciso gliele lambisce, così tu, mentre ti vedrai percossa, abbattuta e sola, dovrai rassegnarti alle mie disposizioni, ringraziarmi di tutto cuore, riconoscendoti anzi degna di quelle pene, e mi offrirai tutte le tue amarezze, tedi ed angustie, come sacrifizio di lode, di soddisfazione, ed in riparazione delle offese che mi vengono fatte. Facendo così, la tua orazione [salirà] come incenso odorosissimo sino al mio trono, ferirà il mio cuore ed attirerai su di te novelle grazie e nuovi carismi. Il demonio, poi, vedendoti così umile, rassegnata e tutta inabissata nel tuo nulla, non avrà più forza di avvicinarsi a te e si morderà le labbra per sdegno. Ecco come condurti in tale stato, per acquistare meriti ove credevi di demeritare.
In quanto alla comunione poi, non voglio che ti affligga quando non ti senti di trattenerti a lungo, priva delle attrattive del mio amore. Fa quanto puoi per ben ricevermi; ringraziami dopo di avermi ricevuto; chiedimi quelle grazie ed aiuti di cui hai bisogno, e del resto non ti dar alcun pensiero, giacché quello che ti fo soffrire nella comunione non è altro che un’ombra delle pene che soffrii nel Getsemani. Se ora ti affliggi tanto, che sarà di te quando ti farò partecipe dei flagelli, delle spine e dei chiodi? Ti dico questo, perché il pensiero che metto ora in te delle pene maggiori, ha valore di farti soffrire con più coraggio queste minori… Quando nella comunione ti troverai dunque sola ed agonizzante, pensa un po’ all’agonia di morte che soffrii per te nell’orto del Getsemani, e mettiti vicino a me, per fare allora un confronto tra le tue e le mie acerbe pene. È vero che ti sentirai ancor là, sola e priva di me, ma vedrai ancor me solo ed abbandonato dai più fidi amici, che per aver omessa l’orazione li scorgerai addormentati; mi vedrai, coi lumi che ti darò, in mezzo alle più acerbe pene, circondato da aspidi e da vipere velenose, da cani idrofobi, quali sono i peccati di tutti gli uomini che furono, sono e saranno da venire al mondo, compresi anche i tuoi, che nell’as­sieme mi pesavano tanto allora, da farmi agonizzare, e mi sentivo come se stessi per essere divorato vivo; e fu per questo che, sentendo il mio cuore e tutta la mia persona come messa sotto la pressione d’un torchio, sudai vivo e copioso sangue da bagnare anche il terreno; e a tutto questo, aggiungi ancora l’abbandono del Padre mio…
Ora, dimmi tu: quando il tuo penare si è esteso a tanto? Se ti trovi dunque priva di me, vuota di ogni consolazione, ripiena di amarezze, colma di affanni e pene, portati con la mente presso di me, procura asciugarmi quel sangue, ed in sollievo della mia acerbissima agonia offrimi quelle tue ben lievi pene, e troverai così modo ed esca con cui trattenerti meco dopo la comunione. Non voglio con ciò dirti che [tu] non debba soffrire, giacché la mia privazione per se stessa è la pena più dura ed amara ch’io possa infliggere alle anime care; ma tu, intanto, pensa che col tuo penare e con la conformità alla mia Volontà mi darai gran sollievo e consolazione. Finalmente, in quanto alle visite che mi farai ed agli atti di riparazione, ho da dirti che io, nel sacramento del mio amore che ho istituito per te, continuo a fare ed a soffrire tutto ciò che feci e soffrii nel corso di trentatré anni di vita mortale. Amo nascere nel cuore di tutti i mortali, e perciò ubbidisco a chi dal cielo mi chiama ad immolarmi sull’altare; mi umilio nell’aspettare, nel chiamare, nell’ammaestrare, nell’illuminare, e chi vuole [può] ristorarsi di me sacramentato; a questi do consolazione, a quegli fortezza, e prego perciò il Padre che lo perdoni; vi sto per arricchire gli uni, per sposarmi agli altri, veglio per tutti; difendo chi vuol essere da me difeso; divinizzo chi vuol essere divinizzato; accompagno chi vuol essere accompagnato; piango per gli incauti e per gli scapestrati; mi rendo adorante in perpetuo per reintegrare l’armonia universale e per compiere il supremo disegno divino, qual è la glorificazione assoluta del Padre, nel perfetto omaggio da lui richiesto, ma che non gli viene dato da tutte le creature per cui mi sono sacramentato. Perciò voglio che tu, in ricambio di questo mio infinito amore verso il genere umano, mi faccia quotidianamente trentatré visite, onorando con esse gli anni della mia umanità, passati tra voi e per voi tutti, figli miei, rigenerati nel mio preziosissimo sangue, e che, insieme, tu unisca te a me in questo sacramento, avendo mira di far sempre le mie intenzioni di espiazione, di riparazione, d’immolazione e di adorazione perpetua.
Queste trentatré visite le farai sempre, in tutti i tempi, ogni giorno, ed in qualsiasi luogo potessi trovarti, giacché io le accetterò come se venissero fatte alla mia presenza sacramentale. Il tuo primo pensiero, al mattino, devi farlo volare a me, prigioniero d’amore, per darmi il tuo primo saluto d’amore per me, e quindi la prima confidenziale visita in cui, tu a me ed io a te, ci domanderemo scambievolmente come abbiamo passata la notte e c’incoraggeremo a vicenda; e così, l’ultimo tuo pensiero e l’ultimo tuo affetto della sera sarà che tu venga ancor da me, affinché ti dia la benedizione e affinché ti faccia riposare in me, con me e per me; e tu intanto mi scoccherai l’ultimo bacio d’amore, con la promessa d’unione con me sacramentato. Le altre visite me le farai come meglio ti si presenterà l’occasione più propizia a concentrarti tutta nel mio amore”.
Mentre Gesù così parlava, io sentivo scendere nel mio cuore un non so che di grazia, la quale lavorava in me in modo tale da farmi sentire il cuore quasi liquefatto d’amore, e la mente circonfusa da tante idee che si sperdeva in un’immensa luce di amore, per cui mi feci ardita a supplicarlo così: “Mio buon maestro, di grazia, te ne supplico, deh, statti meco e sempre più vicino, affinché sotto la tua direzione io prenda l’attitudine e l’abitudine a farle bene, giacché conosco, a prova, che tutto posso con te, ma senza di te sono incapace di fare alcunché di bene, ma solo capace di fare tutto il male”.
E Gesù, sempre benigno, mi soggiunse: “Sì, sì che ti contenterò in questo, come ti ho appagata in tante altre cose. Io voglio soltanto la tua buona volontà, ed io, qualsiasi aiuto tu voglia da me, te lo darò ben volentieri ed a profusione”.
Ah, quanto è stato buono con me il dolce Gesù, poiché mai la sua promessa è venuta meno! Anzi, ho da dire il vero, che egli ha dato ed ha fatto per me più di quanto mi aveva promesso, perciò ci son riuscita a contentarlo; e dal suo operato, lungi da me discaccio qualsiasi dubbio o perplessità di cuore, se mi dicessero non essere ciò che si opera in me se non che frutto di fantasia, giacché in quei giorni passati nella privazione del mio Gesù non potevo concepire nemmeno un buon pensiero, né dire una parola informata allo spirito di carità, né sentivo per alcuno nessuna attrattiva di bene.
Nel corso del tempo in cui Gesù sempre più si è appressato a me, mi ha parlato e mi si è fatto vedere, ho ben compreso ancora che Gesù, quando se ne viene con modi insoliti, non ha altro di mira che di disporre l’ani­ma mia a nuove e pesanti croci; ed infatti, prima l’attira a sé con gli stratagemmi della sua grazia, per cui l’ani­ma si sente vincolata di amore, e poscia le presenta l’ob­biettivo delle sue attrattive, affinché non ardisca menomamente opporvisi. Ed in vero, un giorno, dopo la comunione, mi sentii più intimamente unire a lui coi dorati lacci dell’amore, e mi fece una tempesta di amorose domande, e fra le altre: “Mi vuoi tu veramente bene? Sei tu disposta e pronta a fare ciò che io voglio da te? Se volessi da te, ancora, il sacrifizio della vita, saresti disposta, per amor mio, ad accettarlo di buon animo? Sappi che, se sei pronta a fare tutto ciò che io voglio, farò io a te e per te ciò che tu vuoi da me”.
Ed io: “Sì che ti voglio bene, mio amore e mio tutto; può darsi, forse, oggetto più bello, più santo, più amabile di te, mio bene? E poi, perché domandarmi se sia o no pronta a fare ciò che tu vuoi, mentre è da gran tempo che ti ho consegnata la mia volontà, ti ho pregato a non risparmiarmi punto, anche se tu volessi farmi a pezzi, e son disposta, purché potessi darti sempre gusto? Io mi sono abbandonata in te, sposo santo; opera quindi in me e su di me liberamente come meglio ti aggradi, fa di me quello che tu vuoi, ma dammi sempre novella grazia, che da me sola nulla posso”.
Ed egli: “Ma veramente sei tu pronta a tutto ciò che io voglio da te?”.
A questa iterata sua domanda, io mi sentivo schiacciare, mi vedevo confusa ed annientata; ma fidente in lui, con coraggio gli dissi: “Mio sempre amabile Gesù, nella mia nullità io sono quasi vacillante e tremebonda, ma diffidando di me confido animosamente in te, da cui mi sento venire quella prontezza di animo che mi farà affrontare e sormontare qualsiasi ostacolo e cimento”.
E Gesù a me: “Ebbene, voglio purificare l’anima tua da ogni minimo neo che potesse impedire l’amor mio in te; voglio provare la tua fedeltà verso di me, affinché possa averti come tutta mia; voglio constatare che tutto ciò che mi hai detto sia vero… Perciò voglio metterti alla prova di un’asprissima battaglia; ma tu in questo nulla hai da temere, ché io sarò tuo braccio e tua forza, e nulla di sinistro soffrirai, giacché io combatterò assieme con te e per te. La battaglia dunque è pronta; i nemici sono in tenebroso nascondiglio, ad escogitare il più aspro agguerrimento, ed io darò loro libertà di assalirti, di tormentarti e tentarti in ogni modo, affinché quando tu ti sarai liberata, mercé le armi delle tue virtù, che vibrerai contro i vizi opposti da loro, essi resteranno scornati per sempre, e tu ti troverai in possesso di maggiori virtù, e l’anima tua ritornerà come un re, il quale, dopo aver vinta la battaglia, glorioso fa ritorno al suo regno, fregiato di corone, medaglie e meriti, menando seco immense ricchezze. Così l’anima tua, abbellita ed arricchita di nuovi meriti, avrà da me non solo nuovi doni, ma io stesso a lei mi donerò. Coraggio dunque, che io, dopo la riportata vittoria della pugna sostenuta contro i demoni, immediatamente dopo formerò in te la mia stabile e perenne dimora, e così saremo sempre uniti. È vero che io ti metto in una prova molto dolorosa ed in un’accanita e sanguinosa lotta, giacché i demoni non ti daranno riposo né tregua, né di giorno, né di notte; ma tu intanto abbi sempre di mira quanto io ti propongo. Nel mio nome darai principio alla pugna; durante l’agone questo nome sarà da te continuamente invocato, ché ti servirà da baluardo di sicurezza; e questo[9] metterai come suggello al compimento della tua più dolorosa prova, incominciata, sostenuta e terminata vittoriosamente nel mio Volere, che vuol renderti onninamente simile a me; per cui non c’è altra via, né altro mezzo per giungervi, se non per mezzo d’indicibili ed immense tribolazioni, le quali poi ti verranno ben ricompensate”.
Chi può dire, ora, come restai costernata e impaurita nel sentire dal buon Gesù presagirmi l’accanita guerra che dovevo sostenere contro i demoni? Mi sentii gelare il sangue nelle vene, rizzare uno per uno tutti i capelli; la mia immaginazione si riempì tutta di neri spettri, che mi figuravo in atto di volermi divorare viva; già sembravami che d’ogni intorno fossi circondata di spiriti infernali. In questo stato sì doloroso ed angosciante, mi rivolsi al mio Gesù, dicendogli: “Signor mio, abbi tu pietà di me! Deh, non lasciarmi sola e così abbattuta di animo; non vedi che i demoni mi si appressano con tanta rabbia, che di me certo non lasceranno neppure la polvere? Come potrò loro resistere, se tu ti allontani da me? A te è ben nota la mia freddezza ed incostanza nel bene; sono tanto cattiva da non saper fare altro che male senza di te, mio bene; dammi almeno novella grazia, e sì copiosa, da non poterti più offendere. Non sai tu qual è la pena che più strazia l’anima mia? Ah, è il solo pensiero che tu possa lasciarmi sola nel diabolico cimento, per cui mi sento sbigottire e venir meno per la paura… Chi mi darà, in tal caso, animo per avventurarmi nel presagito combattimento? A chi rivolgerò la mia supplica, mercé la quale possa ottenere l’insegnamento pratico, per debellare il nemico? Fin da ora però benedico il tuo Santo Volere, e con le parole della tua e mia Santissima Madre, rivolte da lei all’arcangelo Gabriele, ti dico con tutto lo slancio del mio cuore: ‘Ecco la tua serva, si faccia di me secondo la tua parola, che è di vita eterna’ ”. A tali mie parole, Gesù riprese a dirmi:
“Non affliggerti tanto; sappi che giammai permetterò loro[10] che ti tentino sopra le tue forze; e sappi ancora che giammai io metto le anime in battaglia con loro, per fare che periscano; infatti, io prima misuro le loro[11] forze, dono la mia grazia efficace, e poi le introduco nel­l’aspra pugna, e se qualche anima talvolta precipita, non avviene mai per mancanza della mia grazia, ma perché non ha voluto tenersi unita con me, mercé la continua preghiera; omessa questa, è andata costei mendicando dalla creatura quella sensibilità smarrita del mio amore, senza considerare che soltanto io posso riempire e saziare il cuore umano; oppure, fondandosi costei nel proprio giudizio, si è di molto discostata dalla via sicura dell’ob­bedienza, credendo superbamente che il suo fosse più esatto e più equilibrato del giudizio di chi è guida di anime in vece mia… Quale meraviglia, che anime di sì dura tempra vi precipitino?
Ti raccomando, dunque, prima di ogni altra cosa, la costante preghiera, ancorché avessi a soffrire pene di morte, non tralasciando quelle preghiere che sei solita di fare; anzi, quanto più prossima ti vedrai al precipizio, tanto più nella preghiera fidente m’invocherai, nella pie­na certezza di essere da me aiutata. Di più voglio che da ora innanzi apra il tuo cuore al confessore, palesandogli tutto ciò che si svolgerà in te, nelle mani del quale ciecamente metterai la soluzione problematica del tuo avvenire, senza disanimo; e di quanto ti sarà detto, nulla tralascerai di mettere in esecuzione, rammentandoti allora ciò che ti dico ora: che sarai circondata da fitte tenebre, e tu ti troverai come chi non ha occhi, per cui ha bisogno d’una mano amica che lo guidi. Per te, l’occhio sarà la voce del confessore, che come luce e vento dissiperà le tenebre; la mano sarà l’obbedienza, che ti farà da guida e da sostegno per farti giungere a porto sicuro. Per ultimo ti raccomando il coraggio; voglio che entri con intrepidezza in battaglia, poiché la cosa che più fa temere un esercito nemico è notare il coraggio e la forza con cui gli avversari si avventurano alla pugna, affrontando essi, senza punto temerli, i più sinistri attacchi. Così i demoni, nulla più temono che un’anima agguerrita del suo coraggio, che si basi su di me, ed a me poggiata entri in mezzo a loro, rendendosi invitta sterminatrice di chi si para dinanzi, in modo che, atterriti e spaventati, vorrebbero darsi a precipitosa fuga, ma non possono, perché legati dalla mia Volontà, sono costretti a subire il più grande tormento e la loro maggior disdegnosa resa. Coraggio dunque, coraggio, che se mi sarai fedele, ti somministrerò sempre più copiosa la mia grazia e novella forza, affin di riuscire vittoriosa su di loro”.
Chi può dire, ora, il cambiamento che successe allora nel mio interno? Quale orrore, ahimè, s’impossessò di me! Quell’amore verso il mio amabile Gesù, che poco anzi sentivo vivamente in me, si convertì in odio atroce, il quale mi cagionava una pena indicibile, che l’anima si sentiva straziare al pensare che quel Signore, che era stato meco tanto benevolo, ora veniva da me come aborrito e bestemmiato, come se fosse divenuto il più crudele nemico; e poi, quel non poterlo più guardare nelle sue immagini perché sentivo impeto d’odio, il non poter avere in mano corone del santo rosario, né baciarle, perché ero portata a ridurle in frantumi, richiedeva tale resistenza che la natura tremava da capo a piè. Oh Dio, che pena amarissima! Io credo che se nell’inferno non ci fossero più pene, la sola pena di non potere più amare Dio sarebbe quella che formerebbe l’inferno, come fu, è e sarà orribile. Il demonio, talvolta, mi metteva innanzi tutte le grazie che il Signore mi aveva elargito, come se fosse stato un dilettevole lavorio della mia fantasia, e mi spingeva quindi a darmi alla vita libera e più comoda; altre volte, poi, me le manifestava come vere, e mi rimproverava col dirmi: “Vedi il gran bene che Gesù ti voleva? Ed ora mira la ricompensa che ti ha data in cambio della tua corrispondenza alle sue grazie, lasciandoti, co­me vedi, nelle nostre mani: sei nostra, ora, sei tutta nostra; per te tutto è finito, essendo divenuta come un trastullo infantile; non c’è più da sperare ch’egli possa riamarti...”.
A queste infernali parole di satana, io mi sentivo come sopraffare da un inesprimibile sdegno contro del Signore e da una estrema disperazione di salvezza, tanto che, avendo talvolta fra le mani immagini, fui spinta dalla forza dello sdegno e della disperazione a romperle a pezzi; se non che, nell’atto stesso che ciò facevo, pian­gevo a calde lacrime, e nel contempo baciavo e ribaciavo i pezzi di detta immagine. Se mi si domandasse come ciò avveniva, non saprei rispondere altro, che mi sentivo costretta a fare l’una e l’altra cosa; mi convinco però, ora, che l’atto di romperla mi veniva dal demonio con impeto irrefrenabile, mentre l’atto di baciarla me lo sentivo come effetto della grazia che operava in me. Ripensando perciò, subito dopo, a ciò che avveniva in me, sentivo l’anima straziata dal dolore; ed i demoni scorgendo ciò che facevo, credendosi corrisposti, facevano festa, se la ridevano e, facendo un chiasso indiavolato di assordanti grida e rumori, mi dicevano: “Vedi come ti sei resa nostra? Non ci resta a fare altro che portarti al­l’inferno anima e corpo, e quanto prima vedrai che ciò faremo!”.
I poverini però non [vedevano] il mio interno, che era sempre unito al mio Gesù, al quale volevo un mar di bene, e perciò baciavo e ribaciavo quei pezzi d’imma­gine, piangendo. Essi, che sono affatto alieni dalla preghiera, ogniqualvolta mi vedevano prostrata per terra, per pregare, si arrabbiavano tanto, che ora mi tiravano la veste ed ora la sedia a cui ero appoggiata, e m’incute­vano tale timore da farmi smettere talvolta la preghiera, credendo potermi così liberare da loro. E tutto ciò succedeva specie di notte, e quindi me ne andavo a letto; e per conciliare il sonno, mentalmente pregavo, e questi, accorgendosene forse, mi molestavano col tirarmi di dosso coperte e lenzuola e cuscino, e non potendo i miei occhi chiudersi al sonno, restavo allora in veglia, come colui che sa di avere presso di sé un crudele nemico che abbia giurato di togliergli a qualunque costo la vita, e che attende l’ora propizia per vibrargli il colpo fatale di morte. Mi sentivo quindi costretta a tenere gli occhi sempre spalancati, affine di potermi accorgere quando sarebbero venuti per portarmi all’inferno, e quindi avrei opposto al loro infernale disegno la più fiera resistenza… In questo stato di animo, i miei capelli si sollevavano, come spine, sulla mia testa; tutta la mia persona era presa da un sudor freddo che, agghiacciando il sangue nelle vene, me lo sentivo penetrare sin nelle midolla delle ossa, ed i nervi attratti mi facevano prendere certi moti convulsivi, per la paura.
Altre volte, poi, mi sentivo incitata a tali tentazioni di suicidio che, trovandomi presso qualche pozzo, mi sentivo spinta a gettarmi giù; oppure, vedendo un coltello od altra cosa micidiale, sentivo di volermi con esso ammazzare, per dare fine a tale stato di vita; se non che, conscia, io, dell’arte diabolica, fuggivo, schivando così il pericolo in cui mi vedevo, ma mi toccava però sentire queste diaboliche voci: “È inutile il tuo vivere, dopo aver commessi tanti peccati! Il tuo Dio ti ha abbandonata, giacché gli sei stata infedele!”; e mentre ciò dicevano, mi facevano credere come se realmente avessi commesso tante scelleratezze, che mai anima al mondo [ne] avesse fatte tante, e che perciò non ci sarebbe da sperare più misericordia… Anche nel fondo dell’anima sentivo ripetermi: “Come puoi tu vivere, sì nemica di Dio? Conosci tu quel Dio che hai tanto oltraggiato, bestemmiato ed odiato? Hai ardito offendere quel Dio immenso che dappertutto ti circonda? E non pensi che hai ardito offenderlo sotto gli stessi suoi occhi? Ed ora che hai perduto quel Dio dell’anima tua, chi ti darà più pace, chi da noi, tuoi e suoi nemici, ti libererà…?”.
Nell’udir ciò provavo in me tanta pena che mi sentivo morire e, sciogliendomi tutta in lacrime, mi sforzavo a pregare come meglio potevo, ma i demoni, per accrescere il mio terrore, mi molestavano con inusitate vessazioni, percuotendomi in ogni parte del corpo, pungendomi le membra con non so quali armi pungenti, e mi soffocavano ancora la gola in modo tale da farmi credere già prossima la morte… Una delle volte, mentre mi prostrai a pregare il buon Gesù che mi usasse misericordia e che mi sostenesse con novella forza, per resistere a sì diabolico cimento, mi sentii tirare da sottoterra i piedi, e poi vidi questa aprirmisi dinanzi, e da questa uscire rosseggianti fiamme, che tutta m’investirono, ma nel ritirarsi da me fecero violenza per sprofondarmi in essa; ma all’invocazione di Gesù mi lasciarono incolume e libera.
Dopo aver subìto quanto ho narrato, ed altro ancor di più, tanto che mi credevo quasi morta, venne il mio sempre pietosissimo Gesù a farmi riavere e a darmi novello vigor di vita, e poscia mi rincorò, facendomi ben capire che in tutto quel [che era] successo non v’era stata alcuna offesa, giacché la mia volontà aveva avuto tanta ripugnanza al male, da farmi provare pena amarissima al solo pensiero dell’ombra del peccato; mi esortò quindi a non dare mai retta al demonio, essendo spirito malvagio e perciò bugiardo, e dopo avermi detto: “Abbi pazienza ancora a soffrire altre molestie, che poi ti sarà data completa pace”, mi scomparve, lasciandomi sola, ma tutta ricreata di novello spirito.
Questo avvicinamento di Gesù, con le sue consolanti ed incoraggianti parole, succedeva di tanto in tanto, e specie quando mi vedeva pressoché in fin di vita, oppure quando mi doveva esporre a più aspri e novelli tormenti diabolici, allora più che mai si faceva vedere tutto festante e raggiante sprazzi di luce superna, che è impossibile a chi viene investito da quella non avere tutta la capacità di apprendere la verità.
Dopo di che mi trovai di nuovo esposta al cimento di novella lotta, e piena di dubbi, per cui cadevo in uno stato, il più triste ed angoscioso. Che dire, poi, del demonio, avverso alla comunione? Basta dire che usava ogni arte per non farmela fare, ora provando a convincermi che dopo tanti peccati di odio verso Dio era in me una sfacciata baldanza appressarmi a ricevere il Dio sacramentato, e che, se avessi ardito comunicarmi, non Gesù sarebbe venuto in me, ma il più nefando demonio, che dopo fieri tormenti mi avrebbe cagionato la morte eterna. È vero però, ancora, che dopo la comunione soffrivo pene indicibili e mortali, sicché a stento potevo riavermi, giacché mi riducevo in uno stato d’immobilità, ma subito mi riavevo, tosto che invocavo il nome di Gesù, oppure richiamandomi all’ubbidienza avuta di non giacere in tale stato; quindi trionfava in me sia l’ubbi­dienza che l’invocazione di Gesù, facendomi provare sollievo e gran refrigerio in mezzo a sì acerbe pene. Ciò nonostante, pure pregavo il confessore che mi facesse astenermi dalla comunione, per non provare quelle angosce di morte, ma questi s’imponeva e mi comandava, in precetto di santa obbedienza, che assolutamente dovevo farla; ma per parecchie volte me ne astenni, prevedendo la guerra che mi avrebbero fatta i demoni, e talvolta la facevo senza apparecchio[12] e quasi senza ringraziamento per non soffrire tanto. La sera, poi, mentre facevo per pregare o meditare, questi[13], dapprima mi smorzavano la lampada, e poi emettevano tali strazianti ruggiti, oppure voci così flebili, come se venissero da moribondi, da farmi spaventare ed omettere la preghiera. È impossibile dire ciò che facevano questi cani infernali contro di me, non solo per incutermi terrore, ma di più, per farmi tralasciare qualsiasi bene spirituale, nel corso di tre anni all’incirca, in cui soffrii questo duro cimento, tranne qualche settimana di tregua, tregua per altro che[14] non cessava del tutto, ma solo si mitigava in parte.
Chi non è stato sottoposto dal Signore a tali diabolici combattimenti stenterà, certo, a credere le dette prove, da me purtroppo sopportate; a chi poi mi presta fede e volesse sapere come venissero esse a cessare, dirò come il Signore, mio Gesù, in una comunione fatta, m’insegnò il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali, ed ecco come: ridurli all’estremo loro avvilimento, non solo col disprezzarli e non curarli affatto, come se fossero da meno delle stesse formiche, ma quanto col concentrarmi totalmente in Dio mercé l’orazione e la contemplazione, con l’introdurmi specialmente nelle sacratissime piaghe di Gesù, uniformando il mio spirito a quello di Gesù, penante nella [sua] umanità per reintegrare l’uomo, non solo della grazia perduta, ma ancora per sollevarlo a quella [vita] sovrannaturale ed a quello spirito di Gesù trionfante, che nella [sua] umanità vinse il mondo, la carne ed il demonio, col rendersi vittima di amore, di espiazione, di riparazione, di soddisfazione e di propiziazione presso l’eterno suo Padre, a cui offre il suo cuore, nel quale palpitano di amore tutti i suoi figli, redenti dal suo preziosissimo sangue e ritornati a novella vita di grazia. Ed in vero, non appena cominciai a fare quanto Gesù mi aveva insegnato, sentii infondermi tanta forza e coraggio da scemare in pochi giorni ogni timore. Quando, dunque, i demoni facevano strepiti e rumori, dicevo loro con disprezzo: “Si vede bene che voi, poverini, non avete altro mestiere che questo, e per passare il tempo vi esercitate in tali sciocchezze e balordaggini; proseguite pure, che quando vi sarete ben stancati prenderete riposo. Io, meschinelli miei, ho ben altro da fare, poiché per mezzo della preghiera voglio farmi strada per introdurmi nelle piaghe sacratissime di Gesù, affin di ottenere più amore al patire”.
Ed essi, più arrabbiati, facevano più forti rumori, si avvicinavano e, affettando ostentazione di futile violenza, fingevano di avvicinarsi per portarmi via, mentre dalle loro bocche d’inferno vomitavano una puzza orribile ed un’afa sì soffocante, che investendo tutta la mia persona mi cagionava internamente un certo brivido che cercavo di reprimere col farmi coraggio, e con forza dicevo loro: “Bugiardi che siete! Fingete avere del potere su di me per portarmi via, ma se ciò fosse vero l’avreste fatto fin dal primo giorno; ma siccome tutto ciò e falso, poiché quello che vi viene dato dall’Altissimo Dio è tut­to per il mio maggior bene, perciò cantate sempre lo stesso ritornello, sino a tanto che non crepiate di rabbia e di sdegno… Io intanto mi avvalgo di tutti i vostri tormenti per ottenere il maggior numero di conversioni di peccatori, giacché ho accettato dal buon Gesù a tal uopo il patire, solo a condizione di poter applicare le mie sofferenze a pro di quelle anime, mercé la mia volontà uniformata a quella di Dio”.
A tali parole si mettevano essi ad urlare ed a ringhiare come cani legati alla catena, che vorrebbero spez­zare per avventarsi tosto al ladro che loro si avvicina. Ed io, con più calma di prima, dicevo loro: “E che, non avete altro da fare? Avete sbagliato i vostri conti, certo, giacché non vi trovate più ai vostri calcoli, essendovi stata tolta qualche anima che, ravvedendosi, è ritornata nelle braccia di Gesù, mio bene; perciò avete ragione di lamentarvi”.
Se poi mandavano sibilanti lamenti, come se li com­patissi, burlandoli dicevo loro: “I poveri meschinelli non si sentono bene… ; voglio perciò procurarvi un vero sol­lievo a tanto vostro male”, e subito mi prostravo a pregare con fervore per la conversione dei più ostinati peccatori, facendo per loro tanti atti di amore verso il mio misericordioso Gesù, chiedendogli in ricambio le anime più perverse; ma questi, accorgendosi, cercavano tutti i mezzi per distogliermi dall’orazione; ma io, applicando questo patire in riparazione di tanti oltraggi che continuamente si fanno al buon Dio, dicevo loro con sogghigno: “Razza dei più vili che siete, non vi vergognate di scendere a tali bassezze per incutere timore a me e distrarmi, che niente altro sono che il puro nulla? Non vi fate perciò tenere e prendere da vili esseri da burla e da buffonate?”. Ed essi, mordendosi le labbra, bestemmiavano e scagliavano le loro invettive contro di me, cercando d’indurmi a bestemmiare ed odiare il buon Dio. Ed io, che sentivo pene indicibili sentendo strapazzare da loro il nome santo di Dio, mi mettevo a considerare la bontà del Signore, che merita tutto l’amore degli esseri dotati di ragione, e quindi, quella pena amarissima che mi avevano procurata, la trasformavo in lodi, offrendole a Dio in riparazione delle bestemmie che gli si fanno, da chi si ricorda di lui soltanto per bestemmiarlo, e dicevo fervorosamente:
“Accettate questi miei atti di amore e riconoscenza, in soddisfazione del disamore e sconoscenza, che come affronto vi viene fatto dai peccatori”. Ma essi non si arrestavano ancora, tanto che usavano ogni possibile arte per muovermi a disperazione; ed io dicevo loro: “Non mi curo né di paradiso, né d’inferno; mi preme solo di amare e fare amare ancor da altri il mio buon Dio. Il tempo presente mi è concesso non per pensare al tempo futuro, ma solo per corrispondere a chi mi ha prevenuta nella bontà ed amore, per rendermelo sempre più propizio. Il paradiso e l’inferno lo rimetto nelle sue mani, ed egli, che è tanto buono, mi darà quello che più mi conviene, per poterlo sempre più glorificare…”.
E poi dicevo loro: “Sappiate che questa è dottrina insegnata dal mio buon maestro Gesù Cristo, il quale mi ha fatto conoscere che il mezzo più efficace per acquistare il paradiso è il protestare continuamente di non vo­ler mai avere la volontà di offendere Iddio, anche a costo della propria vita, quanto sprezzando[15] la vana apprensione di aver agito male, quando però in questo manca la volontà, il che è farina del vostro sacco, o meschinelli, che volete smerciare ai gonzi, per gettare nel loro animo dubbi e timori, e ciò non è perché amino di più Iddio, ma per indurli alla totale disperazione… Ma io, sappiate che non intendo perdere del tempo a considerare se abbia o no fatto del male, ma mi basta l’inten­zione non ritrattata di volerlo[16] sempre più amare; dinanzi a qualunque offesa a Dio mi è sufficiente la protesta fatta in contrario, il che mi dà la vera calma e pace e mi libera da ogni timore, e l’anima mia si sente più libera di spaziare i cieli in cerca dell’unico e sommo mio bene”. Ora, chi può dire la rabbia da cui furono presi i demoni, vedendo che tutte le loro arti ed astuzie riuscivano a loro danno e confusione, e dove credevano di guadagnare vi perdevano? L’anima mia, invece, dalle stesse tentazioni ed artifizi diabolici sentiva, anziché perdere, acquistare più veemente amore verso Dio ed il prossimo, giacché seguendo l’insegnamento ricevuto da Gesù Cristo, quando questi mi percuotevano, umiliandomi, cioè, ringraziando il mio Dio ed accettando tutto ciò che soffrivo in penitenza dei miei peccati, ancora lo offrivo a lui come atti di amore, di espiazione e di riparazione per le tante offese che di continuo si fanno nel mondo; e spesso, quando i demoni mi tentavano di suicidio, dicevo loro: “Né a voi, né a me, è dato distruggere la propria vita; a voi solo è dato di tormentarmi, per farmi più guadagnare, ma non vi è data facoltà a poter togliere la mia esistenza, che io, poi, a vostro marcio dispetto, voglio in Dio sempre vivere per poter più amare il mio Dio, per essere sempre utile nel sovvenire spiritualmente il mio prossimo, al quale applico quanto da voi mi viene dato di soffrire”.
Finalmente capirono che non c’era più per loro speranza di ottenere nulla, anzi s’avvidero che facevano grandi perdite di anime, e perciò cominciarono a fare lunghe soste, a fine di riprendere l’aspro combattimento quando io meno me l’aspettassi.
Intanto, per me cominciò una nuova vita di sofferenze, che proverò alla meglio di narrare.
La famiglia, vedendomi molto sciupata, volle menarmi in campagna per farmi rimettere in salute; ma Iddio qui mi chiamava per assoggettarmi a nuovo stato di vita. Stando dunque in campagna, i demoni, un giorno, vollero fare l’ultimo tentativo, che riuscì per me tanto penoso da farmi perdere le forze e venir meno, tanto che verso sera perdetti totalmente i sensi, ed ero ridotta quasi in uno stato di morte, quando mi venne fatto di vedere Gesù circondato da innumerevoli nemici, tra i quali vi erano quelli che aspramente lo battevano, altri che lo schiaffeggiavano, e di altri, chi gli conficcava le spine nella testa, chi gli spezzava le gambe e chi le braccia, e lo conciarono in modo tale che lo ridussero quasi a pezzi; e dopo, tutto pesto, lo deposero nelle braccia della Madonna Santissima. E perché ciò avvenne poco discosto da me, la Vergine Madre, dopo che lo prese fra le braccia, tutta dolente e sciolta in dirotto pianto, m’invitò ad appressarmi dicendomi: “Vedi, figlia mia, come mi han ridotto mio Figlio…? Considera un poco, come gli uomini trattano il loro Signore, Creatore e sommo loro benefattore: non gli danno tregua né riposo, ed ora me lo danno tutto pesto. Considera le enormi offese che essi commettono trattandolo in tal modo, e i terribili castighi che saranno da Dio, suo Padre, versati su di loro”.
In intanto[17] cercai di ravvisarlo in quel penoso suo stato, e lo mirai tutto sangue, tutto piaghe, ed il suo corpo quasi trinciato e ridotto allo stato di morte, per cui provai in me tale pena che, se mi fosse stato dato, avrei voluto mille volte morire, soffrendo in me la stessa passione acerbissima di Gesù, pur di non vedere più soffrire tanto, tanto, il diletto mio amante Gesù; ed a tal vista ebbi vergogna delle mie lievissime sofferenze procuratemi dai demoni, in paragone di quelle del mio Gesù, inflittegli dagli uomini. La Santissima Vergine, intanto, vedendomi tanto commossa, mi soggiunse, piangendo ancora: “Avvicinati a baciare le piaghe del mio dolcissimo e sommo bene; ed intanto, dimmi, vorresti renderti vittima per amor suo? Vorresti soffrire in vece sua, che tanto soffre per te, le offese che gli vengono fatte dagli uomini perversi e scellerati? Con l’offrirti tu vittima, gli darai sollievo e ristoro in tanto suo penare; non sei tu disposta a questo sacrifizio per amor suo, che tanto ti ama?”.
A tal vista provai in me tale annientamento da non potersi credere. Mi vedevo, infatti, tanto cattiva ed indegna, che non ardivo pronunziare parola di assentimento; e poi mi sentii tremare in tutta la persona, e [sentii] tale estrema debolezza, che appena mi sentivo un fil di vita, tanto più che da lontano scorgevo i demoni in concilio fra loro, che si agguerrivano e strepitavano, decisi a che, se io accettavo di rendermi vittima per il sollievo di Gesù, dovevano fare su di me quegli acerbi strazi che gli uomini avevano già fatto al mio Signore. Tale annunzio mi causò sì indicibili dolori e contorcimento di nervi, che credetti di finirla[18]; ma riavutami alquanto, mi avvicinai a baciare tutte le piaghe del mio Gesù, le quali, dietro i miei baci, si cicatrizzavano e risanavano; ed il mio Signore, che poco anzi mi sembrava quasi morto, riprese novella vita; e nello stesso tempo ricevetti tali lumi circa le offese che si fanno a Gesù, e tale attrattiva di amore verso il mio sommo bene, che in cuor mio mi decidevo a rendermi vittima, ancorché dovessi subire mille atroci morti, ché un tanto buon Signore tutto da me meritava in ricambio di tanto suo amore. Tutto ciò avvenne mentre silenziosamente baciavo le sue piaghe, giacché correndo i miei sguardi agli sguardi moribondi di Gesù, vedevo che a vista d’occhio acquistavano essi vivacità e gettavano in me tali saette e dardi infocati di amore che, penetrando nel fondo del mio cuore, non po­tevano non attendere da me la corrispondenza ai tanti inviti che internamente facevami provare il mio Gesù. Si aggiunga, ancora a questo, che la Santissima Vergine mi dava tali incitamenti di benevolenza verso Gesù, che non mi è dato esprimere... Facevami comprendere come se dovessi divenire una sola cosa con Gesù; ma come ciò si svolgesse nell’animo mio, non lo saprei dire affatto. È certo, però, che uno sguardo più penetrante di Gesù, con uno sprazzo di vivida luce, ricreò talmente il mio spirito che mi sentii di acquistare nuova vita; e poi Gesù prese a dirmi: “Hai tu notate le enormi offese che mi si fanno dalla maggior parte degli uomini? Tutti quanti, chi più, chi meno, camminano per le vie dell’ini­quità, per cui senz’accorgersi, moltissimi di loro, propendendo sempre al male, d’abisso in abisso precipiteranno nel caos infernale.
Vieni meco ad offrirti, ancor tu, dinanzi alla divina giustizia oltraggiata, come vittima di riparazione per le tante offese che ognora si fanno, affinché il mio celeste Padre voglia rendersi propizio nell’accordarci la conversione dei peccatori, che ad occhi chiusi bevono alla fonte avvelenata del peccato. Sappi però che un duplice campo ti si para dinanzi, l’uno di sofferenze più o meno atroci, e l’altro di singolarissime grazie. Se rifiuti il primo, non potrai certo partecipare a quelle grazie che si promettono a chi avrà valorosamente combattuto; ma se accetti, sappi che io non più ti lascerò sola, ma verrò in te a soffrire tutto ciò che di oltraggio mi si fa dagli uomini, il che è certamente una grazia singolarissima, che a pochi è stata accordata, giacché [gli uomini] non sono disposti ad entrare nel centro del campo delle sofferenze. In secondo luogo è grazia ancora singolarissima, che ti prometto di sublimarti a tanta gloria per quante sofferenze ti saranno da me comunicate. In terzo luogo ti darò per aiuto, e come guida e conforto, la mia Santissima Madre, a cui è dato concederti qualsiasi grazia, a misura della tua corrispondenza. Ti pare poco, forse, questo im­menso mio bene? Ebbene, fanne la prova, e ti troverai elevata al di sopra di tutti i mortali”.
Sì dicendo, mi parve che mi affidasse alla sua Madre Santissima, la quale, di buon animo e con volto giulivo, mi accettava, ed io pure, con gratitudine, mi offrii a Gesù e alla Santissima Vergine, pronta ad assoggettarmi a tutto ciò che da me si voleva. Riavutami poi da questo primo deferente atto di conformità della mia volontà a quella di Gesù, mi trovai per la prima volta immersa in tali pene di annientamento di me stessa, come giammai avevo provato fino a quel momento. Mi vedevo meno che un misero vermiciattolo, che non sa fare altro che strisciare stentatamente la terra, e perciò mi rivolsi al Signore, dicendogli: “Aiutami tu, o mio buon Gesù, che la tua onnipotenza, in me e fuori di me, mi fa tanto peso che mi atterra... Veggo bene che se tu non mi sollevi, il mio nulla finirà col disfarsi. Dammi dunque il patire, che lo accetto, ma ti prego di darmi maggior forza, giacché in questo stato più che mai mi sento morire”.
Da quel giorno ebbi maggior grazia ed aiuti superni; le visite del Signore si alternavano con quelle della Vergine Santissima, con un quasi continuo moto di via vai, a seconda che mi attaccavano battaglia i demoni, i quali, quanto più mi vedevano disposta al patire, tanto più si manifestavano arrabbiati… È inutile dire che, se le sofferenze subite sin qui da parte dei demoni sono state indicibili, quasi ombra sembrano ora, messe a confronto delle più lievi pene accettate dalle mani di Gesù, con animo disposto di espiare e riparare le moltissime e gravissime offese che si fanno dall’uomo a Dio; ma io che confido in Dio, che atterra e suscita, che affanna e consola, sono disposta a soffrirle per la sua maggior gloria e per il bene del mio prossimo, come lo vuole il Signore.
Non erano passati che pochi giorni dacché mi ero assoggettata allo stato di vittima, dopo i tanti iterati inviti del mio Gesù e della Vergine Madre, allorché mi sentii per una seconda volta perdere i sensi, mentre il Signore mi si fece vedere con la corona di spine in testa, e tutto grondante sangue, ed avvicinandosi a me, benignamente mi disse:
“Figlia mia, vedi un po’ che mi fanno soffrire gli uomini, tutt’affatto disamorati di me. È tanta la loro superbia in questi tristi tempi, che ancor l’aria che respirano me l’hanno infettata; anzi, è tanta la puzza di questa, che non solo si è sparsa per ogni dove, ma è giunta fin anche al trono del Padre mio, lassù nei cieli… Come puoi considerare, lo stato di questi miseri, tende a far serrare per essi le porte del cielo; essi non hanno più occhi per conoscere la verità, perché dal peccato della superbia ne è venuto l’offuscamento totale della loro men­te e la depravazione del cuore, per cui si son lasciati andare ad ogni stravizio e turpitudine; ed io, in vista della loro perdita, ne soffro acerbe pene ed indicibili spasimi e dolori. Deh, dammi tu un sollievo ed una riparazione ai tanti torti che mi si fanno continuamente… Non vorresti tu mitigare almeno i miei dolori, che mi procura questa corona di pungentissime spine?”.
A tal vista ed a tali parole provai in me tale annientamento e vergogna di me stessa, che subito gli risposi: “Mio dolcissimo Gesù, al vederti così grondante sangue ed al sentirti sì dolorosamente parlare, mi sono tanto confusa ed ho provato tale raccapriccio, da non farmi punto pensare a domandarti codesta corona per poterti sollevare in tante pene; ma ora che soavemente da te mi viene offerta, te ne ringrazio, ed insieme ti prego di darmi novella grazia per poter ben patire”.
Allora Gesù si tolse la corona, e dopo averla conficcata nella mia testa, incoraggiandomi a ben soffrire, mi disparve. Ora, chi può dire gli acerbi spasimi che provai nel ritornare in me stessa? Ad ogni movimento di testa, i dolori si facevano sempre più acuti, e le punture le sentivo penetrare negli occhi, nelle orecchie, dietro la nuca e persino nella bocca, che si strinse in modo tale da impedirmi di poter prendere qualsiasi cibo.
In questo stato di sofferenze la duravo da due a tre giorni, e quindi senza cibo per non sentire più acerbi spasimi; e quando questi si erano alquanto mitigati e prendevo qualche cosa per ristorarmi, subito dopo il mio Gesù sensibilmente mi premeva con la sua mano la testa, e le pene venivano rinnovate con più intensità di spasimi e dolori, in modo che talvolta giungevo a perdere totalmente i sensi.
Da principio, questo stato di vittima fu per me duplicatamente[19] angoscioso, sia per ciò che soffrivo a pia­cimento del mio buon Gesù, sia ancora per le continue inquietudini che mi venivano da parte della famiglia, giacché questa, vedendomi tanto soffrire, e non potendo arrivare ad indurmi a prendere alcunché di cibo, si ostinarono a credere che io mi avessi[20] procurato questo male per non voler più restare in campagna e, naturalmente, attribuivano ogni rifiuto di cibo a mero mio capriccio e per fare che ci ritirassimo subito in città. Per questo duplice motivo di sofferenze la mia natura voleva risentirsi, giacché non era vero quanto mi si attribuiva dalla stessa [famiglia]; ed il Signore, poi, giustamente mi riprendeva, giacché non voleva in me questo risentimento, altrimenti mi minacciava che avrebbe ritirata la sua grazia.
Una sera, più d’ogni altro tempo, mentre si stava a tavola, ed io in tale stato di sofferenze da non poter aprire la bocca per prendere qualsiasi cibo, la famiglia, prima con le buone e poscia con sdegno, mi spingevano ad obbedire, ma io, perché non potevo contentarla, mi misi a piangere, e per non essere vista mi recai in altra stanza ed ivi seguitai a piangere ed a supplicare il mio Gesù e la Vergine Santissima che mi concedessero aiuto e forza per sopportare tale cimento; ma mentre ciò facevo perdetti i sensi, esclamando di cuore:
“Oh mio buon Dio, che dura pena è il dover sopportare la famiglia, irritata con me per sì ingiusta causa! Deh, non permettere che mi abbiano più a vedere in questo stato di sofferenze, poiché sento tale vergogna di essere vista in tale stato, da preferire piuttosto la morte che far conoscere ciò che passa tra me e te, mio Dio. E ciò lo sento tanto vivamente in me, senza saper dire il perché, che non posso far a meno di andare a nascondermi in quei luoghi ove non possa essere veduta da anima vivente. Quando poi sono sorpresa all’improv­viso, e tanto da non aver il tempo di celare le mie pene e le mie dolci ed amare lacrime, mi sento come annientare e disfare il mio essere qual neve al fuoco, ed in questo stato tutta la mia persona sente in sé un non so che di calore non naturale, che dapprima mi fa versare copiosi sudori e poi mi fa agghiacciare e tremare dal freddo. Deh, mio buon Gesù, tu solo puoi rimediare a questo mio stato, facendomi restare sempre nascosta agli sguar­di altrui, e facendo credere alla famiglia che io mi apparto da loro solo per pregare e non per altro motivo; e che questo bramo, che sia solo noto a te, mio Dio”.
Mentre così mi sfogavo in lacrime, ed in preghiere e voti, Gesù si fece vedere in mezzo ad innumerevoli nemici, che gli facevano ogni sorta di insulti, e vi erano di quelli che lo calpestavano sotto i loro piedi, chi lo tirava per i capelli, ed altri che lo bestemmiavano con vituperevoli e diabolici sarcasmi. A me pareva che il mio amabile Gesù volesse sottrarsi da sotto quei fetidissimi piedi, guardando a sé d’intorno, come se andasse in cerca di qualche persona che con mano amica lo liberasse, ma mi accorgevo che non trovava nessuno che si fosse prestato all’uopo.
Considerando io, poi, il grande affronto che si faceva a Gesù, piangevo amaramente, ed avrei voluto andare in mezzo a quei lupi rapaci per liberare il mio Gesù, ma non ardivo, conoscendomi inetta, e perciò da lontano facevo fervorose istanze presso Gesù perché mi avesse fatta degna di soffrire in vece sua quelle pene, o che al meno me ne avesse fatto parte, esclamando: “Deh, o Gesù, potessi io prendere su di me queste pene per sollevarti e liberarti da questi nemici!”.
Ma mentre ciò dicevo, quei furibondi nemici, quasi che avessero intesa la mia preghiera, con impeto si avventarono contro di me, come cani arrabbiati, percuotendomi, strappandomi i capelli e calpestandomi sotto i loro piedi; ed io intanto, pur soffrendo, sentivo dentro di me un contento nel vedere che così potevo procurare a Gesù un po’ di tregua; ma quei nemici, vedendomi forse così contenta, mi scomparvero, mentre Gesù mi si fece dappresso per compatire me, ed io per compatire lui, sebbene non ardivo profferire parola.
Gesù intanto, rompendo per primo il nostro silenzio, mi disse: “Figlia mia, tutto ciò che hai visto fare di me è un nulla, è un puro nulla in paragone di tutte le offese che continuamente mi si fanno dalla maggior parte del genere umano, giacché la loro cecità li tiene ingolfati nelle cose terrene, ed in modo tale da farli giungere ad essere spietati e crudeli non solo verso di me, ma ancora verso loro stessi; hanno ripudiato ogni verità soprannaturale, col darsi a tutto potere in cerca di oro, ma questo li ha gettati nel fango di ogni laidezza, e son caduti nel totale disprezzo del loro eterno destino. Chi, o figlia, metterà argine all’inondazione di sì mostruosa ingratitudine, che si allarga sempre più nel mondo dei falsi gaudenti? Chi avrà compassione di tanta gente che mi costa sangue e vive come sepolta nel lezzo delle cose terrene? Deh, tu vieni meco a pregare, a piangere ed a riparare le offese che si fanno al Padre mio da tanti ciechi, che sono tutt’occhi per tutto ciò che sa di terra, mentre poi non hanno mente e cuore che per disprezzare e calpestare le tante mie grazie, mettendo tutto ciò che fu operato da me per loro vantaggio, sotto i loro immondi piedi, quasi fosse vile fango. Deh, sollevati almeno tu sopra tutto ciò che sa di terra; aborrisci e disprezza tutto ciò che non appartiene a me; innamorati sempre più delle cose che sanno di cielo, quindi non ti facciano più impressione gli insulti che ti vengono dalla famiglia, ora che hai visto soffrire me, insulti di gran lunga più abominevoli; ti stia solo a cuore l’onor mio ed il ripararmi dalle tante offese che mi si fanno continuamente, e poi considera la perdita di tante anime. Deh, non lasciarmi solo in mezzo a tante pene che mi straziano il cuore…! Ma sappi, però, che tutto ciò che adesso soffri è un nulla in paragone di tutte quelle pene che soffrirai in appresso; non te l’ho forse detto e ripetuto più volte, che voglio da te l’imi­tazione della mia vita? Vedi un po’ quanto sei ancora dissimile da me. Perciò fatti coraggio e nulla temere, che così potrai giungere in certo qual modo ad aiutarmi”.
Dopo questo parlare di Gesù, ritornando in me stessa, mi accorsi che ero circondata da persone di famiglia che piangevano e si turbavano tutti, temendo che mi tro­vassi in fin di vita; perciò si affrettarono a menarmi in città, affin di farmi osservare dai medici. Non so dire, ora, quale pena sentissi in me, nel pensare che la famiglia era conscia del male fisico che si era impossessato di me e per cui dovevo assoggettarmi alla visita medica. Mi sciolsi, quindi, in lacrime, e lamentandomi col mio Gesù gli dissi: “Quante volte, o mio buon Gesù, non ti ho detto che voglio teco patire, ma sempre però nel nascondimento? Questo è il solo mio contento, e tu adesso, perché anche di questo mi privi? Deh, dimmi tu ora, come farò a far tornare in pace la mia famiglia? Tu solo, o mio buon Gesù, puoi suggerirmi il modo da tenervi. Deh, sollevami un poco, affinché essi per causa mia non abbiano ad affliggersi tanto; non vedi quanto sono rattristati? Non senti ciò che dicono ed intendono di fare? Vi è chi la pensa in un modo, chi in un altro; chi vuole che mi faccia usare[21] un rimedio, e chi un altro. Sono tut­t’occhi e sempre intenti sulla mia persona, in modo da non lasciarmi più sola, impedendomi così di riacquistare la perduta pace. Deh, aiutami in tante pene, una più acerba dell’altra, in guisa tale da farmi sentire mancare la vita!”.
A questo mio dire, il mio buon Gesù, con tutta dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti tanto affliggere per questo, ma cerca piuttosto di abbandonarti come morta fra le mie braccia; sino a tanto che tu terrai gli occhi aperti per notare ciò che fanno e dicono le creature sul conto tuo, sappi che io non posso agire liberamente su di te. Vuoi tu, dunque, non fidarti di me? Non hai tu forse sperimentato quanto bene ti voglio? Ebbene, sappi che tutto ciò che permetto che avvenga su di te, sia per mezzo dei demoni o da parte delle creature, è diretto da me per il tuo maggior bene, che ad altro non tende che a condurre l’anima tua a quello stato ultimo a cui ti ho eletta. Voglio perciò che te ne stia tranquillamente fra le mie braccia e ad occhi chiusi, senza guardare né investigare quanto avviene intorno a te, ché all’opposto ci perderai il tempo e mai potrai arrivare a quello stato di vita a cui sei chiamata. Poi, in quanto alle persone che ti circondano, non darti alcun pensiero; usa loro profondo silenzio, sii benigna e sottomessa in tutto; fa in modo che la tua vita, il tuo pensiero, il tuo palpito, i tuoi respiri ed affetti, siano continui atti di riparazione, placanti la divina giustizia, offrendo insieme le molestie che ti procureranno le creature”.
Dopo di avermi Gesù così ammaestrata, disparve. Allora mi concentrai in me stessa, e feci quanto più potetti per rassegnarmi alla Divina Volontà, quantunque alle volte piangessi amaramente, giacché fui messa dalla famiglia in tali strettezze, fino ad essere obbligata ad assoggettarmi alla visita medica, che giudicò non essere altro la mia infermità che un fatto tutto nervoso, e quindi mi vennero ordinate medicine, passeggiate, bagni freddi e continue distrazioni, e nel contempo [il medico] raccomandò a tutti che si guardassero bene di menomamente muovermi durante il periodo di assopimento, che in caso contrario mi avrebbero piuttosto spezzata anziché sollevarmi, se avessero voluto mettermi in tutt’altra posizione da quella in cui mi trovavo.
Quindi mi si suscitò dalla famiglia, in questo tempo, una tacita e finta guerra, giacché vi era chi mi ostacolava l’andata in chiesa, chi mi toglieva la libertà con la sua continua compagnia anche in casa, chi mi pressava a farmi prendere le medicine e tutti gli altri espedienti ordinati dal medico, e chi, finalmente, voleva farmi la guardia fin nella notte. Dopo di che fu facile per loro accorgersi di tutto ciò che spesso spesso mi accadeva. Dopo un lungo periodo di tempo, però, non potendone più, mi feci coraggio a lamentarmi così col mio Signore: “Oh, quanto mi è penoso, mio diletto Gesù, il modo con cui si porta meco la mia famiglia, perché è giunta a privarmi anche delle cose a me più care; difatti sono priva di tutto, ed anche dei tuoi stessi sacramenti! Chi l’avreb­be mai pensato, che io dovessi giungere a questo stato di vita, senza potermi più avvicinare a te in sacramento, sia per visitarti che per riceverti sacramentalmente? Chissà dove questo stato di vita andrà a finire! Deh, dammi tu, o Gesù, novello aiuto e forza, altrimenti la natura mi verrà meno!”.
E Gesù, facendosi vedere, subito mi diceva: “Co­raggio, figlia mia, sono io in tuo aiuto: che temi? Pensa che ancor io ho sofferto da parte di ogni ceto di persone, e di queste vi fu chi la pensava in un modo e chi in un altro, e tanto che le cose più sante che io facevo erano da esse giudicate sinistramente come difettose ed anche cattive, e perfino giunsero a dirmi che io ero indemonia­to, tanto che mi facevano guardare dagli altri con occhi torvi e mi tenevano fra loro di malavoglia, macchinando il modo ed il mezzo come togliermi al più presto la vita, perché la mia presenza si era resa per molti intollerabile, perché ero di riprensione per i malvagi, mentre ero di tanta consolazione per i buoni.
Non vuoi tu, dunque, renderti simile a me, che ti voglio a parte delle sofferenze che soffrii da parte delle creature?”.
Ed io a lui: “Tutto abbraccio, per amor tuo”.
Parecchi anni passai così, soffrendo sempre, ora da parte dei demoni , ora da parte delle creature, ed ora da parte di Gesù, che mi metteva a parte delle sue pene; ed in questo stato giunsi alle volte a soffrire in modo tale da vergognarmi di me stessa, e soprattutto provavo in me gran rossore di farmi vedere da qualsiasi persona. Veramente per me è stato sempre gran sacrifizio il comparire in una conversazione anche famigliare, anche quando mi trovavo in stato di perfetta salute; ma ora più che mai, essendo in stato di sofferenze, provo tale rossore e tale turbamento di spirito da farmi stupidire. La famiglia intanto, vedendo che a nulla approdavano le cure ordinatemi dal primo medico, procurò farmi visitare da altri ancora, che non riuscirono a farmi migliorare in salute; ed io, versando sempre lacrime amarissime, dicevo al mio amabile Gesù: “Signore, non vedi come le mie sofferenze si rendono sempre più manifeste a tutti? Non solo la famiglia, ma ancora gli estranei sanno le cose mie, ed io, che mi veggo per questo tutta confusione…
A me pare che tutti quelli che mi vedono mi segnano a dito, come se avessi commessa qualche scelleratezza, oppure come se le mie sofferenze fossero le più contagiose, il che mi fa provare pene indicibili; e non so dirti veramente cosa è successo in me, che spesso spesso tornano ad agitarmi queste cattive apprensioni, che in fine, se si va in fondo, sono false. Deh, tu solo, o Gesù, puoi liberarmi da tale pubblicità e da tale mia apprensione; a te sta il farmi patire di nascosto; te ne prego, te ne scongiuro, per tua bontà, esaudiscimi!”.
Finse dapprima nostro Signore di non ascoltarmi, per cui si aumentarono in me le pene, ma poscia, compatendomi, con tutta bontà mi disse: “Figlia mia, vieni a me, che ti voglio consolare; hai ragione di lamentarti così, perché ne soffri, ma fa d’uopo ricordarti quanto di più ho sofferto io per amor tuo. Anche le mie sofferenze furono sino ad un certo punto del tutto nascoste; ma quando, poi, la Volontà del Padre mio volle farmi patire pubblicamente, allora prontamente andai incontro ad ogni disprezzo, obbrobrio e confusione, sino ad essere spogliato delle vesti, e nudo comparii in mezzo ad un numerosissimo popolo.
Potresti tu, ora, immaginare maggior confusione di questa? Eppure la mia natura sentiva in sé viva questa specie di confusione, ma l’occhio mio era fisso alla Vo­lontà del Padre mio, e quella pena e sofferenza era da me offerta in riparazione delle tante offese che vengono fatte dagli uomini, col commettere le più nefande azioni al cospetto del cielo e della terra, senza alcun rossore; anzi vengono esse commesse ad occhi aperti e menandone vanto ed ostentazione, quasi avessero compiuta qualche opera grandiosa. Ed io, ad onta di tutto questo, dicevo al Padre mio: ‘Padre santo, accettate la mia confusione ed i miei obbrobri in riparazione delle tante colpe che si commettono da tanti, che sfacciatamente e senza ritegno ti offendono pubblicamente, con grave scandalo dei piccoli fanciulli; perdonate, dunque, loro, e date superni lumi, acciò vedano la bruttezza del peccato e, convertendosi, ritornino sul sentiero della virtù’.
Ora, se tu vuoi imitarmi, non devi partecipare a questa specie di sofferenze tollerate ancor da me per il maggior bene di tutti? Non sai tu che i più bei regali che posso dare alle anime che più mi si son rese care, sono le croci e le pene che tanto mi toccarono da vicino? Tu sei ancor bambinella nella via della croce, e perciò ti senti troppo debole, ma quando ti sarai fatta più grandicella ed avrai ben conosciuto quanto è prezioso il nudo patire, allora più vivo si farà in te il desiderio di patire; appoggiati, dunque, in me e riposati, che così acquisterai fortezza ed amore al patire”.
Dopo aver passati sei o sette mesi all’incirca in questo stato di sofferenze, si accrebbero ancor di più, tanto che fui costretta a starmene a letto, giacché spesso spesso perdevo i sensi e la bocca mi si stringeva tanto, da impedirmi affatto di prendere cibo alcuno, ma appena ci riuscivo ad ingoiare qualche goccia di bevanda, che veniva rimessa subito per i continui conati di vomito, che peraltro sempre si presenta nelle maggiori sofferenze. Non venendo intanto a capo con medicinali nel corso di diciotto e più giorni di cura, si pensò di mandare per[22] il confessore, a scopo unico di confessarmi. Venuto questi e trovatami in quello stato quasi d’impietrimento, mi diede l’obbedienza di sciogliermi da quello stato di assopimento mortale e, segnandomi di croce, [mi] aiutò a sciogliermi dall’attrito nervoso; e quando mi riebbi del tutto, mi si fece a domandare: “Dimmi, che cosa tu hai?”.
Ed io, tacendo il tutto, gli dissi solo: “Padre, questa deve essere cosa del demonio”.
Ed il confessore, senza altra interrogazione e senza alcuna esitazione, mi disse: “Non temere, che non è il demonio, e se lo fosse, il padre, in nome di Dio, lo discaccerebbe da te”.
Indi, riuscì a darmi il solito moto alle braccia, a far­mi aprire liberamente la bocca ed a farmi prendere alcunché di ristoro. Ritiratosi poi il confessore, mi misi a considerare che tutto ciò che si era operato in me era d’attribuirsi alla santità di questo santo sacerdote, e lo tenni quasi per miracolo, tanto che fra me stessa, nel pieno mio contento, dicevo: “Vedi un po’, se l’avessi durata in quello stato poco altro tempo, certo che avrei dato termine alla mia vita, mentre ora mi sento rinata a novella vita”.
Ne ringrazio sempre e ringrazierò Iddio che, mercé la santità di questo suo ministro, mi ha ridonata la sanità. Non posso però celare che in quello stato di morte ero del tutto rassegnata, e che ora, pur vedendomi libera, non provi un certo rincrescimento di non essere già mor­ta; ma il Signore non lo permise, giacché aveva da compiere i suoi disegni su di me, e perciò in giornata diede segno di volermi vittima perenne, col farmi sorprendere di tanto in tanto da quello stato di prima, ma mi riavevo però da me sola. Poscia mi rimisi in salute, e scesi per un altro periodo di tempo alla chiesa, per adempiere ai miei doveri religiosi[23]. In questo frattempo, nel comunicarmi, [ricevendo] Gesù in sacramento, quando dovevo essere messa a parte delle sue pene e sofferenze, Gesù me lo diceva, e tante volte mi determinava l’ora in cui doveva egli venire a comunicarmele; il che, preannunziato e poscia comunicato da Gesù e da me sofferto, non pensavo di dirlo al confessore, giacché credevo che al solo pensiero di volerlo manifestare sarei divenuta l’ani­ma più superba di questo mondo, ancorché avessi scorta della santità nel mio padre spirituale, e ciò per un pezzo di tempo, giacché dallo stato di sofferenze partecipate da Gesù mi riavevo senza alcun aiuto umano, ma tutto lo faceva Gesù. Dopo avvenne che Gesù, nel comunicarmi le sue pene e dolori, non più potetti come prima riavermi da me stessa, tanto che la famiglia dovette di nuovo, un giorno, mandare per il confessore, il quale, dopo avermi fatto riacquistare i sensi, mi disse:
“D’ora innanzi, quando scenderai in chiesa, o prima di comunicarti o dopo che avrai terminato il ringraziamento, vieni al confessionale affinché ti dia la benedizione di grazia, per farti sempre riavere dallo stato di sofferenza, senza che io venga in casa tua”.
Una mattina, fra le altre, il Signore, dopo che mi feci la santa comunione, mi fece capire che in giornata sarei stata sorpresa da quello stato di assopimento totale, giacché m’invitava a tenergli compagnia col partecipare alle sue pene, che soffriva per le offese dei malvagi uomini. Ed io, conoscendo che il confessore non era in città, subito gli dissi: “Mio buon Gesù, se vuoi comunicarmi le tue pene, tu stesso dovrai avere la bontà di farmi riavere, che in caso contrario la famiglia non potrà mandare per il confessore, perché questi trovasi in campagna”. Il Signore, tutto bontà, mi disse: “Figlia mia, la tua fiducia deve essere posta tutta in me; statti tranquilla e tutta fiduciosa e rassegnata, perché l’una e l’altra cosa, riposte in me, rendono l’anima luminosa, facendo stare a posto tutte le altre passioni, di modo che, attirato io da quei raggi di luce, da me stesso comunicati, prendo possesso dell’anima e la informo tutta in me, per farla vivere della mia stessa vita”.
Al suo dire non potetti opporre il mio, e dovetti perciò rassegnarmi alla sua Santa Volontà, ed offrii la comunione già fatta, come l’ultima della mia vita; dando, quindi, l’ultimo addio a Gesù in sacramento me ne uscii di chiesa, e sebbene rassegnata, sentivo pur nonostante un certo sconforto in me, pensando a ciò che stava per succedermi; perciò tutto quel giorno non feci altro che piangere e pregare il Signore che mi avesse comunicata novella forza per farmi riavere, in caso che fosse[24] per alienarmi dai sensi. E di fatto, in quel giorno stesso fui sorpresa da quello stato mortale, che mi riuscì troppo amaro, poiché con una croce nuova e pesantissima mi trovai ridotta in tale stato; [croce] che io stessa giudico e stimo come la più grave e pesante di quante altre ho dovuto subire sino a questo momento.
Mentre rientrai in quello stato di mortali sofferenze, mi rassegnai tutta a fare la Volontà di Dio e a dispormi a ben morire. La famiglia, intanto, vedendomi in quello stato, e tanto soffrire, cercò di mandare per un altro sacerdote, [che] chissà avesse voluto usarmi la carità di farmi riavere; ma chi per un verso e chi per un altro, quasi tutti, domandati a prestarsi, si rifiutarono a venire in casa, e dovetti così passare la bellezza di dieci giorni in quel continuo impietrimento di vita mortale, ma senza morire. Finalmente, all’undicesimo giorno, si prestò il confessore[25] a cui ero andata a confessarmi per la prima comunione, quando ero ancor piccina. Questi venne e mi fece riavere, come l’altra volta mi aveva fatto rinvenire il mio proprio confessore. In questo rinvenimento compresi due cose: l’una, che non era la santità sola del sacerdote che mi faceva riacquistare i sensi, ma soprattutto la potestà data da Dio al sacerdote, come suo ministro; e la seconda cosa che appresi fu nel ravvisare i disegni di Dio su di me, che era[26] per involgermi nella rete soggettiva dei suoi ministri. Da qui mi ebbi una lunga guerra da parte dei sacerdoti; e vi fu, infatti, chi disse essere lo stato mio, tutto finzione, e ciò per farmi tenere da santa; chi diceva di essere io meritevole di bastonate, per cui non avrei dovuto più cadere in quello stato di vero infingimento; chi mi credeva indemoniata, e chi mol­te altre cose ancora, di cui il tacere è sempre bello; e perciò io non sapevo come fare, giacché se la famiglia si faceva un dovere per non farmi stare tanto a penare in quello stato, e ne andava in cerca di qualche sacerdote per farlo venire, lo sa Iddio a quali strani rifiuti fu essa sottoposta, tanto che non ne poteva più, e specie la mia povera mamma, che per me ha versato un fiume di amarissime lacrime. In quanto a me, taccio; dico solo che il Signore voglia perdonare tutti coloro che mi hanno dato motivo di più soffrire, e voglia ricompensare centuplica­tamente quelli che hanno meco sofferto, specie la mam­ma mia.
S’immagini, dunque, quanto amara mi è riuscita quella soggezione, che per riavermi debba avere assolu­to bisogno del sacerdote. Lo sa Iddio, quante volte non lo abbia io pregato, versando amarissime lacrime, perché mi avesse liberata da sì dolorosa soggezione al suo ministro! E quante volte non gli ho resistito quando era per chiedermi lo stato di vittima, volendo che avesse accettato su di me le sue acerbissime pene? Facevo allora, più che mai, violenza a me stessa per resistere, dicendo al mio buon Gesù: “Signore, allora accetterò lo stato di vittima, a cui tu mi chiami, quando mi avrai promesso che tu stesso mi farai riavere senza la venuta del sacerdote, altrimenti non voglio sottopormi ad un sì pesante giogo”.
E resistetti così, per quanto potetti, sino al terzo giorno; ma chi può resistere a Dio, se incondizionatamente egli lo vuole? Nei tre giorni di resistenza usata verso il mio Dio, uscivo spesso in queste espressioni contro le sue promesse, dicendogli con calde ed amare lacrime: “Signore, tu non stai più alla tua parola datami. Come, dicevi che il tutto si sarebbe svolto tra te e me sola, ed ora vuoi far sottentrare un terzo per farmi riavere, per cui sarò costretta a far conoscere ciò che passa tra te e me? E dire, poi, che questo non è condiscenden­te a venire quando tu mi metti in condizione di non potermi riavere. Non hai tu notato i tanti strani rifiuti ed umiliazioni che la famiglia ha dovuto subire, a torto, dai sacerdoti, che nulla ci credono? Si può, certamente, farne a meno, e così staremo contenti; contenta cioè io, nell’accettare le tue sofferenze su di me, quante volte tu lo voglia, e nel tempo stesso più contento ancora sarai tu stesso, che mi farai riavere quando lo vorrai, ed in questo modo non potrai essere scontento di me, perché sarai contento della mia condiscendenza a fare il tuo Volere”. Ma per quanto io dicessi, Gesù taceva e, fingendo ascol­tarmi, sembrava che avesse voluto esaudirmi in tutto, che, secondo me, era giusto e santo; ma invece prese a dirmi: “Figlia mia, non temere; io son quelli[27] che dà le tenebre e quelli che dà la luce; ora è stato il tempo delle tenebre, ma il tempo della luce presto verrà. Sappi, ancora, che è mio solito di manifestare le mie opere a mezzo dei sacerdoti; ad essi ho dato la potestà di ben conoscere, giudicare ed incoraggiare l’anima a proseguire senza perplessità, se il tutto è secondo il criterio della rivelazione, oppure a far sospendere e tralasciare tutto quello che ritenga non essere, a seconda del criterio di esse rivelazioni”.
È inutile dire che al parlare di Gesù dovetti ammutolire e, a torto collo, senz’altro assoggettarmi al suo espresso Volere; ma posso però tacere ora, a chi sono obbligata di manifestare il tutto in precetto di obbedienza, quante stranezze e contraddizioni ho dovuto sopportare nel corso di quattro anni circa? E ciò sia detto da me perché così mi viene comandato, e non [per] fare appunto a quei sacerdoti che in questo periodo di tempo mi assoggettarono a prove durissime: basta dire che si giunse a farmi stare in quello stato di sofferenze, d’ina­bilità, di immobilità e d’impietrimento, sino a diciotto giorni continui, e giù di lì, che fu per me veramente stato di morte senza morire, giacché inabilitata a qualsiasi moto non potevo prendere né una goccia d’acqua, né soddisfare alle naturali necessità; fu insomma darmi, ancor vivente, come morta nelle mani dei sacerdoti, che a loro piacimento ed a marcio mio dispetto mi facevano star vivente in stato di vera morte.
Iddio solo sa quello che passai in quei quattro anni di vero martirio. E quando qualche sacerdote si compiaceva di chiamarmi a vita, non usava nemmeno la carità di dirmi: “Abbi pazienza, fa la Volontà di Dio...”, ma in vece rimbrotti e ramanzine, che si fanno talvolta ai capricciosi ed ai disubbidienti, che con l’agire a loro proprio talento si son poi trovati nella via del male.
Oh, quanto sono stata cattiva e lo sono tuttora, perché risento ancora vivamente quando mi si dà la taccia, sebbene a torto, di anima capricciosa e disobbediente! Se io volessi investigare la ragione per cui, pur non volendo risentirmi, lo sento però sempre vivo in me, dovrei trovarla nella causa efficiente di essere molto dissimile ancora, nel mio pensare ed agire, da quello del mio sempre amabile Gesù. Egli, che in tutta la sua vita è stato veramente il bersaglio in ogni specie di contraddizione, non ha mai serbato in sé il minimo risentimento, ma sempre imperturbato ha dovuto con piena calma sop­portare in pace insulti sopra insulti, affronti sopra affronti, e questi, innumerevoli e per tutto il corso della sua vita; ed io, invece - ho pur vergogna a dirlo - ho versato chissà quante volte amarissime lacrime, e [mi sono] lamentata col mio dolcissimo Gesù, sino a risentirmi con lui ed a fargli, per quanto più potevo, resistenza, per fare che non mi assoggettasse alle sue aspre pene e sofferenze, per non essere colpita al vivo dall’ingiusta taccia di capricciosa e disobbediente. Ma quanto è stato buono il Signore verso di me, miserabile e cattivella, che ad onta della mia resistenza, fingendo dapprima di non più curarmi e nulla dicendomi, si allontanava, ma per poco, ché tosto all’improvviso veniva a sorprendermi nella mia desolazione causata dalla sua lontananza, e mentre con le sue dolci moine e carezze m’indu­ceva a compiere il suo Santo Volere, facevami cadere di nuovo fra le braccia della mortale sofferenza, comunicatami direttamente dal mio amabile Gesù; e quando ve­niva il confessore[28] a farmi rinvenire, questi, con tono severo, mi diceva: “Non voglio che tu vi ricada più in questo stato”.
Ed io, menomamente risentita, gli dicevo: “Padre mio, non sta in mio potere di cadere o non cadere in questo stato di assopimento mortale. È vero che sono capricciosa, disobbediente e buona a nulla, ma dico la verità, che la pena più straziante per me è il non poter obbedire; e con ragione, padre mio, sento questa pena, perché mi vedo priva di quella virtù che è stata la gemma più fulgida e preziosa del mio Gesù, senza della quale non sarò mai a lui gradita. Oh, quanto mi dispiace e che pena io provo nel vedermi tanto dissimile da lui! Che bene può fare, qual bene operare un’anima disobbediente?”.
A tali umilianti parole, che mi uscivano dal fondo del cuore, in cui sentivo palpitante d’amore il mio diletto Gesù, il confessore con qualche parola d’incorag­giamento mi lasciava, quasi più contento delle altre vol­te innanzi venuto. Malgrado, però, l’incoraggiamento avuto poco anzi, malvolentieri opinavo che, se il Signore non mi avesse accertata che mi avrebbe egli stesso liberata dall’anzi detto stato senza dell’intervento del confessore, pur accettando su di me le sue pene e sofferenze in riparazione di tanti peccati che si commettono continuamente dalla maggior parte degli uomini, ero disposta ad opporgli ogni resistenza, affine di ottenere quanto io mi proponevo. Ma se la creatura propone in un modo, Iddio, nella sua imperscrutabile sapienza, fa in modo che si eseguisca, dalla stessa, tutto ciò che ha disposto su di lei.
Fece quindi Iddio, in questo periodo di tempo, che il colera incominciasse di giorno in giorno ad infierire sempre più, tanto da intimorire la nostra buona cittadinanza[29]; ed io un giorno, più che mai, mi misi con fervore a supplicare il Signore che avesse fatto cessare questo flagello della giusta ed inesorabile ira di Dio, sdegnato a causa degli innumerevoli affronti commessi dai malvagi uomini. Mentre, dunque, così pregavo, mi si fece vedere il mio amabile Gesù, che mi disse: “Ebbene, io sono per contentarti, purché tu voglia offrirti vittima di riparazione, soffrendo ben volentieri quanto di grave ed affliggente sarà trasmesso all’anima ed al corpo tuo”.
Io, allora, a lui: “Signore, se il male passasse tra te e me, sarei prontissima ad accettare tutto ciò che tu voglia fare su di me; all’opposto, non posso, ché tu ben sai come la pensano e si conducono i sacerdoti verso di me”.
E Gesù, molto benignamente, mi rispose: “Figlia mia, se avessi voluto opinare su ciò che gli uomini erano per fare sulla mia umanità, certo non avrei operato la redenzione del genere umano, ma invece io non ebbi altro intendimento che la loro eterna salvezza. Fu l’amore grande che mi divorava, che mi fece fare il sacrifizio di tutto e di tutti; e quelle stesse pene e sofferenze, quegli stessi dolori e dispiaceri che le creature ingiustamente mi davano col loro pensare ed agire contro di me, io li offrivo all’eterno mio Genitore per la loro eterna salvezza. Ti sei dimenticata che io voglio da te l’imitazione della mia vita? Sappi che per imitarmi in tutto ciò che feci nel corso di 33 anni, non solo devi assoggettarti ai miei travagli, alle contraddizioni, pene, dolori e sofferenze di morte, ma ancora devi subirle in quel modo che furono sopportate da me. A questa condizione si chiede da te l’imitazione della mia vita, se lo vuoi; altrimenti, imitarmi a tuo piacere, non è né sarà mai di mio gradimento tutto ciò che potrai fare. L’atto più bello ed a me più gradito è quello fatto incondizionatamente dall’ani­ma, in quanto che si assoggetta in modo da non aver più la sua volontà nell’agire, ma in tutto e per tutto dipende dalla Volontà mia; procura tu, dunque, di fare quest’atto eroico di morire alla tua volontà e di vivere sempre nella mia, affinché io possa trovare in te le più gradite compiacenze. Per ora voglio che ti renda vittima di amore, di riparazione e di espiazione per quelle stesse persone che non solo ti sono contrarie, ma ancora di gran molestia, considerando che essi sono figli miei, redenti col mio proprio sangue, e se tu veramente sentissi amore, dovresti anche assoggettarti a dare tutto per la loro salvezza”.
A questo giusto parlare di Gesù, potevo io opporgli resistenza? Ed è perciò che accettai quello stato di vittima a cui mi voleva. E difatti, sino a sera fui sorpresa da quello stato di sofferenze, da lui comunicatemi, ed in cui vi rimasi per ben tre giorni, senz’affatto riavermi. Riavutami dopo, non s’intese più parlare del colera, tranne che a pochi folleggianti, che dovettero pagare il loro contributo alla morte. Però la maggior parte dei cittadini furono scossi da questo flagello di Dio, tanto che il confessore, quando venne a farmi riavere, scherzevolmente mi si fe’ a dire: “In questi passati giorni, è stato tra noi un grande missionario, il quale ha fatto molto bene nel suo ministero di predicatore; si son viste, infatti, ai nostri piedi prostrarsi certe facce, che forse in vita loro non si erano mai degnate di passare nemmeno davanti ad una chiesa, essendo state sempre restie ad ogni sentimento religioso, mentre alla chiamata di questo eccellente predicatore si sono arresi alla grazia, di[30] cui hanno prodotto[31] frutti di vita eterna”.
A questo, mi feci a domandare dove questi predicasse; ed egli: “Non solo in tutte le chiese, ma ancora fuori di queste, cioè in piazza, nei circoli, nelle botteghe, in casa; insomma, in tutti i luoghi arrivò la sua potente parola, e con tale unzione di grazia che molti si son ridotti a penitenza”.
Ed io: “Come si chiama costui?”. Egli mi rispose: “Porta un bel nome; da tutti si fa appellare Don Coletto, flagello di Dio”, volendo indicare il colera.
Un’altra mortificazione stavami intanto preparando il Signore, la quale venne a colpirmi dopo il suddetto colera, e fu quella di dovermi assoggettare al rapido cambiamento del confessore, che essendo religioso fu chiamato dai suoi superiori alla vita più ristretta del convento; ed io, che ero contenta di lui, giacché sin qui è stato l’unico che non mi abbia dato da soffrire, giacché tutto quel chiasso che di sopra ho accennato fu fatto dagli altri sacerdoti e mentre questi stava in campagna, specie nel tempo che serpeggiava il colera, a dire il vero ne soffrii molto all’annunzio di questa partenza; non già che ci avessi il più piccolo attacco, ma solo perché mi trovavo nella grande necessità di ricorrere a lui, e come[32] più facile a prestarsi alla carità di farmi riavere. Addoloratissima, dunque, feci ricorso al Signore, manifestandogli la mia acerba pena.
E Gesù, al solito tutto dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti affliggere per questo; essendo io il padrone dei cuori, posso volgerli e rivolgerli come a me pare e piace. Se egli, come confessore, ti ha fatto del be­ne, non é stato altro che un mio messo che da me riceveva il tutto, e a te lo dava come io disponevo; e così farò per gli altri: li disporrò cioè a venire da te, e darò loro tutte quelle grazie che serviranno all’uopo. Di che, dunque, tu temi? Figlia mia, quante volte ho da ripeterti che sino a tanto che tu avrai occhi per mirare, ora a destra ed ora a sinistra, posando ora su questa ed ora su quest’al­tra cosa il tuo sguardo, non potrai camminare bene e speditamente nella via del cielo? Se non lo fisserai solo in me, andrai sempre zoppicando; l’influsso della mia grazia non si potrà da te eseguire; perciò voglio che con santa indifferenza te ne stia riguardo alle cose che ti circondano, ma sempre però intenta a compiacere me, eseguendo tutto ciò che voglio da te; altrimenti non potrai avere sugli altri la preferenza nello stato di vittima”.
Riflettendo bene sulle parole ascoltate dalle labbra di Gesù, il mio cuore acquistò tale forza che non feci più caso dell’allontanamento del confessore, pur avendo fat­to tanto bene all’anima mia. Iddio m’ispirò, quindi, di assoggettarmi alla direzione di colui che mi confessava[33] quando io ero ancor fanciulla, e di questa scelta non mi sono mai pentita, anzi, spesso spesso ho esclamato verso Dio: “Sii sempre benedetto, o Signore, che mi hai confusa, giacché ti sei servito di ciò che a me compariva contrario e quasi dannoso all’anima mia, mentre tutto considerando è riuscito un fatto meraviglioso per la tua maggior gloria e per il bene dell’anima mia. Sempre così, mio Dio!”.
Ed invero avvenne che a questo ministro di Dio, da lui proposto e da me chiamato, io cominciai ad aprire il mio cuore, che era stato sempre chiuso a tutti gli altri confessori, i quali, per quanti sforzi ed insistenze mi avessero fatte, e per quanto io stessa mi sforzassi ad aprire il mio interno, pur non so dire quale restringimento di cuore sentivo in me, per cui rimandavo di volta in volta [l’aprirmi], sino a questo punto, poiché al solo pensiero di dover dire ad altri cose che passavano fra me e Gesù, provavo in me tale rossore e ritrosia, che era lo stesso come se dovessi dire i più laidi peccati, che per grazia di Dio non conosco, né ho avuto mai sentore. A questo [confessore], invece, in parecchie volte mi aprii in modo da fargli conoscere tutto minutamente, benché senza ordine. Se mi si domandasse la ragione per cui avevo sentita tanta ripugnanza nell’aprirmi prima, per tutta risposta direi: ‘non so dirlo’; se da parte del confessore, credo di no, perché egli era così buono, fiducioso e tanto paziente nel sentirmi, che avrebbe presa cura esattissima dell’anima mia, qualora fossi stata disposta ad aprirmi con lui delle cose che passavano tra me e Gesù; egli era tutt’occhi su di me, affinché camminassi per la via diritta della virtù. Da parte mia, non lo credo nem­meno, poiché sentivo nell’anima sì grave incubo da sen­tirne tutta la volontà di liberarmene, ed ancora l’ansia di sapere come egli la pensasse al riguardo; ma ciò, lo ripeto, mi fu impossibile di farlo. Ritengo, perciò, che la ragione per cui non abbia potuto aprirmi prima di ora, sia stata per sola permissione e Volontà di Dio, per poi obbligarmi a riferire tutto il corso della mia vita all’at­tuale confessore di cui sto parlando. Questi però aveva un’attitudine tutta speciale a saper penetrare non solo nel mio interno, ma quanto[34] piena volontà e pazienza nel sentirmi, per cui, trovando io in lui questa buona disposizione, a poco a poco mi feci coraggio ad aprirgli tutto il mio interno, facendogli leggere come su di un libro, foglio per foglio, anzi parola per parola, tutte le gra­zie che il Signore mi aveva comunicato, tanto più che il mio buon Gesù molte volte s’imponeva a farmi manifestare tutto ciò che mi diceva e succedeva in me; e quando alle volte sentivo gran ripugnanza a manifestare qual­cosa, tosto mi riprendeva vivamente, sino a minacciarmi che si sarebbe ritirato; e perché il dirmi ciò era lo stesso che farmi sentire la pena più atroce, per il timore che mi abbandonasse, ogni difficoltà fu da me superata, facendo in verità molta violenza a me stessa.
Lo stesso dico da parte del confessore, che era sempre intento a domandarmi, ora una cosa ed ora un’altra. A volte, infatti, mi domandava donde avvenisse quel mio assopimento, quale la causa, quali gli effetti; e talvolta, vedendomi restia, mi comandava in precetto di obbedienza, mettendomi innanzi il timore che potessi vi­vere nella più diabolica illusione, mentre dicendo tutto - soggiungeva - “saremo entrambi più sicuri e tranquilli, giacché il Signore non permette mai che un suo ministro, che voglia agire rettamente nella ricerca della verità, si possa ingannare, quando l’anima è obbediente”. Altre volte, poi, sembravami riguardo a ciò, che Gesù ed il confessore se la intendessero fra loro prima che Gesù mi avesse assoggettata a qualche sofferenza, giacché mi accorgevo che il confessore, nel domandarmi, era già a cognizione della verità, per cui dicevo fra me: “È meglio dirla questa cosa anziché tacerla, tanto più che egli già la conosce, e come onninamente è avvenuta in me; ma se la tacessi, chissà che non sarebbe spinto a cambiare il suo metodo di direzione”.
Tutto questo, invece, non avveniva nel confessore degli anni passati, il quale non solo non mi faceva nessuna domanda, ma nemmeno cercava d’indagare la verità riguardo allo stato d’impietrimento che avveniva in me, né se ciò avvenisse per opera di Dio o del demonio, oppure se fosse un fatto tutto naturale, cagionato da infermità corporale. In una parola, niente egli domandava, e niente io dicevo; ma aveva però sollecita ed instancabile cura d’investigare se fossi o no rassegnata alla Volontà di Dio, nel sopportare le croce che il Signore mi aveva mandata; e ne soffriva tanto, quando non mi trovava del tutto paziente a sopportarla. Mentre il secondo confessore che prese la mia direzione, come seppe da me che il Signore, nel farmisi vedere, mi domandava se volevo assoggettarmi a quello stato di vittima, prima di ogni altra cosa m’ingiunse che io dovevo dire a Gesù, prima di accettare lo stato di sofferenza: “Signore, non posso né devo accettare il patire a cui vuoi assoggettarmi, se prima non ho licenza dal confessore. Se vuoi, va prima da lui, e domandagli il suo consenso, affinché non abbia a risentirsi meco”.
Una mattina, quindi, dopo la comunione, mi disse il mio amabile Gesù: “Figlia mia, le iniquità che si commettono dagli uomini sono tali e tante, che la bilancia della mia giustizia ha eccessivamente trasmodato la sua equilibrazione[35]. La preponderanza del male mi fa uscire fuori con l’equiponderanza[36] dei flagelli che verserò su di loro, specie una fierissima guerra, in cui e per cui farò della carne umana strage inaudita. Ah, sì - proseguiva piangendo - ho dato loro i corpi, acciocché fossero tanti santuari in cui potessi spesso spesso deliziarmi, ed invece li hanno cambiati in cloache di marciume, di cui è tanto il fetore, che mi hanno costretto ad allontanarmi totalmente da loro! Ecco, figlia mia, la ricompensa a tanto mio amore ed a tante pene sofferte per loro! Chi mai al mondo è stato sì largo nel beneficare, ed ora nel­l’indugiare tanto alla giusta vendetta? Ah, nessuno è stato simile a me! Qual è intanto la causa di tanto loro pervertimento? Non altro, figlia mia, che il troppo bene che ho sempre nutrito per loro; ma ora proverò a ridurli al loro dovere coi più spietati castighi”.
A questo doloroso parlare di Gesù, il mio cuore si sentì traboccare di amarezza e spezzare ancora per il dolore, nel considerare che un Dio così buono debba essere tanto vilipeso dagli ingrati e malvagi uomini, per cui lo costringevano, per schivarli, a nascondersi nel mio cuore come luogo di rifugio. Eppure, chi può dire ora tutta la pena ed amarezza che sentivo in me nel pensare che questi erano per essere castigati dal flagello della guerra, per cui mi pareva come se io stessa dovessi soffrire? E di più sentivo una gran brama di sopportare io quei castighi, anziché vedere soffrire altri, pene, dolori e morte di guerra. Cercai, quindi, di placarlo con ogni modo di compatimento, per quanto fu in mio potere, e poscia gli soggiunsi:
“O sposo santo, risparmia loro i flagelli che la tua giustizia tiene preparati, e se la molteplicità delle loro iniquità è così grande, come tu dici, v’è ancora il mare immenso del tuo sangue in cui puoi farli tuffare; così essi usciranno purificati e la tua giustizia resterà soddisfatta. Per ora e per sempre, se non hai luogo dove deliziarti, vieni ognora in me, che ti offro tutto il mio cuore affinché trovi in esso riposo e delizia, sebbene, ho purtroppo da aggiungere che ancora il mio cuore è come una sentina di vizi; ma sono disposta, mercé la tua efficacissima grazia, a purificarlo ed a farlo divenire come tu lo vuoi. Deh, mio bene, placati, che se fosse necessario ed utile anche il sacrifizio della mia vita, oh, quanto volentieri lo farei, purché potessi vedere le tue immagini risparmiate dal tuo fiero flagello!”.
Gesù allora, troncandomi la parola, riprese a dirmi: “Figlia diletta del mio cuore, se volentieri ti offri a soffrire, non già come per il passato, cioè ad intervalli di tempo, ma in continuazione, io certo risparmierò gli uo­mini; ma sai come? Ti metterò in mezzo, tra la mia giustizia e le iniquità degli uomini, e quando metterò mano alla mia giustizia col mandare fulmini di flagelli per punire le iniquità di questi, trovandoti tu in mezzo, sarai colpita tu da quelli, e resteranno gli uomini immuni dai colpi della mia giustizia. Se vuoi condiscendere a tanto, sono pronto a risparmiare gli uomini; diversamente non potrai vedermi placato, né io potrò più a lungo astenermi”.
Restai sbigottita e tutta confusa, tanto che la natura fremeva e tremava, ma vedendo che Gesù attendeva da me una risposta affermativa o negativa, gli dissi, quasi costretta a parlare: “O mio divinissimo sposo, da parte mia sarei disposta a qualsiasi sacrifizio, ma come si rimedierà da parte del confessore, se venendo di tanto in tanto m’ingiunge di non dovermi assoggettare al patire senza un previo suo consenso? Sarà, ora, possibile che venga tutti i giorni, se mi assoggetti senza la sua obbedienza? Se, poi, vuoi che mi sottoponga a compiere questo sacrifizio senza della sua obbedienza, sono pure pronta, purché il riavermi dipenda non da lui, ma da te solo, mio sommo bene”.
Allora Gesù, vero sposo di perfettissima obbedienza e che tutto ha sacrificato per il massimo decoro di questa virtù, mi disse: “Non sia mai, figlia mia, che si agisca contro questa mia sposa di sangue; piuttosto portati dal confessore e domandagli la sua obbedienza. Se egli vorrà sentirti, gli dirai per filo e per segno tutto ciò che ti ho detto, ed in più aggiungerai che tutto ciò non sarà soltanto per il bene delle creature attualmente viventi nel peccato, ma ancora per il bene di quelle che sono per venire al mondo, e soprattutto per il tuo massimo bene che ti assoggetti a queste non interrotte sofferenze, quasi mortali, giacché in questo futuro stato a cui stai per sottoporti, mercé l’ubbidienza, ti purificherò in modo tale, che l’anima tua sarà fatta degna di elevarsi a formare meco il mistico sposalizio, e dopo tutto questo farò l’ul­tima tua trasformazione in me, da divenire ambedue insieme come due ceri liquefatti al medesimo fuoco, che trasfusi uno nell’altro diverranno un solo corpo, e così uniti per l’unico pensiero, per l’unico amore e per la stessa opera di riparazione, ci trasformeremo io in te e tu in me, in modo tale da restare tu crocifissa in me, con me e per me… Non saresti tu contenta se potessi tu dire: ‘Gesù, mio sposo, è crocifisso in me, ed io, sua sposa, crocifissa in lui’? Allora sì che potrai dire che non vi è cosa che ti renda dissimile da Gesù”.
Persuasa, quindi, della ragione espostami da Gesù, quando venne il confessore gli manifestai tutto ciò che avevo udito da Gesù, ed ancor quello di volermi fare soffrire senza limiti di tempo, il che, se fu da un canto tenuto da me per vero, dall’altro mi convinsi che le dette sofferenze avrebbero avuto la durata di una quarantina di giorni e non più. Ma purtroppo, da quel giorno sino al momento che scrivo sono passati dodici anni che continuo in questo stato di sofferenze, e chissà quanto la durerò ancora![37]
Ne sia sempre però benedetto il Signore, e siano sempre adorati i suoi inscrutabili giudizi! A me resta a dire che se avessi compreso che avrei dovuto passarme­la continuamente a letto, non mi sarei, forse, sì facilmente assoggettata allo stato di vittima perpetua, giacché la mia natura si sarebbe talmente spaventata che difficilmente avrei avuto il coraggio di sottopormi ad un tanto sacrificio; ed altrettanto posso dire, senza dubbio, del confessore, il quale, se avesse conosciuto il sacrifizio che gli toccava di fare tutte le mattine per farmi riavere, non avrebbe certo accondisceso a farmi stare sino a quel tempo che avesse voluto Iddio.
Posso ancora asserire che sono stata sempre amante di questo mio dolce patire, e sempre più rassegnata, [sia] quando sono stata in continue pene, dolori e sofferenze, che quando ne ero priva. Eppure, quando incominciai a vivere nello stato di vittima perenne, non conoscevo ancora la preziosità della croce, poiché questa mi fu fatta conoscere dal Signore, lungo il corso di questi dodici anni.
Tornando ora al confessore, a cui avevo manifestato quanto l’amabilissimo Gesù voleva da me, mi disse: “Se tutto ciò che mi hai detto è veramente Volontà di Dio, ti sia concessa la santa obbedienza, ché in realtà si può fare da me il sacrifizio di farti riavere ogni mattina; ché se impedimento vi è, lo trovo nel mio rispetto umano, che con la grazia del Signore sarà vinto da me”.
L’anima mia molto si rallegrò allora, pensando che le creature stavano per essere risparmiate dal terribile flagello della guerra, sebbene la natura cominciasse a fremere, e tanto da farmi passare qualche giorno nella più grande tristezza. La mattina seguente, perciò, nel portarmi in chiesa, avendo ricevuto Gesù nel mio cuore, gli dissi: “Dolcissimo Gesù, vedi un po’ in quale mare tempestoso è immersa l’anima mia; invece di essere in tranquilla pace per ringraziarti dei lumi dati al confessore, per cui ha creduto concedermi l’ubbidienza di eseguire quanto tu vuoi da me, tuttavia sono conturbata e molto confusa, prima, per lo stato di sofferenza a cui stai per sottopormi, e poi, e questo è più allarmante per me, è perché dovrò forse stare in quello stato senza più ricevere te, che sei la mia vita. Chi potrà, mio bene, resistere senza di te? Mi darà, forse, altri la forza a resistere, se non mi sarà data da te, che sei tutta la forza, onde possa trovare un ristoro alle mie pene e sofferenze, se non mi sarà dato di avvicinarmi a te in sacramento?”.
Mentre così mi sfogavo con Gesù nel mio cuore, per la pena delle future sue privazioni, mi sciolsi in dirottissimo pianto; e Gesù allora, compatendomi e compassionandomi, affabilmente mi disse: “Figlia mia, non temere; io già conosco la tua debolezza, ed ho preparato novelle e speciali grazie che sosterranno la tua fragilità. Non sono forse io onnipotente in tutto, in modo da poter supplire in tutt’altro modo alla privazione di ricevermi in sacramento? Rassegnati adunque, e mettendoti come morta nelle mie paterne braccia, offriti vittima volontaria per riparare le tante offese che io ricevo continuamente dal genere umano; così potrai farmi risparmiare gli uomini dai meritati flagelli, ché se tu volontariamente farai il sacrifizio di tutta te stessa, dandoti vittima di amore, di espiazione e di riparazione, nelle mie braccia per l’eterna salvezza di tutti, ti prometto che neppure un solo giorno ti farò stare senza venire a visitarti. Se fin ora sei stata tu che sei venuta a me, d’ora innanzi, ti assicuro, sarò io che immancabilmente ogni dì verrò a te a visitarti; queste visite potranno essere brevi; saranno però sempre salutari e di grande consolazione all’anima tua. Sei contenta? E giacché mi è nota la tua adesione alla mia Volontà, sappi che sin da questo momento sei già vittima perenne in stato di minori o maggiori sofferenze, a seconda che io lo voglia e lo richieda la riparazione dovuta alle colpe che si commettono dalle creature”.
Ora, chi può dire le grazie che il Signore incominciò a farmi? Il voler narrare tutto ciò che il mio amante Gesù ha fatto a me sinora, dacché accettai il perenne stato di vittima, mi è proprio impossibile, specie se si volesse singolarmente e distintamente conoscere [dette grazie]. Dirò solo per ora, succintamente, quelle che più hanno fatto breccia sul mio cuore; e poi successivamente, come mi sarà dato ricordare, contenterò la santa obbedienza, che senza pietà mi ha imposto di narrare le più intime grazie, che per mia grande vergogna stento tanto a rivelare. E prima di ogni altra cosa dirò, circa l’anzidetta promessa fattami da Gesù, che essa è stata sempre inappuntabile, poiché dal principio sino a questo momento [non è venuta meno], e credo che lo sarà, senza dubbio, sino alla fine.
Ricordo bene che sin dal primo giorno in cui mi confisse nel letto, amorosamente mi diceva: “Diletta del mio cuore, io ti ho voluto mettere in questo stato affinché potessi più liberamente venire teco a conversare. Dapprima, infatti, ti liberai dal mondo esterno e poi da ogni occasione di trattare con le creature; indi purificai il tuo interno in modo che né più pensiero né più affetto di terra restò in te, ed in luogo di quelli vi misi pensieri ed affetti tutti celesti, traboccanti di amore verso di me; ed ora che ogni cosa ti è diventata estranea ed io teco tutto famigliare, voglio immedesimarmiti in modo che non solo l’anima, ma anche il corpo, possano stare a mia disposizione, e rendere l’uno e l’altra perpetuo olocausto innanzi a me. Se non ti avessi confinata in questo letticciuolo, non avresti potuto avere il bene di essere così spesso visitata da me, giacché avresti dovuto prima disimpegnare i doveri di famiglia, con grande tuo sacrifizio, e poi ritirarti nell’oratorio del tuo cuore ad attendere una mia fuggitiva visita. Adesso, non più; siamo rimasti soli, e non vi è chi possa ostacolare la nostra conversazione ed ancora le vicendevoli comunicazioni dei nostri dolori e delle nostre pene, ed a mia somiglianza potrai partecipare a quanto di gioia e contento mi viene dai pochi buoni, ed a quanto di amarezze, dolori ed affanni, mi viene dai malvagi. D’ora innanzi le mie consolazioni saranno tue, e le tue saranno mie; così pure le mie afflizioni e le tue saranno comunicate vicendevolmente, ed accomunate in modo tale da far totalmente scomparire quel ‘tuo’ e quel ‘mio’, ma il ‘tuo’ ed il ‘mio’, sarà appellato ‘nostro’. Insomma, tu prenderai interesse delle cose mie come se fossero veramente tue, ed io, a pari, delle tue che, certo, sono ancor mie, tranne che le tue imperfezioni.
Sai tu come ho fatto io e come mi comporterò teco? Al par di un re che di fresco si sia sposato ad una nobile regina, il quale, bramando starle sempre vicino, se per poco è obbligato ad allontanarsene, la sua mente ed il suo cuore sono in continuo movimento per lei, per cui cerca di sbrigare al più presto possibile ogni sua faccenda per far presto ritorno a lei; ritornato, è tutt’occhi su di lei, per scorgere se qualche ombra di amarezza vi fosse in lei; e se vuole parlarle, la fa ritirare dalle persone che la circondano, la prende seco, la conduce nelle sue stanze, vi chiude le porte e vi mette fuori [una] persona di sua massima fiducia per far loro la guardia, affinché nessuno ardisca interrompere la loro conversazione, oppure ascoltare i loro segreti colloqui. Stando così soli, tutto si comunicano tra loro, e se qualcuno imprudentemente volesse loro togliere la pace e recare qualche disturbo, sarebbe immediatamente allontanato dal re come disturbatore della sua gioia, e quindi severamente punito. Così ho agito teco, mettendoti in questo stato; guai perciò a chi volesse distoglierti dal medesimo, ché non solo mi dispiacerebbe, ma sarebbe ancora da me punito. E tu di ciò ne sei contenta?”.
Se alle tante grazie che il mio diletto Gesù mi ha elargito sinora non volessi corrispondergli col più grato amore, meriterei di essere appellata col nome più abbietto ad ogni razza umana; e dal cielo e dalla terra mostrata a dito alle future generazioni come l’anima più ingrata che sia esistita sinora, e come la più sciagurata fra tutti i reprobi, se non assecondassi in tutto e per tutto il suo Santissimo Volere. Ed invero, che non si direbbe d’un povero straccione che rifiutasse ad un ricchissimo signore di mettere in massa comune gli immensi suoi beni coi pochi e luridi cenci di quello, all’unico scopo di volerlo rendere padrone al par di lui, rispettando la semplice condizione di prendere conveniente cura d’interes­sarsi di tutto come di cosa sua propria? Diverrebbe egli, così, la favola della città, e degna di essere tramandata ai posteri, i quali, pur raccontandola, non la crederebbero vera. Così, appunto, ha fatto meco Gesù: ha messo in massa comune tutti gli infiniti suoi beni con le mie imperfezioni, e mi ha resa padrona del suo, ed egli padrone del mio nulla, a patto però che io avessi cura del suo, che elargisce gratuitamente, mentre egli, a costo d’im­mensi sacrifizi, ha comprato da me… Cosa mai? Ho vergogna a dirlo: non solo il mio nulla, ma le stesse imperfezioni, che vuol ridurre a perfezione. Oh, quanto non gli sono obbligata! Egli, che non si è stancato mai, né si stanca, né si stancherà mai di ripetermi ogniqualvolta mi ritrova dissimile da lui: “Io voglio da te perfetta conformità alla mia Volontà, in modo che la tua volontà venga a disfarsi totalmente nella mia”.
E di più, quante volte notava in me il benché minimo attacco a cose indifferenti, dolcemente mi pressava a distaccarmi dicendomi: “Figlia mia, bramo da te un distacco assoluto da ogni cosa che non sia mia; ossia tutto ciò che sa di terra, voglio che sia tenuto da te come sterco e marciume, che ti sia orrido anche a guardarlo, perché le terrene cose, fin quando che non sono di assoluta necessità, solo a tenerle d’intorno e guardarle con compiacenza ne agghiacciano il cuore, e adombrando le cose celesti impediscono che abbia luogo quel mistico sposalizio che da un pezzo ho promesso di voler fare con te. Sappi che io nulla apprezzai delle cose di quaggiù, tranne quelle puramente necessarie; perciò mi assoggettai alla nuda povertà, che pure voglio far seguire da te, disprezzando tutto ciò che non ti sia necessario… In questo letticciuolo, con l’imitarmi nella povertà, devi considerarti più che una vera poverella, e così solo potrai dirti effettivamente povera; mai entri in te la brama di acquistare, perché voglio che in te ci sia la vera povertà affettiva, con cui nulla brami, nulla prenda se non ti fosse puramente necessario, e di questo, ancora, ringrazia prima me e poi i tuoi largitori. Voglio perciò che d’ora innanzi te ne stia a quello che ti viene dato, senza altro domandare, perché potrebbe esserti d’impiccio alla mente, desiderando quella cosa che non ti venisse data; ma con santa indifferenza rimettiti alla volontà altrui, senza pensare se ti venisse bene o male”.
E ciò, in pratica, a dir vero, mi costò da principio il più grande sacrifizio, ma subito mi avvidi che senza pensare a questa o a quella cosa e senza nulla chiedere, mi veniva data, quando ne avevo veramente bisogno.
Superata intanto questa difficoltà, il Signore volle sottopormi ad un’altra prova più penosa, che è la seguente: per le continue sofferenze che mi venivano direttamente comunicate da Gesù, io ebbi a soffrire continui conati di vomito ogniqualvolta prendevo cibo; ora, in questo stato, mentre mi veniva dato dalla famiglia qualcosa di cibo, e che immediatamente rigettavo, mi sentivo talmente illanguidire lo stomaco da non potersi dire; ma ricordandomi quanto Gesù mi aveva detto: “Statti a quello che ti viene dato”, non ardivo chiedere altro, tanto [più] che sentivo in me tale vergogna come se la famiglia dovesse rimproverarmi col dirmi: “Come, hai ora appena vomitato, e vuoi già di nuovo mangiare?”.
Per questo dicevo tra me: “Nulla chiederò se prima non me lo porteranno da loro stessi, altrimenti il Signore ci penserà”.
E così me la passavo, contenta di poter soffrire qualche cosa per amor di Gesù, offrendo tutto in riparazione di quante offese si commettono con le golosità. Il confessore, poi, non so perché, sentendo che venivo presa da conati di vomito, m’ingiunse di prendere tutti i giorni il chinino, il quale mi stuzzicava maggiormente l’appetito, ma non potendo prendere alcun cibo senza che mi venisse dato, io mi sentivo straziare lo stomaco, in modo tale da sentirmi in stato di morte senza mai morire; e tutto questo mi durò per circa quattro mesi, fino a quando il mio diletto Gesù m’ingiunse: “Dirai al confessore che non ti faccia prendere né cibo né chinino ogniqualvolta tu rimetti, che egli, illuminato da luce superna, ti accorderà di [non] prendere né l’uno né l’altro”.
E così avvenne, poiché il confessore mi accordò di [non] prendere più nulla; ma poi, per non farmi parere singolare, mi disse: “D’ora innanzi voglio che prenda il cibo una sola volta al giorno”. Così facendo, restai più tranquilla; mi passò la fame, ma non il vomito, che sempre, ogniqualvolta prendo il cibo, sono costretta tut­tora a rimetterlo dopo un po’ di tempo[38]. Più volte però il mio diletto Gesù mi ha ripetutamente detto: “Di’ al confessore che ti dia l’ubbidienza di non più mangiare”; ma per quanto glielo abbia detto, mi si è sempre rifiutato, dicendomi: “Fa conto che il mangiare ti sia dato a scopo di poter fare uno o più atti di mortificazione al giorno, sempre in riparazione delle tante offese che il Signore riceve per la golosità degli uomini”.
Ma non passarono che pochi giorni, ed ecco che il Signore tornò a ripetermi: “Voglio che affacci di nuovo al confessore la domanda perché ti astenga dal prendere qualsiasi cibo, ma fallo con santa indifferenza, disposta cioè a fare ciò che la santa obbedienza vorrà o no accordarti”.
Obbediente alla voce del mio Gesù, subito che venne il confessore gli manifestai il tutto, ma, non so perché, non solo mi venne questo negato, ma [ancora] m’ingiunse il divieto di dover stare in tali sofferenze, come se questo dipendesse da me. Ma se non sbaglio, credo che il confessore, ricordandosi che io gli avevo detto che il Signore mi chiamava allo stato di vittima per un tempo indeterminato, che da me fu tenuto per una quarantina di giorni circa, la ripetuta domanda di astenermi dal mangiare dovette far sì che giudicasse non essere verità né il mio stato di sofferenze in cui il Signore mi pose, né l’ultima proposta di non dover più mangiare, come voleva il mio amante Gesù; oppure il confessore, per ragioni a me ignote, venne a questa risoluzione, di non dover più stare[39] in questo stato di vittima, aggiungendo che, se fossi ricaduta in quello stato di sofferenze, non sarebbe più venuto per farmi riavere. Dico la verità, che io, a questo parlare del confessore, mi sentivo dispostissima a fare la santa ubbidienza, tanto più che la natura richiedeva il diritto di essere sgravata dal peso di tanti dolori e sofferenze mortali, in cui spesso ricadevo, e che naturalmente non si può agognare né sopportare senza uno speciale aiuto divino. E poi, quel dovermi assoggettare a tutto, ed anche per quelle cose più ripugnanti, ma pur necessarie alla natura, è un vero sacrifizio, che se non si facesse per Volontà di Dio - a lui devo il ricambio dell’amore immenso che ha profuso in gran copia - certo che anche i più grandi santi avrebbero recalcitrato. Io dunque, da parte mia, provai una certa consolazione, e mi disponevo a fare in tutto la santa ubbidienza, ma ero anche pronta e disposta a stare confinata nel mio letticciuolo, qualora il Signore avesse voluto tenermi in questo stato di vittima, giacché sperimentavo la bontà del suo Volere, che mi procurava quella vera rassegnazione ed uniformità alla sua Santa Volontà, che sa far cambiare la natura alle cose, e fin l’amaro, che lo converte in dolce.
Accettata dunque di buon animo l’ubbidienza di non voler più stare a letto in stato di vittima, incominciai a far resistenza al mio sempre amabile Gesù, allorché si fece vedere per comunicarmi le sue pene, dicendogli: “Amato mio bene, il mio rifiuto al patire non devi averlo a male; che vuoi da me? È l’ubbidienza che me lo vieta, e quindi non posso più assoggettarmi; se poi tu vuoi che io faccia la tua Volontà, illumina il confessore, affinché si disponga a concedermi quanto tu vuoi, altrimenti farò la sua espressa volontà, opponendomi con ostile ostinatezza alla tua Volontà, anzi crederò che non sei l’ama­bile Gesù”. Ebbene, il Signore volle mettermi alla più cruda prova, giacché mi fece passare tutta una nottata in contrasto con lui, perché ci fu un continuo via vai a scopo di sorprendermi all’improvviso, ma stetti sulla mia per l’intera notte, e quando egli veniva, subito gli dicevo: “Amor mio, abbi pazienza; ci vuole l’ubbidienza del confessore perché tu possa comunicarmi le tue sofferenze, e quindi non obbligarmi a far aderire la mia alla tua Volontà; potrai ridurmi all’annientamento di me stessa, comunicarmi le tue pene, tutti i dolori e sofferenze che vuoi, ma mai col consenso della mia volontà, giacché questa non si piegherà alla tua, senza l’ubbidienza”.
E così in questo contrasto la durai sino alla mattina, in cui mi sentivo perfettamente libera d’ogni sofferenza, credendo che il Signore me l’avesse già data per vinta la prova; ma non fu così, giacché in un istante, mentre ero immune d’ogni sofferenza, il mio diletto Gesù mi attirò talmente a sé che, perdendo [io] i sensi, non potetti più oltre fargli resistenza, poiché mi trovai sì stretta a lui che, per quante opposizioni avessi potuto fargli, non avrebbero potuto menomamente distaccarmi da lui, essendo io il nulla, e quindi vana sarebbe riuscita ogni lotta e resistenza con colui che è il forte dei forti e l’onnipotente. Stando poi così stretta con Gesù, sentivo in me tale rossore per le tante ripulse fattegli, che mi sentivo tutta annichilire, e perciò con vergogna gli dissi: “Perdonami, sposo santo, se ti ho fatto tanta resistenza, la quale non sarebbe avvenuta se l’ubbidienza non me l’avesse ingiunta”.
E Gesù, molto affabilmente, mi disse: “Figlia diletta del mio amore, non temere che io me l’abbia per tua offesa[40], né mi offendo per parte del confessore che ti ha dato questa ubbidienza, giacché chi con delicatezza di coscienza esercita il suo ministero, deve usare ogni arte e prova per mettersi al sicuro della morale responsabilità che dai buoni e dai cattivi ancora si richiede. Torna quindi in calma, e vivi sempre abbandonata in me. Vieni meco; oggi è capodanno[41]; vieni, che voglio darti la strenna”. Egli, quindi, si avvicinò tanto a me, che mi trasse tutta a sé, e appressando le sue labbra alle mie mi versò un liquido, dolcissimo più che latte, e baciandomi e ribaciandomi affettuosamente trasse dal suo cuore un anello, dicendomi: “Ammira bene e contempla questo anello che ti ho preparato per quando farò teco le mie nozze, poiché ti sposerò in mia fede. Per ora t’ingiungo di continuare a vivere nello stato di vittima, e voglio che dica al confessore che è mia Volontà che tu continui a vivere in questo stato di sofferenze; e per segno evidente che sono io che ti parlo, sappi che la guerra, incagliata[42], tra l’Italia e l’Africa, continuerà ancora, fino a quando non ti darà egli l’ubbidienza di mantenerti nello stato di vittima, per il quale non solo non la farò continuare, ma ancora, quanto prima avverrà la pacificazione d’ambo le parti”.
Dopo che Gesù così mi parlò, da me scomparve, lasciandomi come rivestita da una veste di sofferenze, le quali mi penetravano fin nelle midolla delle ossa, tanto che non potetti più riavermi da quello stato quasi mortale, senza l’intervento del confessore, per cui la famiglia, vedendomi in quello stato, procurò di mandare per esso[43], mentre io, così penante, pensavo a ciò che avrebbe detto il confessore, nel trovarmi contro il suo divieto in stato di maggiori sofferenze; ma che fare? Certo che non era in mio potere il riavermi, giacché quel liquore latteo versatomi da Gesù mi procurava tale amore verso di lui, che mi sentivo languire di amore e di dolore insieme, e di più, tanta sazietà e dolcezza, che dopo che il confessore mi fece riavere, mi obbligò a prendere un po’ di cibo apprestatomi dalla famiglia, il quale non poteva assolutamente scendere giù nello stomaco, e ci volle perciò l’imposizione della santa ubbidienza per farmelo ingoiare; ma poi, subito, fui costretta a rimettere, mescolato ancora al dolcissimo liquore versatomi da Gesù. Ma in quest’atto, però, sentii nel mio interno Gesù, che quasi scherzando mi diceva: “Forse non ti è bastato ciò che ti ho versato, non ti sei di quello soddisfatta?”. Ed io, tutta piena di rossore e vergogna, gli dissi: “Che vuoi da me, o mio buon Gesù, se è stata l’obbedienza che mi ha obbligata a cibarmi, il che mi ha fatto poi versare anche il tuo, che era sì dolce e delizioso?”.
Dopo di che, il confessore, senza farmi alcuna interrogazione sull’accaduto, si sottrasse da me dicendomi: “Verrò non appena avrò un po’ di tempo libero”. Ed io, che non solo sono stata indifferente, ma ancora, molto restia all’ingerenza del sacerdote nei fatti che passano tra me e il mio Dio, mi feci subito a ringraziare il mio sempre amabile Gesù, che aveva permesso di non farmi domandare nulla, senza sapere ciò che mi stava preparato il giorno seguente, in cui tornando il confessore con insolito cipiglio, e senza prima interrogarmi, cominciò tosto ad inquietarsi meco ed a chiamarmi anima disobbediente, e soggiunse: “Il fatto tuo di cadere in mortale deliquio è da ritenersi, come lo è, pura malattia e non fenomeno soprannaturale; se fosse cosa di Dio, non avrebbe certo fatto mancare all’obbedienza, giacché egli ci tiene tanto a questa bella virtù, che nulla vuole si faccia senza l’obbedienza. Ed ora, invece del confessore, chiamerai i medici, i quali penseranno, a mezzo della loro scienza, a liberarti da questo stato nervoso”.
Allorché diede egli fine alla sua ramanzina, io mi feci bellamente a narrargli tutto l’accaduto e ciò che il Signore mi aveva ingiunto di dirgli. A questo, il confessore si ricredette e mi assicurò che non era da mettersi in dubbio quanto gli avevo detto in nome di Gesù, giacché la guerra incagliata tra l’Italia e l’Africa era più che vera; perciò soggiunse: “In quanto, poi, all’accennata loro pacificazione, se come tu dici, rendendoti vittima, sarà fra breve, se è da Dio non posso metterla in dubbio, ma se fosse da altri… staremo a vedere”.
Sì dicendo, mi accordò l’ubbidienza di assoggettarmi all’espresso Volere del mio buon Gesù, ripetendomi: “Staremo ora a vedere se non andrà più avanti questa guerra, e se subito si pacificheranno tra loro”.
Dopo quattro mesi, il confessore attinse dai giornali notizie precise circa la suddetta pacificazione, preannunziatami da Gesù, e venendo a me, mi disse: “Senza alcun danno d’ambo le parti, si è terminata la guerra che pendeva tra l’Italia e l’Africa, pacificandosi del tutto tra loro”.
Per questo fatto, preannunziato prima ed avverato poi, fece sì che il confessore restasse convinto dell’in­tervento dell’Alto, e mi lasciò nella mia pace, che non si può avere quando si fa resistenza al Volere di Dio.
Il mio buon Gesù intanto d’allora in poi non fece altro che predispormi a quel mistico sposalizio già promessomi, col visitarmi più spesso, e quando tre, quando quattro e più volte al giorno, a seconda che gli piaceva; e talvolta faceva, anzi, un continuo andare e venire. A me pareva che facesse come un innamorato che non sappia stare senza pensare, senza amare né visitare spes­so spesso la sua sposa, tanto che giungeva ad aprirsi meco, dicendomi: “Vedi, ti amo tanto che non so stare senza venire a te; mi sento quasi irrequieto senza vederti e parlarti da vicino e svelatamente, pensando che tu sei sola e stai per amor mio a soffrire tanto; sono perciò venuto a vedere se hai bisogno di qualche cosa”.
E sì dicendo mi sollevava egli stesso la testa, mi aggiustava il guanciale, mi cingeva il collo col suo braccio, ed abbracciandomi mi baciava e ribaciava più volte; e trovandoci allora in estate, per sollevarmi dal troppo caldo, emanava dalla sua soavissima bocca un alito che tutta mi ristorava, oppure agitava qualche cosa [che sembrava] che tenesse in mano, e qualche volta anche un lembo del lenzuolo che mi copriva, perché mi rinfrescassi, e poi subito mi domandava: “Come ti senti, ora? Certo che ti sentirai meglio, non è vero?”.
Ed in risposta gli dicevo: “Tu lo sai, mio diletto Gesù, che in qualunque modo tu stia meco, sto sempre bene”. Quando poi, nel venire, mi trovava prostrata di forze per le continue sofferenze, specie quando il confessore veniva verso sera, mi si avvicinava, e dalla sua bocca versava nella mia un liquido latteo, oppure facevami attaccarmi al suo sacratissimo costato, da cui mi faceva succhiare torrenti di dolcezza e di forza, le quali mi facevano poi pregustare delizie di paradiso. Vedendomi poi in questo stato di somma delizia, mi diceva con tutta la sua ineffabile bontà: “Voglio essere proprio io il tuo tutto, rendendomi salutare nutrimento non solo della tua anima, ma del tuo corpo ancora”.
Chi può dire veramente tutto ciò che io sperimentai di celestiale amore, dopo tante insolite grazie di paradiso? Se io dovessi dire tutto, come il dolcissimo Gesù me le abbia comunicate, non solo mi renderei seccante, ma vi andrei troppo per le lunghe, per cui non avrei il tempo di poterle dire, né il confessore di poterle sentire tutte. Mi limito, perciò, a dire in succinto quel tanto che basti a far conoscere superficialmente lo stato di un’anima che stia nel pieno possesso di Dio, facendosi strada nella Volontà del suo diletto Gesù, sposo deliziosissimo dell’anima. Spontaneamente, quindi, mi viene di esclamare con tutta la veemenza del cuore, e dire al mio Gesù: “Oh, quanto mi sono state gradite e soavemente deliziose le comunicazioni di spirito di Gesù!”. Mentre altre volte, con dolore, ho pure esclamato: “Oh, quanto sono amare e spasimanti le pene, dolori e sofferenze versatemi dal mio dolente ed amareggiato Gesù!”. Ma se queste [le une e le altre] non andassero in concomitanza tra loro, l’anima, resa veramente vittima di amore, di espiazione e di riparazione, non potrebbe sì a lungo durarla in vita, ma disfacendosi il suo corpo, lo spirito andrebbe ben presto a ricongiungersi a quello del suo Dio.
Dopo aver, perciò, provato tante dolcezze ed amarezze insieme, ne seguiva il mio giusto e pietoso lamen­to, quando pareva che si allontanasse da me; e quando, alle volte, mi si nascondeva per qualche ora, trovandomi io in sofferenze mortali, sembravami come se non l’avessi visto da cento anni almeno, e perciò mi lamentavo dicendogli: “Deh, o sposo santo, come mai ti fai da me tanto aspettare? Non vedi che io non posso resistere senza di te? Deh, vieni a sollevarmi almeno con la tua presenza, che mi è luce, mi è forza, mi è tutto!”. Altre volte, poi, sentivo tanta pena per la privazione di poche ore del mio Gesù, che mi sembrava come se da anni ed anni non si fosse fatto vedere, e perciò nella mia pena mi scioglievo in amarissime lacrime.
Ed egli, allora, mi si faceva vedere, mi compativa, mi asciugava le lacrime, mi abbracciava e baciava, dicendomi: “Non voglio che tu pianga. Vedi, adesso sono teco: dimmi, che vuoi?”.
Ed io a lui: “Non bramo altro che te; ed allora cesserò dal piangere, quando mi avrai promesso di non farti da me tanto e poi tanto attendere. Tu lo sai, o mio buon Gesù, quanto mi è penosa la tua aspettazione, quando io ti chiamo e tu non vieni presto a sollevarmi, a fortificarmi e ad incoraggiarmi con la tua dolce presenza”. E Gesù: “Sì, sì, ti contenterò”; e subito disparve.
Un altro giorno, mentre ero tornata a lamentarmi ed a pregarlo che non si fosse fatto tanto aspettare, vedendo che non cessavo dal piangere, mi disse: “Ora voglio, in verità, contentarti in tutto; mi sento tanto portato verso di te, che non posso fare a meno di secondare il tuo volere. Se finora ti ho tolta la vita esteriore e mi sono a te manifestato, ora voglio tirare appresso a me l’anima tua, e così potrai seguirmi più da vicino, godermi e stringerti più intimamente a me, e [potrò] manifestarti tutto ciò che non è stato fatto teco per l’addietro”.
Passati tre mesi circa, dacché mi resi vittima perenne, restando nel mio letto perché [mi fossero] comunicate da Gesù le sue pene e dolori in concomitanza delle sue dolcezze, venne egli una mattina, in aspetto tutto amabile e da graziosissimo giovane, sull’età di diciotto anni all’incirca… Oh, quanto era egli bello, con quella sua chioma dorata e tutta inanellata, che scendeva lateralmente dalla fronte e pareva che inanellasse ed intrecciasse assieme i pensieri della sua mente con gli affetti del suo cuore!
Aveva fronte serena e spaziosa, in cui si rimirava come attraverso d’un tersissimo cristallo l’interno della sua mente, in cui si spaziava e signoreggiava l’infinita sua sapienza nel suo imperturbabile ordine di celestiale pace; in vista di ciò, oh, come si rasserenò la mia mente e come si tranquillizzò il mio cuore, al cospetto del mio graziosissimo Gesù, tanto che le mie passioni vennero a rendersi così represse da non farmi sentire più la minima loro molestia. Ah, sì, se solo al vedere Gesù così bello è tanta l’infusione di pace che si comunica all’anima, che sarà mai vedere e possedere la sua divinità? Credo che non si possa vedere Gesù così bello se l’anima non stia nella più perfetta calma, nella più profonda umiltà e nel più ardente amore di lui, tanto che al minimo alito di turbamento Gesù si ritira dall’anima. Invece poi, quando l’anima nel suo interno prova una pace e calma imperturbabile, ad onta che intorno a sé vi è ogni disastro e la guerra più fiera, Gesù così bello non è solo in vista di lei, per farla continuare sempre imperturbata, ma ancora cerca in lei il suo dolce riposo, che non gli viene dato da altri già conturbati.
Io, quindi, in quell’aspetto lo miravo e rimiravo, e non mi saziavo mai di rimirarlo e di esclamare: “Oh, quanto son belli i suoi occhi purissimi, scintillanti di luce ancor più pura, ma non come quella del nostro astro solare, che se lo si volesse fissare offenderebbe la nostra vista!”.
Quella del mio Gesù, no; mentre è più che luce del sole, si può fissare benissimo lo sguardo, senza che vengano ad indebolirsi le pupille dei nostri occhi al mirare quello splendore, anzi si sentono più fortificate. Se lo sguardo si affissa a guardare la pupilla degli occhi di Gesù, di un colore celeste scuro, non si sa più distaccare dal mirare un tanto misterioso prodigio di bellezza, che un solo sguardo di Gesù basta a farmi uscire fuori di me stessa e farmi correre dietro di lui, battendo ogni via, per valli, piani e monti, sia attraverso i cieli, che internandomi nei più cupi abissi della terra; anzi, basta una sola occhiata di Gesù per trasformarmi in lui e farmi sentire in me stessa un non so che di divino, che tante volte mi ha fatto esclamare:
“O mio bellissimo Gesù, o mio tutto, se soltanto per pochi minuti in cui ti fai così vedere da me, comunichi all’anima mia tanta pace, per cui si possono soffrire torrenti e mari di pene, di dolori, di martìri e sofferenze le più umilianti, con la più perfetta tranquillità di spirito, che è sempre in un misto di pace e di dolori, che sarà in paradiso godere la tua beatifica visione, senza miscela di dolori?”.
Chi può dire, poi, quale e quanta è la bellezza del suo volto adorabile? La sua carnagione è pari alla neve, tinta leggermente di un color di rose le più belle. Nelle sue guance porporine si scorge la grandezza della sua persona in aspetto maestosissimo, del tutto divino, che nel contempo incute timore e riverenza, ed insieme vi dà tanta confidenza che, messa a paragone di quella che si potrebbe trovare nelle umane creature, vi sarebbe quella differenza che passa tra il nero ed il bianco, o tra le cose più amare e le più dolci di quaggiù; ossia, qualsiasi altra confidenza di creatura è un’ombra sola di quella confidenza che s’infonde da Gesù in me… Ah, sì, la confidenza di Gesù verso l’anima si affaccia sul suo volto santo, che mentre è così maestoso, è pure tanto amabile, in modo che questa sua amabilità vi attira tanto che l’anima non ha alcun dubbio di non essere ben accetta a Gesù, che non sdegna mai la sua creatura per quanto brutta e peccatrice sia, se nell’accesa fiamma dell’amore ritorna nelle sue braccia. Che dirò, poi, dei lineamenti del naso, della bocca e labbra di Gesù? Graziosissimo è il naso, che scende finissimo dalle bionde sue sopracciglia, e leggermente si allarga in punta proporzionata al sacratissimo volto. La sua bocca, poiché piccola ed atteggiata a dolcissimo sorriso, con le sue labbra finissime d’un colore scarlatto, è soave e graziosissima, e mentre si apre per parlare sembra che contenga qualche cosa di preziosità, che mente umana non può esprimere a parola, giacché la comprende superiore a qualsiasi immaginabile detto di quaggiù. Solo dalla voce si arguisce quel­la dolcezza e soavità di paradiso, che è una profusione armoniosa e sì celestiale da rapire il cuore più restio alla voce della grazia. Ah, sì, la voce del mio diletto è sì soa­vemente penetrante, che innamora toccando ogni fibra del cuore, in cui si producono, in meno che si dica, i più vivi e caldi affetti, tanto che l’anima resta di primo tratto come rapita. Ma chi può dir tutto? È tanto piacevole la sua voce, che i piaceri tutti della terra, a confronto di una sola parola articolata del mio Gesù, sono meno che niente; solo è da dirsi che, presi tutti insieme, non sono altro che misera parvenza, in confronto della dolce voce di Gesù. Questa è ancora potentissima nell’operare le più grandi meraviglie; nello stesso atto che parla, produce all’anima l’effetto che vuole in essa.
Ah, sì, è bella la bocca di Gesù, ma sovranamente bella nell’atto di parlare, in cui si vedono quei denti così nitidi e ben aggiustati, che ti procurano la più grande ammirazione, e ti manda un alito di amore così palpitante che incendia, saetta e consuma, nel cuore di chi ascolta la sua voce, ogni affetto che non sappia di cielo. Più belle sono le sue soffici mani, bianche e delicatissime, aventi le dita così terse e diafane che, toccando ogni cosa, le muove con tale maestria che è un vero incanto… Oh, quanto sei bello e tutto bello, o mio grazioso e dolce Gesù! Perdonami se ho ardito parlare della tua bellezza così malamente, ché quanto ho detto, messo a paragone della tua vera bellezza, è un puro niente di quel bello tutto tuo.
Veramente, ho ritrattato[44] con tanti miei spropositi quella bellezza, di cui non son degni né capaci di parlare adeguatamente nemmeno gli angeli tuoi; ma che vuoi? È stata la santa obbedienza che me l’ha ingiunto. Ho fatto alla men peggio per contentarla; se a te non è riuscito gradito, non solo perdonami, ma fai in modo che sia dall’ubbidienza quanto prima bruciato, perché non si addicono alla tanta tua bellezza questi miei spropositi e sconciature.
Se non ci fosse stato un severo precetto di obbedienza, dico francamente che giammai mi sarei indotta a continuare l’attuale umiliazione di mettere su carta le strane scene della mia vita, le quali si fanno di giorno in giorno sempre più insolite e quasi, come ad altri sembreranno, affatto bizzarre. Ciò nondimeno, non potendo fare diversamente, mi accingo a dire che il mio diletto Gesù, dopo che si fece vedere, ed in certo qual modo contemplare in quell’aspetto poco anzi descritto così malamente da me, emanò dalla sua bocca un alito soavissimo e di olezzante fragranza di paradiso, che m’in­vestì tutta, sia l’anima che il corpo, ed in virtù di quel­l’alito mi trasse dietro di sé, ed in meno che si dica fece uscire fuori l’anima mia da ogni parte del corpo, dandomi un corpo semplicissimo, tutto risplendente di purissima luce, ed appresso a lui presi il suo rapidissimo volo, girando la grande vastità dei cieli. Ora, essendo la prima volta che mi succedeva questo meraviglioso fenomeno, mentre l’anima usciva dal corpo, incominciai ad esclamare: “Adesso sì che è venuto il Signore a pren­dermi, per cui, certamente, ora muoio!”.
Quando mi vidi fuori del corpo, l’anima mia provava la medesima sensazione di quando era ancora nel corpo, con questa differenza, che il corpo unito all’ani­ma percepisce ogni sensazione per mezzo dei sensi, ed il tatto rimette [le sue percezioni] alla capacità delle po­tenze dell’anima, mentre in questo caso l’anima prende da sé ogni sensazione e comprende all’istante tutto ciò che attraversa e penetra, fosse anche la più astrusa ed impercettibile cosa, e questa, sia che stesse lontana o da vicino, sempre però che lo voglia Iddio. La prima cosa che sentì l’anima mia nell’uscire dal corpo, fu un certo timore e tremore nel seguire il volo del mio diletto Gesù, che continuava a tirarmi dietro a quel suo alito di paradiso mentre mi diceva: “Se tanta pena hai tu provato stando qualche ora nella privazione della mia visuale presenza, adesso vola e vieni meco, ché voglio sempre consolarti ed inebriarti del mio amore”.
Oh, quanto fu bello arieggiarsi l’anima al modo di Gesù lungo la volta dei cieli! Mi sembrava come se pog­giassi a Gesù, e che Gesù mi sostenesse a fine di non farmi precipitare e per tenermi sempre dietro di lui, che, sebbene mi precedesse, pur nondimeno era stretto meco, in modo che io lo seguivo poggiata a lui ed egli a me, mentre col suo dolce alito mi sosteneva e tirava dietro di sé. In breve dico che in me c’è tutta la rappresentazione visibile dell’accaduto, ma non vi è l’espressione per ma­nifestarla. Dopo aver girato l’immensità dei cieli, il mio diletto Gesù, che trova le sue delizie nella compagnia degli uomini, fece sì che mi trovassi in sua compagnia in certi luoghi in cui l’iniquità degli uomini più inondava di nefandezze. Oh, quanto si cambiò allora l’aspetto dolcissimo del mio diletto Gesù! Oh, quanta pena non entrò velenosamente ad amareggiare il suo sensibilissimo cuore! Io allora lo vidi con più chiarezza delle altre volte soffrire indicibili sofferenze; vidi il suo adorabile cuore ansare come quello d’un moribondo che muore di spavento, e poi quasi svenuto; e nel vederlo ridotto in quel sì miserabile stato, gli dissi: “Mio adorabile Gesù, quanto ti sei cambiato! Tu mi dai la figura d’un moribondo; appoggiati a me, fammi partecipe delle tue acerbissime pene; il mio cuore più non regge a vederti solo e tanto soffrire”.
Allora Gesù, quasi riprendendo il respiro, mi disse: “Ah, sì, diletta mia, a te sta l’aiutarmi, ché non ne posso più”. E così dicendo mi trasse più intimamente a sé, e versò dalle sue labbra nella mia bocca un’amarezza tale da procurarmi pene del tutto mortali, e tanto da sentirmi come se tanti coltelli, punture di lancia, frecce, dardi e saette, penetrassero da parte a parte l’anima mia. In questo stato di sofferenze, che degli strazi è il più atroce, il mio diletto Gesù fece entrare di nuovo l’anima mia nel mio corpo, e mi disparve. Chi può dire, ora, le pene stra­zianti che sentì il mio corpo al contatto dell’anima, che rientrava in esso? Solo Gesù lo può dire, che tante e poi tante volte me le ha comunicate e poi mitigate, che altri al mondo non solo non può alleviare, ma nemmeno immaginare a fondo ciò che si soffre. Da questo punto narrativo della mia anima, che in appresso chi sa quante volte uscendo dal mio corpo ha seguito il mio diletto, si può congetturare come la morte tante altre volte si è bur­lata di me, miserabile, tanto sono indegna di morire ancora, ma verrà, verrà presto…, verrà quel tempo in cui non più si burlerà di me, ma sarò io che mi burlerò di lei dicendole: “Una volta ho scherzato teco, ma così bene ti ho sferzata e sfiancata da renderti di mille e cento [volte] più che la pariglia, [anzi] completa vincita”.
E a ragione dico ciò, perché se non fosse stato per Gesù - il quale, talvolta, dopo aver comunicato direttamente le sue strazianti pene all’anima mia, mi ha fatto riavere, sia con l’avvicinamento al suo cuore che è vita per me, o col prendermi fra le sue braccia che per me sono fortezza, oppure col versarmi un dolcissimo liquore dalla sua bocca - certamente sarei già morta, giacché le pene comunicate direttamente all’anima sono chissà quanto più strazianti di quelle comunicate al corpo.
Gesù quindi, allorché vedeva che naturalmente non potevo più durare in vita, perché giungevo sino agli ultimi estremi di vita, mi aiutava da sé[45] per non farmi soccombere, che [diversamente] mi avrebbe fatto esalare l’anima con l’ultimo respiro. Talvolta, poi, Gesù agiva direttamente mercé l’opera del confessore a cui ispirava di venire più presto a farmi riavere. Ma dico la verità, che quelle pene, mercé l’ubbidienza si mitigavano in certo qual modo, ma non così come quando operava Gesù su di me ed in me. Ricordo benissimo che il più delle volte, quando Gesù voleva comunicarmi le più spasimanti pene, allora faceva uscire l’anima dal corpo, e menandola seco, lui mi faceva notare i tanti peccati che venivano commessi dagli uomini, sia di bestemmia che contro la carità, e di qualsiasi altra specie, [e] mi versava parte di quell’amaro veleno che egli già sentiva tutto in sé come effetto causato dai tanti peccati. A mio modo di pensare, posso dire, senza dubbio di errare, dall’effetto prodotto in me, che il peccato della disonestà è quello che più offende ed amareggia il cuor di Gesù.
Versando egli in me una particella di quella sua amarezza, sentivo che entrava in me una materia sì nauseante, marciosa, puzzolente ed amareggiante, sino a farmi sentire esalare dal mio corpo tale fetore che mi faceva toccare talmente lo stomaco, che se non prendevo subito qualche cosa per rovesciare quel marciume misto al cibo, venivo meno. E tutto ciò non bisogna credere che avvenisse soltanto quando Gesù, in genere, mi faceva notare le nefandezze che si commettono soltanto da coloro che sono stimati grandi e pubblici peccatori, ma ancora, ed in particolar modo, allorché mi tirava dietro di sé nelle chiese, in cui pure viene offeso il mio amabile Gesù. Oh, come toccavano sì malamente il suo cuore quelle opere in sé sì sante, ma esercitate sì strapazzatamente; quelle orazioni vuote di spirito interno; quella finta pietà, apparentemente devota; quella ipocrisia, pareva che facessero più insulto che onore al mio Gesù. Ah, sì, quelle opere così malamente eseguite nauseavano quel cuore sì santo, puro e retto. Oh, quante volte non ha fatto meco doglianza, dicendomi: “Figlia mia, vedi, anche da parte di chi si dice devoto, quante offese e quanti insulti mi si fanno, fin nei luoghi santi ed anche nel ricevere gli stessi sacramenti! Perciò invece di ricevere grazie e di uscire di chiesa purificate, queste anime escono più imbrattate di colpa, e da me, quindi, non benedette”.
E nello stesso momento mi ha fatto notare certe persone che si comunicavano sacrilegamente; oltre di che, sacerdoti che celebravano il santo sacrificio della messa per abitudine, per spirito d’interesse ed in peccato mortale, che fa anche orrore a dirlo. Oh, quante altre volte Gesù mi ha fatto vedere scene sì dolorose al suo cuore, da farlo quasi agonizzare! Talvolta, mentre il sacerdote celebrava sì sacrosanto mistero di amore [e] consumava la vittima, ostia di propiziazione, Gesù era costretto ad uscire presto presto dal suo cuore, infangato di spirituali miserie. Altre volte, poi, perché chiamato a discendere dall’alto dei cieli ad incarnarsi nell’ostia mercé le parole potenziali del sacerdote, nauseava l’ostia non ancora consacrata, perché tenuta fra le mani impure e sacrileghe di chi, con autorità di lui stesso, lo intimava a discendere con esitazione; e Gesù, per non venir meno alla sua parola, s’incarnava in quell’ostia, che stillava marciume d’impurità prima, e poi stillava sangue di deicidio. Oh, quanto mi appariva allora compassionevole lo stato sacramentale di Gesù! Mi sembrava come se volesse fuggire da mezzo a quelle mani immonde, ma [era] pure costretto dalla stessa sua promessa a starsene, sino a tanto che le specie del pane e del vino non fossero ben consumate, in quello stomaco, più nauseante ancora di quelle mani che sì indegnamente lo avevano più volte indegnamente toccato. Ma al consumarsi le sacre specie se ne veniva a me, ed aprivasi meco lamentandosi così: “Ah, sì, figlia mia, fammi versare in te una porzione del­la mia amarezza, ché più non posso contenerla da solo in me; abbi tu compassione del mio stato, che è divenuto troppo doloroso. Abbi dunque pazienza; soffriamo un poco insieme”.
Ed io: “Signore, sono pronta a soffrir teco, anzi, se mi fosse data la capacità di prendere meco tutte le tue amarezze, oh, quanto lo farei volentieri per non vederti più soffrire”.
Gesù allora, mentre io così dicevo, versava dalla sua bocca nella mia quella parte di amarezza che potevo contenere in me, e soggiungeva: “Figlia mia, è un nulla ciò che ho versato in te delle mie amarezze, come tu [sei] capace di ricevere; ma quante e quante altre anime vorrei che fossero disposte al medesimo sacrifizio che tu hai fatto per amor mio! Non perché io potessi versare in esse tutta l’amarezza che ha subito il cuor mio, ma almeno per avere quella soddisfazione di essere contraccambiato in amore e benevolenza tutta figliale”.
Eppure non si può esprimere a parola quanto quel copioso versamento di Gesù era amaro, velenoso e stomachevole, per il marciume sì fetente e nauseante, che alle volte, per quanto sforzo facessi, il mio stomaco si rifiutava a sostenerlo, e mentre cercavo di mandarlo giù, un forte conato me lo respingeva su, fino alla gola; ma l’amore che sentivo per Gesù non [me] lo faceva sempre versare, perché aiutata e sostenuta dalla sua grazia. Chi può dire, ora, le sofferenze che mi producevano questi versamenti di Gesù? Erano tali e tante che, se non mi avesse sostenuta, fortificata ed invigorita, sarei già stata certo vittima della morte.
Eppure ripeto che Gesù non versava in me che la minima parte di quell’amarezza sorbita da lui, giacché la creatura non può contenere di amarezza e di dolcezza insieme, tanta quanta ne può contenere l’amabilissimo mio bene. Perciò egli solo sorbisce e tollera la piena amarezza che [gli] viene cagionata dal peccato. Con do­lore, quindi, ho sempre esclamato a questa considerazione: “Oh, quanto è mai brutto e micidiale il peccato! Ah, se tutti nella piena conoscenza di esso provassero ancora [nella sua] essenza quel suo effetto velenoso ed amareggiante, affinché avendolo ben conosciuto lo evitassero come orribile mostro che sbuca dall’inferno!”.
Ora, se l’ubbidienza mi ha indotta a dire in succinto circa le scene dolorose che il mio sempre amabile Gesù mi ha fatto notare, per farmi partecipe delle sue amarissime pene, non posso passare sotto silenzio ancora quel­le scene consolantissime che rapivano il mio cuore, allorquando mi metteva a parte delle ineffabili ed inaudite dolcezze spirituali, col farmi vedere i buoni e santi sacerdoti che fervorosamente e con spirito di vera umiltà si portavano alla celebrazione dei misteri sacrosanti del­la nostra religione. Vedendo celebrare questi, con profonda considerazione [di] quanto di prezioso si svolge nel breve spazio di una mezz’ora, mi sentivo spesso spesso di esclamare nella pienezza del mio affetto verso il mio diletto Gesù: “Oh, quanto è alto, grande, eccellente e sublime il ministero sacerdotale, a cui è data sì eccelsa dignità, non solo di trattare con te, mio Gesù, così da vicino, ma ancora d’immolarti all’eterno tuo Padre come vittima propiziatoria di amore e di pace!”.
Oh, quanto mi riusciva consolante il mirare e il rimirare insieme un santo sacerdote celebrante la santa messa, e Gesù in lui; era trasformato in modo tale da vedersi una sola persona, anzi, pareva che non il sacerdote, ma Gesù stesso celebrasse il divino sacrificio, e tanto che alle volte la persona di Gesù faceva occultare affatto in sé il sacerdote, tanto che io vedevo solo Gesù che celebrava la santa messa mentre io l’ascoltavo… Allora sì che era commoventissimo sentire Gesù recitare con tale unzione di grazia quelle preci, dignitosamente muoversi ed eseguire quelle sante cerimonie, così punto per punto da suscitare in me le più eccellenti meraviglie d’un sì alto e sì santo ministero. Chi può dire quante grazie io ricevevo, quanto mi riusciva [consolante] veder celebrare le messe con devozione ed attenzione tutta divina, e quanti lumi e carismi divini io comprendevo allora, e che ora vorrei passare sotto silenzio? Ma non posso fare a meno di dirne in succinto qualche cosa, giacché l’ubbidienza me lo impone, e più che ogni altro, Gesù stesso, che mentre sto scrivendo, movendosi nel mio interno, ha preso a rimproverarmi che per svogliatezza avrei voluto omettere ogni cosa. Ed ora, con la massima fiducia in lui perché voglia suggerirmi quanto sto per scrivere, ho esclamato:
“Oh, quanta pazienza ci vuole con te, o mio buon Gesù! Ebbene, ti contenterò, mio dolce amore, ma lo farò aiutata dalla tua grazia, giacché mi sento non solo indegna di parlare su di un mistero sì profondo e sì sublime, ma quanto ancora incapace di dire alcunché, per quanto concerne sì alto mistero”.
Dico adunque, ora, che mentre ascoltavo il divin sacrifizio, Gesù mi faceva capire che nella messa, considerata bene sino al fondo del mistero che si svolge, vi è racchiuso tutto il mistero della nostra sacrosanta religione. Ah, sì, la messa ci fa notare tutto e ci parla tacitamente al cuore di tutto l’infinito amore di Dio, con espansione inaudita, elargito a vantaggio degli uomini. Essa ci ricorda sempre la compiuta nostra redenzione; ci fa ricordare parte per parte le pene che Gesù patì per noi, ingrati al suo amore; ci fa comprendere che egli, non essendo ancor contento di morire una sola volta sulla croce per noi, vuole diffondersi sempre più nel­l’amore immenso, tutto se stesso, mercé l’istituzione di questo perenne sacrifizio, per continuare il suo stato di vittima ancora, nella santa eucaristia. Mi ha fatto capire, Gesù, che la messa e la santa eucaristia sono perenne memoria della sua morte e della sua risurrezione, e che comunica non solo alla nostra anima, ma ancora al nostro corpo, quell’antidoto d’una vita immortale.
La messa, quindi, e l’eucaristia, ci dicono che i nostri corpi disfatti ed inceneriti mediante la morte, risorgeranno nel giorno finale a vita immortale, che per i buoni sarà gloriosa, e per i perversi ricolma di tormenti, giacché questi non essendo vissuti con Cristo, non risorgeranno in lui, mentre i buoni, essendo stati in vita nell’intimità con Cristo, risorgeranno quasi a pari dello stesso Gesù. Mi fece, quindi, ben comprendere che la cosa più consolante che si racchiude nel sacrifizio della messa - il più eccellente di tutti gli altri [misteri] della nostra santa religione - è Gesù in sacramento e la sua risurrezione; questa, in concomitanza con la passione e morte dello stesso Gesù, misticamente si rinnova sui nostri altari, tante volte per quante volte si celebra il sacrosanto sacrifizio della messa; e Gesù in sacramento, velato sotto gli azzimi sacramentali, si dà realmente ai co­municanti per essere loro compagno e vita, lungo il pel­legrinaggio di questa vita mortale, e gloria e vita sempiterna, mercé la sua grazia, nel seno della Santissima Trinità, a cui parteciperanno le nostre anime unite ai nostri corpi. Questi misteri sono sì profondi, che soltanto nella vita immortale ci sarà dato comprenderli appieno. Ora, Gesù in sacramento ci dà una parvità[46] di quella comprensione che ci sarà data lassù nei cieli, e lo fa in più modi, e quasi toccare con mano.
In primo luogo, la messa ci mette nella considerazione della vita, passione e morte di Gesù, a cui tiene dietro la sua gloriosa risurrezione, con la differenza però che tutto ciò fu eseguito dall’umanità di Cristo e si com­pì nel corso di 33 anni, realmente scorsi nelle diverse vi­cissitudini della vita, mentre nella messa, misticamente ed in breve spazio di tempo, si rinnova esso tutto, in sta­to di vero annientamento, in cui le specie sacramentali contengono Gesù vivo e vero, sino a tanto che non saranno consumate; ma poscia non esiste più la reale presenza di lui sacramentato nei nostri cuori, ma ritorna nel seno del suo Divin Padre, come quando risuscitò da morte. E poi, consacrate di nuovo nella messa altre specie, discende di nuovo a prendere lo stato di vittima di pace e di amore propiziatorio, per cui si rinnova il suo stato sacramentale per vantaggio di noi viatori e per sod­disfazione e gloria del suo eterno Padre. Così, in sacramento, ci ricorda la risurrezione dei nostri corpi alla gloria, giacché, come egli, cessando lo stato sacramentale risiede nel seno di Dio Padre, così le anime umane, cessando lo stato della vita presente, passeranno a fare eterna dimora nel cielo, nel seno di Dio, mentre i nostri corpi resteranno consumati al pari delle specie sacramentali, quasi che non avessero più esistenza; ma poscia, con prodigio dell’onnipotenza [di Dio], acquisteranno nel dì dell’universale resurrezione la vita, [e] congiunti alla propria anima andranno assieme a godere, se buoni, l’eterna beatitudine di Dio; in caso contrario andranno lungi da Dio, a soffrire i più atroci ed eterni tormenti.
Se tutto ciò che si è detto è effetto meraviglioso che scaturisce come da fonte limpidissima dal sacrifizio del­la messa, come poi i cristiani non si avvezzano per farne profitto? Si può avere cosa più consolante e salutare, dal nostro buon Dio, per un cuore che ama, giacché non so­lo nutrisce l’anima a fine di renderla degna del cielo, ma comunica al corpo quella prerogativa per cui potrà a suo tempo bearsi degli eterni contenti del suo Dio? A me sembra che in quel gran giorno succederà [come] quel fenomeno naturale che si presenta alla vista di chi sta contemplando il cielo, che è tutto stellato, mentre s’ap­pressa l’ora della comparsa del sole. Che cosa avviene mai? Il sole, apparendo nella sua smagliante luce, assorbisce in sé la luce di tutte le stelle, e mentre queste scompaiono alla vista dell’osservatore, resta ognuna nel­la sua luce propria e al proprio posto, tanto che queste, al tramontar del sole, come se ricevessero novella vita, si fanno di nuovo a risplendere nel firmamento. Così delle anime: investite, come stelle, della luce comunica­ta loro dal suddetto sacrifizio e sacramento di amore, al­lorché si troveranno al giudizio universale nella valle di Giosafat, prima che arrivi Gesù, sole eterno di giustizia, ognuna di esse sarà osservatrice di tutte le altre anime, ed in ciascuna si osserverà quella luce acquistata e comunicata da sì santo sacrifizio e da sì sacrosanto sacramento di amore, ma al comparire di Gesù giudice e sole eterno di giustizia, nella sua immensa luce assorbirà in sé tutte le anime beate che risplendono come stelle, e le farà sempre esistere in lui, facendole nuotare nel mare immenso di tutte le perfezioni di Dio. E delle anime prive di questa divinissima luce, che ne sarà mai? Andrei troppo per le lunghe se volessi rispondere a questa domanda, però se il Signore lo vorrà lo farò in altra occasione, come mi riserbo di dire qualche altra cosa che Gesù mi ha fatto conoscere circa il suddetto oggetto d’amore.
Dico, ora, soltanto, che Gesù mi ha fatto comprendere che i corpi uniti alle anime che hanno luce risplendente, saranno in eterno uniti con Dio; quelli che invece saranno uniti alle anime nerissime e caliginose, per mancanza di luce non procacciata mercé la partecipazione dovuta e voluta a questo sacrifizio e sacramento di amore, saranno gettati e sprofondati, privi della luce della grazia, nelle più fitte tenebre, a seconda della loro ingratitudine commessa scientemente contro sì gran donatore; ivi, sotto la schiavitù del principe delle tenebre, Lucifero, saranno tormentate in eterno dal rimorso più terribile e straziante.
Ora, rifacendomi da capo, dico che in queste uscite che faceva la mia anima dal corpo, sebbene Gesù mi mettesse a parte delle sue acerbissime pene che soffriva per la mala corrispondenza al sacrifizio e sacramento di amore da parte di tanti ingrati, ciò nonostante, mercé la luce di grazia che sempre si infondeva da Gesù in me, io ero a dovizia accesa di sante brame di volermi sempre più unire a lui. Gesù, ancora da parte sua, mi rinnovava spesso le dolci promesse già dette circa le mistiche nozze che quanto prima voleva far meco, per cui mi sentivo animata tante volte a sollecitarlo col dirgli: “Deh, o sposo dolcissimo, fa presto; non più si meni a lungo la mia intima unione con te. Vedi che io non ne posso più; le mie brame sono così accese che mi sento del tutto divorare. Deh, stringiamoci con più forti vincoli di amore, in modo che nessuno ci possa separare, anche per un istante solo”.
Ma Gesù, che pur m’infondeva l’accesa brama di effettuare questo mistico sposalizio, mi ripeteva: “Tutto ciò che è terreno deve togliersi, tutto, tutto, non solo dal tuo cuore, ma bensì anche dal tuo corpo. Tu non sai capire quanto è nocevole la minima ombra terrena, e di quanto impedimento sia questa all’amor mio”.
A tali parole di Gesù mi feci ardita, dicendogli subito: “Signore, a quel che pare, ci ho ancora qualche cosa da togliere per piacere perfettamente a te, ma perché non dirmela? Tu lo sai se io non sia pronta a fare tutto quello che vuoi”.
Ma mentre così dicevo, ebbi un raggio di luce da Gesù, per cui mi avvidi che Gesù voleva parlare di un anello di oro che avevo al dito, in cui vi era l’immagine sua crocifissa; ed io immediatamente gli dissi: “O sposo santo, sono più che mai disposta a toglierlo dal dito, se tu lo vuoi”.
Ed egli: “Sappi che dovendo io darti un anello più prezioso e più bello, in cui sarà impressa più al vivo la mia immagine, in modo che ogni volta che lo guarderai nuove frecce di amore riceverà il tuo cuore, il tuo anello non ti è più necessario”.
Ed io allora, più che contenta, giacché non sentivo in me alcuna passione, prontamente me lo tolsi, dicendogli: “Ecco, sposo santo, ti ho contentato; dimmi se c’è altra cosa che sia d’impedimento alla nostra indissolubile ed eterna unione che vuoi far meco”.
Dopo una lunga aspettazione e diligentissima preparazione, frammista a soavissime consolazioni, e di non poco patire, giunse finalmente il sospirato giorno della mistica unione con Gesù, diletto sposo dell’anima mia. Come ben mi ricordo, pochi giorni mancavano a compiere l’anno in cui Gesù mi tenne continuamente in letto. Era il giorno della purità di Maria Santissima[47]. La notte precedente, il mio amante Gesù mi si fece vedere con insolito affetto e tutto festoso, e parlandomi con più intimità prese fra le sue mani il mio cuore, lo guardò e riguardò più volte, e dopo averlo ben bene esaminato e come spolverato lo rimise al suo posto; indi prese una veste di una immensa bellezza, che pareva come se avesse un fondo tutto di oro finissimo, screziato a vari colori, e con questa mi vestì; prese ancora due preziose gemme, come se fossero orecchini, ed ingemmò le mie orecchie; il collo e le braccia li ornò di monili di oro e di gioie preziose, e dopo mi cinse la testa di una bellissima corona d’immenso valore, arricchita di gioie le più preziose, risplendenti di vivissima ed insolita luce. A me, poi, pareva che quelle luci producevano fra loro un suono sì armonioso, che a chiare note facevano comprendere che parlassero della bellezza, della potenza, della bontà, della carità e maestà di Dio, e di tutte le virtù dell’umanità del mio sposo Gesù. Chi può dire, ora, ciò che io compresi mentre l’anima mia nuotava in un mare immenso di consolazione? Ciò sarebbe del tutto impossibile a dirsi. Passo perciò a dire ciò che mi diceva Gesù, mentre mi cingeva la fronte: “Sposa dolcissima, questa corona di cui ti cingo la fronte ti è data da me, acciocché nulla ti manchi per farti degna di essere mia sposa; ma me la cederai dopo eseguito il nostro sposalizio, per ridartela in cielo al punto della tua morte”.
Finalmente prese Gesù un velo, con cui mi coprì dalla testa sino ai piedi, e cosi mi lasciò, nella considerazione più profonda di me stessa, in quella di un tanto e sì prezioso abbigliamento fatto da Gesù stesso alla mia miserabile persona, ed in ultimo, in quella considerazione dei diversi significati concernenti ciascun ornamento con cui Gesù volle abbigliarmi nella precedente notte del nostro mistico sposalizio. In quanto alla mia persona, dico che non c’è stato mai un fatto ed esigenza della mia vita che mi abbia fatto trovare in un episodio così stravagante, da farmi sentire il grave peso che un Dio possa dare ad una creatura che si dica amante del suo Dio. Oh, che effetto veramente strano non ebbe a soffrire allora il mio spirito! Infatti, invece di sentirsi sublimato all’eccelso atto di Gesù, compiuto sulla mia persona, avvenne tutto il contrario, in modo da farmi toccare la nullità di me stessa. L’annichilamento che sentivo di me stessa fu tale, che mi credetti fuori del mio proprio essere, in modo tale che mi venne in mente essere veramente questo il morire; ed in questo annientamento ricorsi al mio diletto Gesù, pregandolo che mi avesse usato novella sua misericordia, giacché nella mia grande confusione non pensavo che era un Dio colui che abbigliava di tanti preziosissimi monili l’ultima delle sue predilette ancelle, alle quali non si addice non solo un tanto abbigliamento, ma ancora e soprattutto che da servente nuziale faccia un Dio[48], quel Dio al cui cenno tutte le creature obbediscono; e quindi lo supplicai che mi avesse usata venia, nella sua misericordia.
In quanto, poi, al significato che si racchiudeva in tanti abbigliamenti, presi ognuno separatamente, li passo sotto silenzio, giacché poco ricordo dopo tanto tempo. Solo dico che il velo col quale mi avvolse Gesù dal­la testa ai piedi fu di spavento ai demoni, i quali, mentre stavano alla vedetta di quanto Gesù operava sulla mia persona, non appena mi videro ricoperta da quello, restarono talmente spaventati ed impauriti che non ardirono, non solo di appressarsi a me, ma quanto che se ne fuggirono atterriti per non più molestarmi, avendo perduto essi ogni audacia e temerità.
Sono sempre da capo e al medesimo ritornello, a dire che per quanto io trovi difficile mettere su carta tutto quanto è passato tra Gesù e me, pure, volendo stare al­l’ingiunta obbedienza, mi conviene vincere ogni ritrosia. Riprendo quindi il filo della narrazione dell’abbiglia­mento della mia povera persona, eseguito nella vigilia della purità di Maria Santissima dallo stesso mio amante Gesù, il che fu di gran spavento e terrore ai demoni, i quali, atterriti, se ne fuggirono, mentre gli angeli di Dio, presi nello stesso tempo da insolita venerazione verso di me, ed in modo tale che io ne restai confusa e piena di rossore come se avessi commesso qualche grande sregolatezza, si appressarono a me e mi tennero compagnia e guardia fino al ritorno del mio amante Gesù. La mattina seguente, dunque, Gesù tutto maestoso se ne venne a me con più insolita affabilità e dolcezza insieme, con Maria Santissima e santa Caterina, e fece segno agli angeli che cantassero un dolcissimo inno, tutto celestiale; e mentre questi cantavano, santa Caterina mi si appressò per assistermi nella celebrazione delle mie mistiche nozze con Gesù, mentre la mia dolce Mamma, Maria Santissima, facendomi un dolce rincoramento, mi prese la mano per farmi mettere al dito, da Gesù, il preziosissimo anello nuziale. Compiuto quest’atto, Gesù, con la più ineffabile sua bontà, mi abbracciò e ribaciò più volte, e ciò lo fece fare ancora dalla sua e mia Madre Santissima. Mi tenne quindi in un celestiale colloquio di amore, in cui mi manifestò tutte le finezze ed attrattive di amore che egli sente verso di me; ed io, immersa nella più grande confusione, considerando la nullità del mio amore, gli dissi: “Gesù, ti amo, ti amo; tu lo sai quanto io ti amo”.
La Santissima Vergine mi fece, indi, considerare e poi ben comprendere la straordinaria grazia che Gesù mi aveva fatta, con unirmi indissolubilmente a lui, e mi esortò alla più tenera corrispondenza di amore che dovevo avere verso il mio sempre amabile sposo Gesù.
Finalmente, il mio sposo Gesù si fece a darmi novelle regole di vita, per farmi vivere più intimamente [unita] a lui, seguendolo più perfettamente [di quanto] non ho fatto per il tempo già passato. Queste regole che mi furono date da Gesù, non mi è facile dir[le] bene in modo tecnico, ma solo in succinto ed a seconda della mia applicazione e dell’esercizio pratico che giornalmente, con la grazia di Dio, non è stato da me mai omesso.
1) Dico, dunque, che Gesù innanzi tutto m’ingiunse un distacco totale da tutto il creato e fin da me stessa, quasi che dovessi vivere nel perfetto oblio di tutte le cose, per fare in modo che il mio interno si disponesse ad aver sempre fisso il dolce ricordo di lui, ed un affetto vivo e palpitante di amore verso di lui, affinché, compiacendosi di tutti gli atti, formasse nel mio cuore stabile dimora. Fuori di lui - mi disse - non dovevo conoscere più nessuno, né amici, e neppure me stessa; solo in lui doveva risvegliarsi la rimembranza di tutto e di tutti, giacché in lui non può non trovarsi la creatura; e per arrivare a ciò, aggiunse che dovevo agire sempre con santa indifferenza e noncuranza di quanto potesse avvenire intorno a me, cioè operare sempre rettamente e con la massima semplicità, non tenendo conto del pro e del contro che potesse venirmi dalle creature. In pratica, poi, se talvolta tutto ciò non facevo, il mio dolce Gesù, riprendendomi severamente, mi diceva: “Se non giungerai al distacco effettivo, non solo, ma affettivo ancora, non potrai essere tutta investita della mia luce; ma se invece ti svestirai d’ogni affetto terreno, diverrai come un tersissimo cristallo, che attraverso di sé fa passare la pienezza della luce; così la mia divinità, che è luce, entrerà tutta in te”.
2) In secondo luogo mi disse che io non dovevo più vivere in me stessa, ma sola e tutta in lui, vivendo cioè distaccata da me stessa; dovevo aver sempre cura d’in­vestirmi del vero spirito di fede, mercé il quale dovevo procurare di conoscere sempre più me stessa, per diffidare della mia propria capacità, ché non son buona a far nulla da me, e conoscere sempre più il mio Gesù, per poter sempre più confidare in lui.
“E dopo che avrai conosciuto te stessa e chi sono io - mi disse - in conseguenza avverrà che spesso spesso uscirai fuori di te stessa, per tuffarti nel mare immenso della mia provvidenza. Tu quindi, come una piccola sposa di cui lo sposo è tanto geloso che non vuole permetterle di prendere il minimo piacere con altri, ti terrai sempre stretta a me; e come quella se ne sta con la faccia sempre rivolta verso lo sposo, per far che non possa dubitare di lei, così tu mi darai assoluto dominio su di te, tanto se volessi vezzeggiarti, colmarti di carismi, di baci, di amore, come pure se volessi batterti, affligger[ti] ed infliggerti qualsiasi pena. A tutto dovrai assoggettarti per amor mio, sempre nella tua piena libertà, perché avremo in comune pene e gioie; e faremo anzi a gara chi di noi due saprà prendere più pene su di sé, per niun altro scopo che di piacerci e farci contenti a vicenda”.
3) “In terzo luogo, non deve stare in te la tua volontà, ma soltanto la mia, che dovrà stare e signoreggiare come un re nel suo real palazzo; altrimenti si faranno tosto sentire i disaccordi di un inetto amore, da cui si solleveranno fitte ombre che getteranno in te quelle disarmonie e quella dissomiglianza di operare, non voluta dalla comune nobiltà che deve assolutamente regnare tra me e te, mia sposa; e questa nobiltà regnerà in te se di tanto in tanto cercherai di entrare nel tuo nulla, cioè, se giungerai ad avere perfetta conoscenza di te, non per fermarti qui, ma, conosciuta la tua nullità, dovrai far di tutto e quanto prima [per] entrare nella infinita potenza della mia Volontà, da cui attingerai tutte le grazie di cui avrai bisogno per sollevare te in me, per fare il tutto con me senza tener conto di te, che del tutto voglio che scomparisca in me”.
4) “In quarto luogo, da ora innanzi voglio che tra te e me non ci debba essere quel ‘tu’ ed ‘io’; quindi, non più si dirà ‘farai tu’, ‘farò io’, ma ‘faremo noi’. Quel ‘tuo’ e ‘mio’ deve ancora scomparire, ma di tutto si dirà ‘nostro’, giacché tu, come mia sposa fedele, prenderai parte comune e guiderai le sorti del mondo. Tutti i redenti del mio sangue son divenuti figli e fratelli miei, e come son miei, saranno ancora figli e fratelli tuoi, i quali, come figli, saranno da te amati come da vera madre. È vero che molte pene ci costeranno questi fratelli e figli, perché la maggior parte son divenuti molto discoli, assai traviati, e molti ancora licenziosi; ma tu prenderai come me le loro meritate pene su di te, ed a costo dei più dolorosi sacrifici cercherai [di] metterli in salvo, facendo in modo che me li condurrai al mio cuore, coperti dai meriti delle tue sofferte pene, ed aspersi tutti del tuo e del mio sangue; in vista di cui, il mio Padre celeste non solo userà loro misericordia e perdono, ma ancora, se saranno perfettamente contriti, molti come il buon ladrone prenderanno presto presto eterno possesso del paradiso.
Finalmente, [nella] misura che ti distaccherai da tut­to ciò che non è puramente mio, ti troverai sempre più immersa nell’assoluta mia Volontà, in cui acquisterai la pienezza dell’amore mio, mercé la conoscenza della mia Essenza, che di giorno in giorno si farà sempre più viva in te; ed allora più che mai, come al riverberante riflesso della luce si vedono in uno specchio le immagini, così in me troverai realmente ordinate tutte le creature aventi spirito d’intelligenza e di amore, in modo tale che ad un sol colpo d’occhio le vedrai tutte e conoscerai lo stato di coscienza di ciascuna di loro, per cui tu, poi, come madre più che amorosa, nel vero spirito di misericordia che è spirito mio e della Madre mia, farai il massimo sacrifizio, immolandoti per esse; e questo sacrifizio sarà come un ammanto che tutta ti coprirà, come mia vera imitatrice e fedele sposa”.
Chi può dire, ora, le finezze di amore che il mio amabile Gesù mi ha prodigalmente, anzi eccessivamente, fatto dal quel giorno in cui contrasse meco il mistico sposalizio e mi diede quelle novelle regole di vita? Oh, quante volte e quante, trasportando la mia anima con sé, lui mi ha fatto entrare in paradiso, per quindi udire i cantici dei beati spiriti, che incessantemente inneggiano inni di gloria e di ringraziamento alla Divina Maestà! Ed io ho contemplato in Dio i diversi cori degli angeli, i diversi ordini dei santi, che sono tutti immersi nella divinità di Dio, il quale nella sua immensità li ha quasi assorbiti ed immedesimati tutti in lui. Mirando poi intorno al trono di Dio, mi pareva vedere tante risplendentissime luci, infinitamente più risplendenti del sole, che facevano mirabilmente vedere e comprendere tutti gli attributi e virtù di Dio, tutti inerenti alla sua infinita Essenza, comune alle Tre Divine Persone. Compresi inoltre che i beati spiriti, pur specchiandosi in tutte quelle luci, ora nell’assieme ed ora passando successivamente dall’una all’altra, restano rapiti in quella e da quella luce, ma non giungono mai a comprendere perfettamente Dio, perché è tanta la maestà, l’immensità e la santità di Dio, che mente creata, per tutti gli interminabili secoli dell’eter­nità, non arriverà a comprendere Dio, che è per eccellenza l’Essere increato ed incomprensibile. Ora, da quanto vidi ed appresi, dico che gli spiriti angelici ed i beati comprensori, specchiandosi in quella luce, venivano a partecipare alle virtù di quelle[49]. Come noi, esposti nel pieno meriggio del sole, veniamo non solo investiti dai raggi del medesimo, ma ancora riscaldati, così gli angeli e santi del paradiso, al cospetto dell’eterno sole Dio, sono investiti dalla luce eterna, in guisa tale che rassomigliano a Dio; con questa differenza, però: che tutto ciò che Dio contiene in sé è essenzialmente suo per natura ed essenzialmente infinito, mentre gli spiriti angelici e i beati comprensori hanno per partecipazione tutto ciò che contengono ed in quantità limitata, e a seconda della propria capacità.
Sicché Dio è l’infinito, l’increato ed eterno sole, che tutto se stesso dà senza che venga a perdere nulla di sé, mentre le creature vengono fatte partecipi di tutto, per cui rassomigliano all’eterno sole, reso in loro sole di piccolissima mole o grandezza. Per quanto però io abbia detto, sembrami d’aver detto tanti spropositi, giacché ciò che si possa apprendere in quel beato soggiorno, non si può assolutamente ripetere nella nostra limitata favel­la, e perciò si ha il concetto, l’idea, ma mancano i vocaboli ed espressioni per dire realmente come si ha appreso[50] in sé la cosa. L’anima, quindi, se uscita dal corpo per poco viene trasportata in quel beato regno, ritornando poi nel suo proprio carcere del corpo, le è impossibile dire tutto ciò che ivi ha veduto e compreso; eppure nella mente ha tutta l’impressione di ciò che ha percepito.
A me sembra che avvenga all’anima - che abbia avuto in sé l’impronta di ciò che Iddio voglia farle comprendere, nel tirarla nella patria celeste, per poco che facesse[51] - quella impressione che può avere un bambino che appena sa balbettare, dopo aver assistito ad un grande spettacolo teatrale; vorrebbe dire tante cose circa le cose che più hanno fatto impressione nell’animo suo, ma non riuscendo a dirne una, alfin, vergognandosi, resta tutt’affatto muto. Così io dovrei, piuttosto, restarmene muta, perché non so dire altro che spropositi su spropositi, se non fosse per l’ubbidienza che mi s’impone. Perciò continuo a dire che alle volte mi trovavo in quella beata patria a passeggiare insieme a Gesù, mio sposo di­letto, in mezzo ai cori degli angeli e dei santi, e siccome ero novella sposa, tutti uniti ci facevano corona, ci corteggiavano e partecipavano nel tempo stesso alle gioie del nostro eseguito sposalizio. Mi pareva allora come se mettessero quasi in oblio i loro contenti per occuparsi dei nostri; e Gesù, mostrandomi ai santi, diceva loro: “Quest’anima è divenuta un trionfo ed un portento del mio amore, mercé la sua corrispondenza alla mia grazia”; e additandomi poi agli angeli diceva loro: “Vedete che tutto ha superato il mio amore per lei”; quindi mi faceva mettere al seggio di gloria, di cui Gesù mi aveva fatta degna, e mi diceva: “Ecco il tuo posto di gloria; nessuno te lo potrà togliere”. Allora io credevo che stessi per non tornare più sulla terra; ma, ahimè, mentre ero di ciò quasi convinta, ecco che ad un cenno di Gesù mi ritrovavo, in meno che si dica, rinchiusa nel muro di questo corpo.
Chi può dire, ora, quanto penoso riusciva al mio spirito il dover restare nel corpo, poiché tutte le cose terrene, messe in confronto di quelle del cielo, parevano, anzi, mi davano la sensazione di un vero marciume? E fin anche le cose che ad altri dilettano i sensi, a me riuscivano tanto fastidiose e piene di amarezza; tanto che le persone più care e più ragguardevoli, a cui chissà quante cortesie e gentilezze avrebbero altri usate per farle trattenere in loro conversazione, a me riuscivano non solo indifferenti, ma tediose. Ma il solo guardarle come immagini di Dio me le faceva sopportare, benché l’anima non avesse provata la benché minima ombra di soddisfazione e di contento. Ed è appunto per questo che il mio cuore si era reso tanto inquieto ed irrequieto, che non facevo altro che lamentarmi col mio Gesù, tra le continue ansie e desideri del cielo; e nel mio interno provavo tale pena, tale amarezza e tale uggia delle cose di quaggiù, che il tutto mi rodeva l’anima, in modo tale da credere impossibile poter continuare a vivere quaggiù. L’ubbidienza però, stando a giorno di tutte le cose mie, mi arginò e frenò così bene, con l’assoluto comando di non dover desiderare più il morire, ma stare all’ub­bidienza per quando lo avesse voluto Iddio. E così feci, e per quanto era in poter mio, cercai allontanare dalla mia mente anche il pensiero della morte, nonostante che nel mio interno si fosse impressa una continua giaculatoria di ansie e desideri ardenti verso la patria celeste; e perciò il mio cuore, vinto in gran parte dall’ubbidienza, si chetò, ma non del tutto, giacché di tanto in tanto vi facevo delle scappatine; ed in questo, confesso la verità, difettai non poco. Ma che potevo io fare, se mi riusciva quasi impossibile frenarmi del tutto? Ed è perciò che riuscì per me quasi un martirio vero quel continuo lottare, per usare ogni mezzo, affin di frenare le mie ansie, ma che - ripeto - mi riusciva quasi impossibile.
Il mio amato Gesù, ancora, mi diceva: “Sposa mia, quietati; qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?”. Ed io: “Voglio stare sempre con te; non mi regge l’animo di stare più da te separata, non solo per un giorno, ma neppure per un istante solo; a qualunque costo perciò voglio venir teco”.
“Ebbene - mi diceva Gesù - se è per questo, ti contenterò con lo starmi sempre con te”. Ed io a lui: “Se così fosse, sì che mi contenterei, ma qui però tu ti fai perdere di vista, e quindi è lo stesso come se mi lasciassi, mentre in cielo non è così, poiché là non potrai mai eclissarti da me, poiché l’esperienza mi è una prova certa di quanto dico”.
A chi non lo sappia, dirò che Gesù sa ben scherzare con la creatura, come tante volte ha scherzato con me; ed ecco come: mentre mi trovavo in queste benedette ansie, Gesù se ne veniva a me tutto frettoloso, e mi diceva: “Vuoi adesso venir meco?”. Ed io: “Dove?”. Ed egli: “Al cielo”. Ed io: “Me lo dici davvero?”. “Ma sì; fa presto - mi diceva - non più indugiare”. “Ebbene, se è così, andiamo pure - rispondevo - benché tema che tu abbia voglia di burlarmi”. E Gesù allora: “Ma no, ma no; te lo dico davvero: andiamo, che voglio portarti meco”.
Sì dicendo, tirava l’anima a sé in modo che me la sentivo uscire dal corpo, in men che si dica, e seguendo Gesù prendevo il volo verso il cielo. Oh, come e quanto era contenta allora l’anima mia; credevo che dovessi lasciare per sempre la terra, mentre un sogno mi sembrava la vita trascorsa nel patire tollerato per amore di Gesù; e mentre si arrivava al più alto dei cieli e già si sentiva il delizioso canto dei beati comprensori, e sollecitavo Gesù che facesse presto ad introdurmi in quel beato soggiorno, egli lentamente ne diminuiva la corsa per allungare il tempo. In vista di ciò, nel mio interno cominciava il sospetto che non dovesse essere vera l’entrata che dovevo fare con lui nella patria celeste; e fra me dicevo: “Questo mi pare che sia uno scherzo di Gesù”; e per assicurarmi gli dicevo di tanto in tanto: “Gesù caro, fa presto; perché ti sei rallentato nella corsa?”.
E lui: “Vedi, vedi là un peccatore che sta per perdersi? Scendiamo un’altra volta in terra; andiamo a far prova di ridurre quell’anima a penitenza; chissà che non si converta. Preghiamo dunque assieme l’eterno mio Padre che gli usi misericordia; non vuoi che quelli[52] si salvi? Aspetta un altro poco in vita; non sei tu pronta a soffrire qualsiasi pena per la salvezza di un’anima che mi costa tanto sangue?”.
Ed io, a queste parole di Gesù dimenticavo me stessa, obliavo la corsa fatta verso il cielo, il canto ascoltato dei celesti comprensori, e rispondevo a Gesù: “Sì, sì, qualunque cosa tu vuoi son pronta a soffrire, purché salvi quell’anima”.
Allora Gesù, in un batter d’occhio, mi faceva trovar con lui presso quel peccatore, e cercando ogni modo per convertirlo, gli si metteva innanzi alla mente le più possenti ragioni per la sua salvezza e per fare che si arrendesse alla grazia, ma vane purtroppo riuscirono le nostre speranze.
Gesù allora, tutto afflitto, mi diceva: “Sposa mia, vuoi tu prendere su di te le pene a lui dovute? Se tu entri un’altra volta nel corpo per soffrire, la divina giustizia potrà placarsi, e così gli potrò usare misericordia. Come hai già visto, le nostre parole non lo hanno scosso punto, le ragioni neppure; non ci resta fare altro che soffrire le pene a lui dovute, [le] quali sono i mezzi più potenti per soddisfare la divina giustizia offesa e per far arrendere il peccatore alla grazia della sua conversione”.
Così dicendo Gesù, e consentendo io al suo dire, mi trovavo di nuovo nel corpo. Quali sofferenze sentissi, allorché mi trovavo a contatto del mio corpo, mi è impossibile [dirle]; basta dire che il corpo, come se non potesse più contenere il mio spirito, me lo sentivo distendersi e dilatare tutto, mentre lo spirito, in pari tempo, si sentiva come compresso, depresso e privo di vita, e quasi in atto di esalare l’anima; ma non lo potevo. Solo Gesù mi era testimone di quanto io soffrivo allora, e potrebbe dire quanto strazianti ed atroci pene tollerava l’anima ed il corpo mio. Ma viva Dio, che dopo qualche giorno di sofferenze, Gesù mi faceva vedere quel pecca­tore convertito, quell’anima già salva, e mi diceva: “Sei tu contenta come lo sono io?”. Ed io: “Sì, sì”. Ma chi può dire quante volte Gesù ha ripetuto meco questi scherzi? Talvolta mi faceva entrare in paradiso, e dopo poco mi diceva: “Sposa mia, tu non ti sei ricordata di farti dare l’ubbidienza dal confessore, per venirtene con me; ora fa d’uopo che vi ritorni al corpo per prendere codesta ubbidienza”.
Ed io: “Ero certamente obbligata ad ubbidire al confessore finché l’anima si trovava nel suo corpo ed ero sotto la sua direzione, ma ora che sono con te sento il dovere di ubbidire solamente a te, mio sposo, che sei veramente il primo fra tutti i confessori”. E Gesù, placidamente: “No, no, sposa mia; voglio che tu ubbidisca al confessore”. E così, ora per un pretesto, ed ora per un altro, mi ha fatto tante e poi tante volte tornare di nuovo nel mio corpo.
Questi scherzi di Gesù, però, mi riuscivano di un’amarezza tale, da essere presa da un certo che di risentimento ed impertinenza, per la qual cosa non più così spesso Gesù me li rinnovò. Ed in questo stato, continuamente penante in letto, e tra le alternative, ora di ansia [di] volermene andare con Gesù, mio sposo, in paradiso, ora [di] desiderio ardentissimo di volerlo tenere sempre meco in terra, ed ora per il ritorno che faceva l’anima nell’immedesimarsi al mio povero corpo, fu continuo il mio martirio.
Finalmente una mattina, dopo il periodo di questi tre anni, Gesù mi fece benignamente intendere che lo sposalizio fatto meco in terra voleva ratificarlo nella sanzione del Padre e dello Spirito Santo, al cospetto di tutta la corte celeste, e m’ingiunse quindi che io stessa dovevo ben prepararmi ad una sì segnalata grazia; e dal canto mio feci quanto era in mio potere per ben dispormi. Ma in verità, essendo io tanto miserabile ed inetta a fare anche un’ombra di bene, con istanza continua supplicai l’altissimo artefice, che egli stesso mettesse mano al­l’opera della più santa purificazione dell’anima mia, altrimenti mai sarei riuscita a farlo come si richiedeva da me. E questa grazia mi venne accordata nella vigilia del­la natività di Maria Santissima[53]; ed ecco come: in quel­la mattina, il mio sempre amabile Gesù se ne venne tut­to premuroso, per dispormi egli stesso a quanto avevo richiesto; e non so perché cominciò a fare un continuo via vai da me; ed infatti, frettolosamente veniva, mi parlava della fede, e tosto mi lasciava sola. E mentre mi parlava, mi sentivo infondere una tale vita di fede, che l’anima mia, così grossolana qual era prima che avesse parlato Gesù, me la sentivo così semplicissima da poter penetrare fino in Dio. E quindi, ora miravo la potenza, ora la santità, ora la bontà, ed ora altro attributo divino. Resa così l’anima mia, dicevo in un mare di stupore: “Onnipotente Iddio, quale onnipotenza innanzi a te non resta disfatta? Santità eccelsa di Dio, quale altra santità, per quanto sublime essa sia, ardirà comparire al tuo cospetto?”.
Discendendo poi a considerare la mia miseria, e toccando il mio nulla e la nullità delle cose terrene, che dinanzi a Dio sfuggono come ombra di nebbia alla raffica del vento, mi scorgevo appena come piccolissimo mi­crobo, avvolto da lievissima polvere, che per essere distrutto e disfatto basterebbe la piccolissima opera di qualsiasi altro vermiciattolo. Scorgendomi così, non ardivo più di trovarmi al cospetto della tremenda maestà di Dio, ma la sua infinita bontà, come calamita, mi tirava a sé, e nella sua infinita bontà, esclamava l’anima mia: “Oh, quanta santità, quanta potenza e quanta misericordia si racchiude in Dio, il quale ci attira a sé con la sua equivalente bontà!”. E dico questo, perché mentre mi pareva che la santità tutto lo circondasse, che la potenza tutto lo sostenesse, che la misericordia tutto lo commuovesse e che la bontà tutto lo animasse da dentro, da fuori lo circondasse, alimentando la sua potenza e misericordia; considerando singolarmente ciascun attributo, li trovavo tutti dello stesso valore, però del tutto incomprensibili, immensurabili, ecc., a mente umana. Mentre mi trovavo immersa in sì alta considerazione, tornava di nuovo il mio Gesù, e prendeva a parlarmi della speranza cristiana, dicendomi dapprima: “Per ottenere la fede, bisogna credere. Senza credenza non può darsi fede. Come in cima all’uomo vi è il capo, che deve dirigere l’uomo in ogni sua operazione, così in cima di ogni altra virtù c’è bisogno della fede che ordina tutto; ma come il capo senza il senso della vista non potrebbe esimersi dalle tenebre e da ogni altra confusione, in mo­do che se volesse dirigere qualsiasi operazione dell’uo­mo nello stato di totale cecità, lo spingerebbe dove non lo avrebbe spinto se avesse avuto la vista, così l’anima senza la fede non potrebbe fare altro che andare di precipizio in precipizio. Ora, come la vista serve di guida all’uomo in ogni sua operazione, così la fede all’anima è luce illuminativa, senza della quale non si può percorrere la strada che mena alla vita eterna”.
Ora, per aversi la fede, fa d’uopo aversi prima tre cose: il germe di fede, bontà dello stesso germe e sviluppo del medesimo. Il germe viene a gettarsi in noi mercé la notizia che si ha circa l’oggetto di fede, giacché non si può certo pensare ad una cosa se non si abbia avuto prima, almeno, qualche conoscenza della medesima. La bontà del germe di fede deve riporsi in chi getta in noi questo stesso germe, giacché potrà essere vero germe di fede se sarà degna di fede la persona che ce lo dà; falso germe, se venisse falsificato da chicchessia fin nella radice. Se poi sorgesse in noi qualche incertezza dell’oggetto di cui ci dà[54] notizia, oppure circa la non esatta notizia, deve tenersi come oggetto dubbio di fede. Assicurato dunque del germe della fede e della bontà del medesimo, fa mestieri[55] che venga coltivato per farlo crescere e ben sviluppare sino alla maturità, giacché allora cessa di essere oggetto di fede, quando si ha l’intima persuasione della verità.
Dal mettere nella bontà del germe della fede ogni sua fidanza ed ogni nostra industria che il germe cresca e sempre più si sviluppi sino alla maturità, si viene a produrre in noi quella virtù, sorella della fede, qual è la santa speranza di vedere raggiunto il termine della fede e della stessa speranza, nell’oggetto di fede già conquistato. Sicché io posso dire che la notizia di Dio getta in me il seme della fede; da questo seme, ben coltivato, nasce, cresce e [si] sviluppa sempre più la luce che si riproduce dal germe della fede. La luce della fede mi dà tutte le particolarità di questo Dio, sommo mio bene; mi rivela la sua bontà, l’attrattivo amore con cui mi chiama a sé per fruire di sé, mi fa vedere in prospetto ancora tutti i benefizi che mi può fare. Sicché la notizia della sua esistenza, per me fa il germe della fede; la fede crescente in me mi avvicina sempre più a questo Ente Supremo, facendomi conoscere in parte la smisurata eccellenza d’ogni suo attributo, chi egli sia in sé e fuori di sé, ed ancora ciò che egli mi può dare, il che getta in me il seme della santa speranza; da questo seme ancora, ben coltivato, verrà il possesso, perché chi fermamente crede, spera ed opera, già possiede. La fede e la speranza operativa gettano il germe dell’amore verso l’Ente som­mamente benefico, e questo Ente, in ricambio, fa nascere in noi il germe della carità cristiana, mercé la quale si diviene operanti, simile all’Uomo-Dio.
Ora, rifacendomi da capo, dico che Gesù, parlando­mi della santa speranza, mi faceva comprendere che questa virtù somministra all’anima una veste adamantina, per cui non solo si rende invulnerabile agli strali scoccati dai suoi nemici, ma ancora imperturbabile a qualsiasi evento, giacché tutto ciò che potrà avvenirle lo riceverà con tranquillità d’animo, sapendo bene che il tutto è stato disposto da Dio, nostro sommo bene. Oh, quanto è bello vedere quest’anima investita della bella virtù della speranza, poiché, diffidando ella di se stessa, la si vede tutta fidente ed appoggiata al suo diletto, per cui, sfidando i più fieri nemici, con la massima semplicità e prudenza diviene regina delle[56] sue passioni, giacché ha tutto ben ordinato nel suo interno, e con tale maestria che Gesù stesso ne resta invaghito; ed allora, perché la vede operare con ferma speranza in lui e quindi sempre più coraggiosa ed inviolabilmente invitta e forte nel superare ogni ostacolo e cimento, le comunica novelle grazie, aiuti e soccorsi.
Ora dico che mentre Gesù mi dava lezione sulla speranza, comunicava altresì al mio intelletto una chiarissima luce, ma subito si appartava, mentre io mi trovavo tutta immersa in questa luce ed occupata a considerare quanto concerneva questa bella virtù. Ma chi può dire ciò che di essa io comprendevo? Dirò solo che tutte le virtù servono ad abbellire l’anima; non hanno però in sé quel germe, che nato e cresciuto si avvinghia sempre più a Dio, e per cui la speranza dice all’anima: “Avvicinati al tuo Dio, e sarai da lui illuminata; avvicinati a lui e sarai purificata, ecc.”; e così la fede viene sempre più ad aumentarsi, la purità ad acquistare quel candore tutto celestiale; senza di cui[57], [l’anima] sarà vacillante nella fede ed incostante nelle altre virtù, mentre seguendo la speranza nelle sue ascensioni spirituali, ogni virtù si ren­de sempre ferma e stabile, come quegli alti monti che non possono muoversi dal loro sito. A me sembra che l’anima investita della santa speranza si rende immobile come monti altissimi, ai [quali] non nuoce né le intemperie dell’aria, né gli ardori del sole, né i venti più impetuosi, né gli straripamenti di laghi, mari e fiumi, cagionati da impetuosi alluvioni allo sciogliersi di grandi masse di neve; ed inoltre, a quest’anima investita di speranza non nuoce né la tribolazione, né la tentazione, né la povertà, né l’infermità, ed altri incidenti della vita possono giungere a sgomentarla neppure per un istante solo. Ed a se stessa ella dice: “Tutto posso tollerare, tutto soffrire ed operare, fidente e sperante in Gesù”.
La santa speranza, dunque, rende l’anima quasi onnipotente ed immobile, invincibile e quasi immutabile, giacché il sempre amabile Gesù, in vista di essa, sommi­nistra all’anima la perseveranza finale, sino a tanto che non abbia preso possesso dell’eterno regno dei cieli; ed allora, deponendo l’anima ogni fede ed ogni speranza, tutta si tuffa nell’immenso oceano del suo sommo ed eterno bene.
Mentre mi sperdevo e mi affogavo nel mare immenso delle divine speranze, il mio diletto Gesù, facendosi da me rivedere, mi parlava della carità, che è fra tutte la più eccellente, che deve con le altre due virtù [affratellarsi] ed in modo tale da rendersi come una sola virtù, mentre tra loro sono tre virtù distinte.
“Ed infatti, se per poco guardi e consideri bene il fuoco, ne avrai subito una pallida idea di queste tre virtù unite tra loro, poiché non appena che si venga ad accendere il fuoco, la prima cosa che si presenta al nostro sguardo è la luce, che inonda di vivida luce tutto il dintorno, la quale è simbolo della fede che io ho infuso nel­l’anima cristiana mercé il santo battesimo. In secondo luogo, senti che si diffonde tutt’intorno, unitamente alla luce, ancora il calore; ma poi, man mano che questa viene a illanguidirsi, fin a quasi a spegnersi, senti che il calore che emana [questo] fuoco acquista maggior vigore, fino a tanto che non si consuma tutto. Così è delle tre virtù teologali: la fede si accende nell’anima alla prima notizia che ella ha circa l’Ente Supremo; poscia cresce e si sviluppa, mercé l’ascensione perenne che fa l’anima verso Dio, suo sommo bene, per cui viene ad acquistare la luce intellettuale che espansivamente si effonde da ogni attributo divino verso la sua creatura.
Questa creatura, illuminata da tale splendore di viva fede, ambisce [l’acquistabile] dell’oggetto, il che le dà fiducia di potersi procacciare un tanto bene, che è Dio; cerca, quindi, d’investigare la via più idonea alla facilità di tanto acquisto e, tutta piena di speranza, valica da ma­ne a sera, da un monte all’altro, traversando ogni valle ed estesissime pianure, traghetta laghi e fiumi, naviga per i più alti ed immensi mari, per la durata di mesi ed anni, ad unico scopo di acquistarsi non solo la benevolenza, ma il possesso ancora del suo Dio; e questa brama operativa di pervenire al possesso di Dio viene appellata amore, congiunto alle due sorelle fede e speranza. Eccoti, o mia diletta sposa, che nelle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, ti ho adombrata la Trinità delle Divine Persone, di cui tu, presto e senza dubbio, farai perenne acquisto, col procurarci in te stabile e perpetua dimora”.
Dopo [un] intervallo di pochi minuti, il mio sempre amabile Gesù si fece vedere di nuovo, e proseguì a dirmi: “Sposa mia, se la fede è luce e serve di vista all’ani­ma, la speranza è l’alimento della fede e somministra al­l’anima quella energia e brama ardente di conquistare quei beni che sono in prospetto della fede, ed in più dà all’anima il coraggio di affrontare ardue imprese, ma sempre con tranquillità di spirito e con perfetta pace [l’anima] si rende perseverante nel perlustrare ogni via e mezzo adatto che le possa dare buona riuscita. La carità, poi, è la sostanza da cui emerge la luce e l’alimento del­la fede, senza della quale non si potrebbe avere né fede né speranza, come a pari, senza del fuoco non si potrebbe avere né la luce né calore. Ed essa, come unguento lenitivo si espande e penetra per ogni dove, recando ad effetto di maturità le brame della speranza e le vedute della fede, giacché nelle dolcezze del suo amore rende balsamico e dolce il patire, e tanto da far giungere l’ani­ma all’avidità di [questo] patire”.
L’anima, dunque, che possiede la vera carità, operando ella nell’amore e per l’amore di Dio, diffonde attorno a sé quell’odore celestiale che ha attinto dallo stes­so Dio, in modo che se tutte le virtù rendono l’anima quasi solitaria e rustica, la carità, essendo sostanza emanante luce, calore e odore soavissimo, non solo infonde in tutti, come unguento balsamico, gli effetti più che aromatici, ma unisce, anzi, fonde i cuori, mercé l’im­menso amore che ella ha verso Dio. È [questo] che fa soffrire con gioia i più acuti tormenti, tanto che l’anima che si trasforma tutta nell’amore, giunge sino a non poter più vivere senza del nudo patire, e quindi ad esclamare quando ne è priva: ‘O mio sposo Gesù, sostienimi coi fiori, stivami con l’acerbità dei pomi, cioè del patire, giacché l’anima mia languisce vieppiù per te e non posso soddisfarla se non nel dolce tuo patire! Deh, dammi, Gesù, maggiormente l’aspro tuo patire, giacché più non regge il mio core, a vederti tanto soffrire per la veemenza d’amore, che sostiene il tuo cuore per nostro amore!’. E Gesù a me: “La carità mia è fuoco che brucia e che consuma, e quando si appiglia a qualche anima tutto fa ella: mette in non cale le stesse virtù, giacché tutte le converte e le stiva intimamente a sé, in modo da rendersi regina di tutte le virtù, regnando e signoreggiando su tutte, e non mai può indursi a cedere ad altre la supremazia”.
Chi può dire ciò che tenne dietro a[58] quelle dolci ed attrattive parole di Gesù? Solo posso dire che in me si accese tale brama di patire da rendersi, direi, quasi naturale l’agognare qualsiasi pena e sofferenza, tanto che d’allora in poi ritenni come la più grande sventura l’es­serne priva. Dopo che io feci le solite riflessioni su quanto mi fu detto da Gesù, si fece egli di nuovo da me vedere e sentire, dicendomi: “Sposa mia, ora fa bisogno che tu abbia quella predisposizione e prevalenza di animo, che ti faccia maggiormente toccare e aderire all’an­nientamento di te stessa; questo deve precedere quel grande ed incentivo desiderio che hai di voler sempre più patire. Sappi che l’annientamento di te stessa ti fa meritare non solo la grazia del patire, ma dispone l’ani­ma a saper tutto ben patire, in tutto ciò che potrà toccarla molto da vicino. Oltre a ciò, il desiderio di patire supplisce al vero e reale patire, ed in mancanza di questo, l’annientamento di te stessa ti servirà di penoso am­manto, che supplirà a qualsiasi più alto e più aspro patire”.
Finalmente, mentre me ne stavo considerando dapprima quel parlare dolce di Gesù, che infonde nell’ani­ma molto più di quella verità che manifesta a parole, mi eccitavo quindi con ardenti brame di ricevere la grazia di potermi rendere tutta, tutta sua, ed a seconda della sua Volontà, egli ritornò, ed in men che si dica mi tirò fuori di me stessa, e l’anima mia, seguendo le attrattive deliziose del suo amore, superava appresso a lui qualsiasi difficoltà che s’incontra nell’attraversare i cieli, e quasi senza accorgersi dell’eseguito tragitto dalla terra, si trovò in paradiso, al cospetto della Santissima Trinità e di tutta la corte celeste, per indi procedere alla rinnovazione del mistico sposalizio eseguito già in terra tra Gesù e l’anima mia nel giorno della purità della Vergine Maria, sua Madre, la quale, unita a santa Caterina, assistette a quella prima cerimonia. Invece ora, festa della natività della stessa Santissima Vergine, undici mesi dopo, Gesù vuole che si abbia la sanzione delle Tre Divine Persone, e perciò mise fuori un anello fregiato da tre preziosissime pietre, di cui la prima bianca, la seconda rossa, la terza verde; poscia lo consegnò al Padre, che lo benedisse e poi lo restituì all’Unigenito suo Figlio, e mentre lo Spirito Santo mi teneva la mano destra, Gesù mise al mio dito anulare il suddetto anello, e subito dopo fui ammessa al bacio delle Tre Divine Persone, le quali, una dopo l’altra, m’impartirono una speciale benedizione. Chi potrebbe dire la confusione che provai, sia quan­do mi trovai al cospetto della Santissima Trinità, che durante l’effettuazione della suddetta cerimonia? Dico sol­tanto che il trovarmi al cospetto della Trinità ed il cadere bocconi a terra fu un atto solo, e sarei rimasta così prostrata chissà quanto, se il mio Gesù, sposo dell’anima mia, non mi avesse incoraggiata a rialzarmi ed a recarmi dritta alla loro presenza; il che, se procurava da un canto il massimo giubilo e contentezza al mio cuore, da [un] altro mi sentivo come schiacciata ed annientata dinanzi a tanta maestà, [la] quale m’incuteva riverenziale timore e gioia ineffabile ed inesprimibile, nella eterna luce che emanava l’Essenza e santità di Dio Padre, Figliolo e Spirito Santo.
Delle altre cose mi conviene far silenzio, per non dire altri spropositi, più di quanti ne ho detti finora, giacché il nostro umano linguaggio non ha vocaboli capaci a far comprendere, sia con la parola che con gli scritti, tut­te le impressioni divine che toccarono l’anima mia.
Passo, quindi, a narrare ciò che seguì al ritorno della mia anima nel corpo, il quale mi tenne quasi del tutto nell’attrattiva virtuale di quanto era avvenuto in me, e come morta sentivo tanti dolori e pene che mi facevano quasi presagire prossima la mia morte. Se non che Gesù, dopo pochi giorni, mi fece riavere del tutto; e ricordo che nel fare la comunione, facendomi perdere i sensi del corpo, con le potenze dell’anima mi avvidi essere dinanzi a me la Santissima Trinità come la vidi nel cielo, e subito le potenze dell’anima si prostrarono ad adorarla, facendomi confessare il mio proprio nulla, giacché mi sentii allora talmente sprofondata in me stessa, che non ardivo balbettare nemmeno una parola, quando una voce di mezzo a loro si fece a dirmi: “Fatti coraggio; non temere. Siamo per confermarti nostra e prendere totale possesso del tuo cuore”. Mentre sentivo questa voce, vi­di la Santissima Trinità che entrava in me e s’imposses­sava del mio cuore, dicendomi: “Eccoti che nel tuo cuore formiamo la stabile e perenne dimora nostra”.
Quale fu il cambiamento che avvenne in me, non sa­prei spiegarlo, perché mi sentivo come divinizzata, non vivente più io in me, ma bensì Loro vivevano in me ed io in Loro, tanto che a me parve come [se] il mio corpo divenisse allora abitazione del Dio vivente in me, e sentivo quindi la reale presenza delle Tre Divine Persone, che sensibilmente agivano nel mio interno[59]; sentivo la loro voce che uscendo fuor di me si [ri]percuoteva chiara e sonora al mio udito. E tutto ciò avveniva precisamente come quando vi sono persone in una stanza attigua ad un’altra, da cui si sente chiaramente tutto ciò che esse dicono fra loro, sia per la prossimità del luogo, sia per le voci che, sonore, si fanno sentire al di fuori della propria stanza. Fu allora che il mio diletto Gesù si fece a dirmi che io dovevo cercare sempre lui in ogni bisogno, non altrove e non fuori di me, ma sempre dentro di me, anzi nell’intimo del cuore; e difatti, d’allora in poi l’ho sempre cercato nel mio cuore e l’ho trovato; ed altre volte ancora, essendo uscito fuor di me, nel chiamarlo mi ha tosto risposto e svelatamente parlato, come possono parlare fra loro due persone. Devo però confessare che talvolta egli si è nascosto talmente in me da non farsi più sentire, ed allora, dopo averlo invocato e cercato per qualche tempo, non sentendolo in me né muoversi né pronunciare parola, mi son fatta ardita di girare cielo, terra e mare, per andare in cerca di lui; ma mentre, talvolta, mi trovavo nella foga della corsa, ed altre volte nella foga delle lacrime per l’intensità delle brame, e nelle pene le più inenarrabili per averlo perduto, Gesù ha fatto sentire la sua voce nel mio interno: “Io sto qui con te, non mi cercare altrove; sono in te a riposare, ma veglio su te”.
Ed io, tra la meraviglia ed il contento di sentirlo dentro di me, gli dicevo: “Gesù, mio bene, come mai questa mattina mi hai fatto girare e rigirare cielo, terra e mare, a fine di ritrovarti, mentre te ne stavi dentro di me? Perché non mi hai detto almeno ‘sono qui’, che io non mi sarei tanto e poi tanto affaticata nel cercarti dove non eri? Vedi, dolce mio bene, cara mia vita, vedi un po’ come sono stanca, non ho più forza, mi sento venir meno… ; deh, sostienimi fra le tue braccia, che mi sento morire!”.
Gesù, allora, tutto carità, mi sollevava, prendendomi fra le sue braccia, per farmi qualche volta riposare, ma in ogni modo mi restituiva le forze perdute. Altre volte, poi, mentre Gesù se ne stava così nascosto in me ed io nel bisogno lo cercavo, lui si faceva vedere dentro di me e poi usciva da dentro il mio cuore; ma nell’atto di uscire, non più Gesù, ma tutte e Tre le Divine Persone, svelatamente io vedevo, ed ora in forma di tre graziosissimi bambini, ora un solo corpo con tre teste distinte, ma di una stessa bellezza unica e al[60] tutto attraente… Chi può dire, ora, il mio contento, specialmente quando questi tre bambini si facevano stringere fra le mie braccia? Io baciavo ora l’uno, ora l’altro, e questi mi ricambiavano dei loro baci; e poi, uno si appoggiava alla mia spalla destra, l’altro alla sinistra, ed il terzo mi si metteva di fronte. Mentre io così mi beavo di loro, tra la più grande ammirazione e meraviglia che si possa mai dare alla creatura dal suo Dio, veniva ad accrescere la mia meraviglia vedere che mentre miravo l’uno, miravo in que­st’uno tre, e viceversa: guardando tutti e tre, se ne formava uno. L’altra meraviglia era, poi, nell’atto che, mentre tenevo uno fra le mie braccia, o tutti e tre insieme, sentivo sempre il medesimo peso, giacché tanto di peso sentivo nel tenere uno quanto a tenerli tutti e tre insieme; e di più sentivo tanto amore per ciascuno di loro, quanto verso tutti e tre, e tanto mi attirava a sé ciascuno separatamente, quanto mi attirano tutti e tre insieme. Uno era il modo di attrazione, poiché come era quello dell’uno, era quello dell’altro... Ed ora che le cose che, non per dire[61], avrei dovuto passare sotto silenzio, giacché ne ho dette molte ed a lungo, non posso non ubbidire a chi prese a dirigere l’anima mia, e continuo.
Ritornando ora daccapo, dirò che mentre Gesù si benignava di parlarmi spesso della sua passione, cercava predisporre l’anima mia all’imitazione della sua vita, dicendomi: “Sposa mia, oltre allo sposalizio già compiuto, ci resta ora da fare un altro, appellato sposalizio della croce. Sappi che le virtù allora si rendono dolci ed amabili, quando vengono avvalorate e fortificate nell’innesto della croce. Prima della mia venuta in terra, le pene, gli obbrobri, i dolori, la povertà, la malattia ed ogni specialità di croci, erano tenute in conto di una vera confusione ed infamia, ma dacché furono sofferte da me, tutte vennero ad essere santificate e divinizzate dal mio contatto, sicché cambiarono aspetto, in quanto che si resero dolci e gradite, e l’anima che ha il bene di averne qualcuna si stima più che onorata, e questo avviene perché ha ricevuto la mia divisa, rendendosi così figliuola di Dio. Sperimenta invece il contrario chi guarda e si ferma nella corteccia della croce, che trovandola molto amara, ne prende disgusto e ne dà lamento, giacché la riceve come se le fosse data a torto; ma chi vi ha penetrato dentro, trovandola molto gustosa e salutare, forma in lei la sua felicità. Sposa mia, non altro io bramo che di crocifiggerti quanto prima, sia nell’anima che nel corpo”.
Mentre Gesù così parlava, io [mi] sentivo infondere tale brama di essere con lui crocifissa, che spesso spesso andavo ripetendo: “Gesù mio, amor mio, fa presto a cro­cifiggermi teco”. E quando egli tornava, la prima do­manda che gli facevo e che ritenevo più importante, era circa le pene e i dolori dei miei peccati e la grazia di essere crocifissa con lui; e mi sembrava che, ottenendo questo, avrei potuto stimarmi quanto mai soddisfatta, perché credevo che con ciò avrei ottenuto tutto.
Una mattina, finalmente, il mio amatissimo Gesù si presentò a me dinanzi, in forma di crocifisso, e mi disse che voleva veramente crocifiggermi con lui; e mentre ciò diceva, io vidi che dalle sue sacratissime piaghe uscivano raggi di luce, in cui si scorgevano i chiodi, che si dirigevano verso di me; ed in quel mentre era tanto il desiderio perché Gesù mi crocifiggesse, che mi sentivo tutta consumare dall’amore del patire, ma però in quel momento fui sorpresa da un grande timore che mi fece tremare da capo a piè, e cominciare indi a sentire tale annientamento di me stessa, che mi credetti del tutto indegna di ricevere sì rara grazia, per cui non osavo più dire: “Signore, crocifiggimi teco”.
Gesù, intanto, pareva che attendesse il mio consenso per comunicarmi sì segnalata grazia, ed in questo conflitto la durai un pezzo; ma mentre nell’intimo dell’ani­ma mi faceva sentire sì grande ed ardente desiderio di chiedere tale grazia, dall’altra sentivo tutta la mia indegnità, e la natura fremente, tremante e spaventata, si arrestava dal domandare a Gesù di essere crocifissa. E mentre ero in questo stato d’animo, il mio diletto Gesù intellettualmente m’incitava ad accettare tale grazia, tanto che conoscendo allora il suo Volere, mi feci animo a dirgli: “Sposo santo e crocifisso amor mio, deh, ti prego, che mi voglia al fine concedere la grazia di essere anch’io crocifissa con te; e nel tempo stesso ti prego che non faccia comparire esteriormente alcun segno della grazia che mi fai. Sì, dammi presto ogni tua sofferenza e dolore, dammi le tue piaghe, ma che tutto ciò che possa avvenire su di me sia ad altri nascosto, ma solo noto tra te e me”.
E così la grazia chiesta mi fu accordata; e tosto quei raggi di luce, assieme ai chiodi, si spiccarono da Gesù crocifisso e vennero a ferire me, trapassandomi mani e piedi, mentre un altro raggio di luce più risplendente, assieme ad una lancia, venne a trapassarmi il cuore. Chi potrebbe dire il mio grande contento e dolore insieme, sopra ogni altro dolore, che provai in quel fortunato momento? Per quanto grande fu il timore e tremore che mi aveva invasa poco prima l’anima, altrettanto fu grande la pace, il contento ed il dolore che provai; e que­st’ultimo fu tanto acuto, che io mi sentivo nelle mani, nei piedi e nel cuore, da farmi presentire già prossima la morte. Le ossa delle mani e dei piedi me le sentii frangere in minutissimi pezzi, giacché sperimentavo l’azio­ne del chiodo dentro a ciascuna ferita; non posso però non asserire ancora che tali piaghe mi procuravano sì dolce contento da non saperlo esprimere a parole, e la mia meraviglia si fece vivissima nel sentirmi comunicare tale energia e forza che, mentre per il dolore mi sentivo morire, venivo dallo stesso dolore sostenuta ed invigorita in tal modo da non farmi morire. E di più, mentre esteriormente niente compariva, corporalmente sentivo i più spasimanti dolori; ed allorché venne il confessore per chiamarmi all’obbedienza, e dovette quindi sciogliermi le braccia che per l’attrazione dei nervi erano impietrite, provai dolori mortali in quei punti dove i rag­gi di luce insieme ai chiodi e [alla] lancia mi avevano toccata. E questi[62] per obbedienza comandò che cessassero subito; ed infatti, mentre questi[63] erano tanto acuti da farmi totalmente smarrire i sensi, all’istante si mitigarono di molto.
O prodigio della santa obbedienza, tu sei stata tutto per me! Oh, quante volte non mi sono trovata in contrastabile conflitto con la nostra sorella morte, e l’obbe­dienza, facendomi calmare l’atrocità d’ogni spasimo e dolore di morte, mi restituiva tosto la vita; e dico francamente che se questi [dolori], all’obbedienza del confessore non si fossero mitigati alquanto, difficilmente mi sarei assoggettata all’autorità di esso. Ma sia sempre benedetto il Signore, che tale potestà concesse ai suoi ministri, di far sottrarre anche dalla morte la sua preda. Perciò mi auguro che tutto sia stato di sua maggior gloria e di salvezza delle anime.
Devo ancora far notare che, allorché uscivo dal mio mortale assopimento, dei suddetti segni nulla più si vedeva sul mio corpo, mentre tornando ad assopirmi vedevo chiaramente impresse le piaghe del mio Gesù, per cui mi sembrava come se le piaghe di Gesù crocifisso si fossero come incastonate nelle mie mani, piedi e cuore, in tal modo da farmele vedere come se fossero quelle stesse del mio Gesù. Di quanto ho detto sin qui, non riguarda altro che lo sposalizio di croce e delle pene che soffrii nella prima crocifissione, perché delle altre sopportate nel corso degli anni seguenti sono tali e tante, che mi sarebbe impossibile numerarle tutte; ma giacché si vuole che metta qualcosa su carta, dirò alla men peggio le più principali e che più mi toccarono da vicino, in riguardo alle su accennate crocifissioni sopportate sino al 1899.
Innanzi tutto, però, è da notarsi che ogniqualvolta Gesù tornava dopo avermi fatta soffrire la crocifissione, ripetutamente io gli dicevo: “Mio diletto Gesù, deh, dammi il vero dolore dei miei peccati, affinché consumati dal dolore e pentimento di averti offeso, possano essere cancellati dall’anima mia ed anche dalla tua memoria. Sì, mio bene, dammi tanto dolore per quanta arditezza v’è stata in me nell’offenderti; anzi, fa che il dolore superi ogni affetto nutrito per il peccato, affinché eliminato, anzi distrutto dal dolore, possa io più intimamente stringermi a te”. E Gesù, mentre una volta gli chiedevo tale grazia, benignamente mi disse: “Giacché tanto ti dispiace d’avermi offeso, voglio io stesso disporti al dolore. Così potrai comprendere la bruttezza del peccato e l’acerbità del dolore che reca al mio cuore. Perciò fa di dire insieme con me queste parole: “Se io trapasso il mare, nel mare sempre tu sei, sebbene non ti vedo; calpesto la terra e tu mi stai sotto i miei piedi; peccai”. E Gesù, sottovoce, quasi piangendo, soggiunse: “Eppure ti amai, e nello stesso tempo ti conservai”.
Mentre Gesù mi suggeriva le dette parole, venivo a comprendere tante cose che mi è impossibile ridire tutto… Dico solo che prima d’ogni altro compresi l’im­mensità, la grandezza e la presenza di Dio in ogni cosa, e che mercé questo suo attributo non sfugge a lui nemmeno l’ombra del nostro pensiero; e di più, [compresi] il mio nulla, che messo a confronto di una maestà sì grande e sì santa, si riduce [a] meno che ombra.
Nella parola ‘peccai’, compresi la bruttezza del peccato e la mia malizia e temerità, per l’enorme affronto fattogli col posporlo alla soddisfazione di un momento; quindi fui presa da sì veemente dolore nel sentirmi quel­le parole: “Eppure ti amai e conservai”, che mi sentii morire, poiché mi fece egli comprendere l’immenso amore che mi portava, anche nell’atto stesso in cui lo mettevo al disotto di un lieve piacere, per cui l’offen­devo e quasi uccidevo. Ah, Signore, per quanto sei stato buono con me, altrettanto ingrata e cattiva sono stata io per te! Deh, muoviti a pietà di me, col farmi sempre sen­tire tanto dolore dei miei peccati, per quanto è stato, è e sarà sempre, il tuo amore verso di me!
Dal momento che il mio amabilissimo Gesù mi fece ben comprendere quanta malizia v’è in chi commette il peccato, e quanta malizia ed arditezza vi racchiude in sé chi osa stimar Iddio meno di un vilissimo piacere, non solo mi guardavo dal commettere qualsiasi minimo difetto, ma paventavo ancora l’ombra del peccato che involontariamente avesse potuto menomamente affacciarsi alla mia mente. In quanto poi a quelli commessi per il passato, sentivo tale ribrezzo e rossore, da farmi credere, fra tutti, la più scellerata, in modo che d’allora non facevo altro, quando mi compariva il mio Gesù, che chiedergli sempre più dolore dei miei peccati e l’attua­zione della crocifissione promessami. Ed una mattina, mentre si faceva sentire sempre viva in me la brama di voler sempre più patire, venne l’amabilissimo Gesù, e tirandomi fuori di me stessa, trasportò l’anima mia a far vedere un uomo che veniva ucciso a colpi di rivoltella e già era per esalare l’anima sua, il quale stava per divenire preda dell’inferno. Allora Gesù, nella sua più profonda mestizia, mi fece compenetrare in tal modo in sé, sino a farmi comprendere l’acerbissimo schianto del suo cuore per la perdita di quell’anima. Oh, se il mondo conoscesse quanto soffre Gesù per la perdita eterna delle anime, son sicura che gli uomini, per risparmiare almeno a Gesù quel sì straziante dolore, userebbero tutti i mezzi possibili per non andare eternamente perduti! Ora, mentre con Gesù mi trovavo in mezzo a quella esplosione di palle, egli mi si strinse maggiormente d’appresso e mi sussurrò all’orecchio: “Sposa mia, non vuoi tu offrirti vittima per la salvezza di quest’anima e prendere su di te le pene che merita costui per i suoi gravissimi peccati?”.
Ed io: “Ben volentieri, mio Gesù, prendo su di me tutto ciò che egli ha meritato, a patto però che tu lo salvi e gli restituisca la vita”. Sì dicendo, Gesù mi fece tornare nel corpo, e mi sentii immersa in tali e tante sofferenze, che io stessa non so come potetti ancora sopravvivere. Mi trovavo intanto da più di un’ora in questo stato di sofferenze, quando il mio Gesù permise che venisse il confessore a chiamarmi all’obbedienza e farmi riavere, ma trovandomi tanto sofferente, stentatamente potette ottenere di essere ubbidito; e domandata da lui la causa di tante sofferenze, gli narrai tutto ciò che poc’anzi avevo visto, indicandogli di più il punto del paese in cui era avvenuto l’omicidio; e questi, a sua volta confermò l’omicidio, accaduto proprio nel luogo da me indicato, ed aggiunse che tutti lo ritenevano come morto. Io però gli dissi che non poteva ritenersi per morto, dal momento che Gesù mi ha promesso non solo di salvargli l’anima, ma quanto che lo manterrà in vita; e tanto vero che per ottenere ciò ho dovuto molto lavorare con la grazia del Signore a non far uscire il suo spirito dal corpo. Si venne infatti poi a sapere che, per quanto lo si era ritenuto da tutti per morto, cominciando indi a riaversi, a poco a poco si rimise in salute, e tanto che vive tuttora. Sia sempre benedetto il Signore.
Ritornando ora alle ardenti brame che sentivo, di essere crocifissa con Gesù, e ciò per amore verso del mio sommo bene, e per espiazione e riparazione del mio pas­sato, Gesù se ne venne da me, facendomi di nuovo uscire come altre volte fuori di me stessa; trasportò l’anima mia sino ai luoghi santi dove egli patì la sua dolorosa passione, e girando per quei santi luoghi ci si fecero innanzi alla vista molte croci, ed il mio diletto Gesù mi disse: “Sposa mia, se tutti sapessero che bene inapprezzabile contiene in sé la croce, e come rende l’anima preziosa, tutti indispensabilmente la agognerebbero, poiché chi ha il bene di possederla si acquista con essa una gemma d’inestimabile valore. Basta solamente dirti che io, venendo dal cielo in terra, non scelsi le ricchezze e i piaceri della vita, ma bensì ebbi come più care ed intime sorelle la croce, la povertà, le ignominie ed il più crudo patire, tanto che a vista di esse ho sempre ardentemente desiderato che presto si appressasse il tempo della mia passione e morte di croce, giacché in questa io riposi la salvezza delle anime”.
Mentre Gesù così parlava, mi faceva provare tutto il gusto e gioia insieme, che egli ebbe a partecipare nel suo patire, ed in modo tale che le sue parole m’infiam­marono il cuore di desiderio sì ardentissimo di patire e di sì santo trasporto e brama insieme, perché mi rendesse al più presto simile a lui crocifisso; per cui cercai con quanta voce e forza contenevo in me, di supplicarlo così: “Deh, sposo santo, dammi il patire, dammi la tua cro­ce, acciò possa conoscere meglio quanto mi ami, che al­trimenti sarò sempre a vivere nell’incertezza se il tuo amore sia tutto per me, che ho [rinunciato] a tutto per te”.
Allora Gesù, compiacendosi più che mai delle mie suppliche, permise che mi distendessi su di una di quelle croci già vedute, e quando fui ben distesa lo supplicai che fosse venuto a crocifiggermi; ed egli amorevolmen­te prese un chiodo e cominciò a trapassare con quello la mia mano, e di tanto in tanto mi domandava: “Che, ti duole assai? Vuoi che non continui?”.
“No, no, dilettissimo, continua; benché mi dolga, son pur contenta che tu mi crocifigga”. Ma nello stesso momento ebbi quasi un presentimento che Gesù non avesse più a continuare, per cui mi feci a dirgli: “Gesù, Gesù, fa presto, fa presto, non la prendere così per le lunghe!”. E così avvenne, poiché quando egli prese ad inchiodarmi l’altra mano, le braccia della croce si raccorciarono, mentre prima erano adatte all’uopo; e così Gesù mi schiodò l’altra mano e mi disse: “Sposa mia, fa bisogno di trovare altra croce; perciò alzati e rinfrancati per ora”. Come descrivere, ora, la mortificazione che provai in me? Fu tanta che nella mia più grande confusione esclamai: “Ah, sì! Non sono ancora degna d’un tanto patire…!”. E dire che questi scherzi si ripetettero per parecchie volte, in modo che se talvolta le braccia della croce erano adatte, disadatta era la lunghezza della stessa, mentre altre volte faceva sì che mancasse qualche cosa necessaria al compimento della mia crocifissione. Insomma, per non crocifiggermi Gesù trovava sempre qualche pretesto, per rimandarla ad altro tempo. Oh, quanta amarezza non ha provato l’anima mia in questi ripetuti contrasti col mio Gesù, e quante volte non mi sono giustamente lamentata con lui, perché mi negava tutto il vero suo patire; per cui spesse volte, e con l’animo più che mai amareggiato, gli dicevo: “Diletto mio, a quel che pare, il tutto finisce in burla! Ed infatti, mi dicesti che mi avresti portata una volta per sempre in cielo, e tante volte mi hai fatta ritornare alla terra per abitare questo corpo. Mi dicesti ancora che amavi crocifiggermi, per far che mi rassomigliassi a te, eppure mai mi fai giungere alla completa crocifissione!”.
E Gesù: “Si farà, si farà presto; non dubitar di me, che si farà”.
Finalmente una mattina, nel giorno dell’esaltazione della croce[64], venne Gesù, e tutto frettoloso mi trasportò di nuovo nei luoghi santi di Gerusalemme, e dopo aver­mi fatto considerare tante cose concernenti il mistero e le virtù della croce, si fece affabilmente a dirmi: “Vuoi tu, diletta mia, essere tutta bella? Contempla la croce, che essa ti darà i lineamenti più belli che si possono trovare e in cielo e in terra, tanto da far innamorare Iddio, che pure in sé contiene tutte le infinite bellezze. Vuoi tu essere ripiena di immense ricchezze, e non per breve tempo, ma bensì per tutta l’eternità?
Ebbene, se in te è entrata la brama di possedere il cielo con tutte le sue ricchezze, innamorati sempre più della croce, che essa ti somministrerà tutte le ricchezze, cominciando dai minutissimi centesimi, quali sono le più piccole sofferenze e di qualsiasi specie, sino alle più incalcolabili somme, quali le procurano le croci più pesanti. Intanto gli uomini, poiché son divenuti tanto avidi nel procacciarsi il minimo guadagno d’un mero soldo temporale, che presto dovranno poi abbandonare, non si danno alcun pensiero di acquistare un centesimo di bene eterno; e quando io, avendo compassione di loro per la spensieratezza che hanno per tutto ciò che riguarda il bene eterno, benignamente porgo loro l’occasione di profittarne, questi, invece di essermi grati, si sdegnano verso di me e mi offendono con la loro ostinazione. Vedi figlia mia, quanta cecità nella povera umanità? Nella croce invece vi sono racchiusi tutti i trionfi ed i più grandi acquisti e vittorie. Tu, intanto, non aver altra mira se non la croce, perché questa basterà e supplirà a tutto. Voglio perciò quest’oggi contentarti, col crocifiggerti completamente su quella croce che finora non bastava a farti ben distendere. Questa croce, sappi, è quella che ha attirato su di te le dolci attrattive del mio amore e che m’induce a crocifiggerti completamente su di essa. Quella croce, perciò, che hai tollerata sin ora, me la por­terò in cielo, per averla come pegno del tuo amore e mo­strarla a tutta la corte celeste come testimonianza del tuo amore per me; ed io, in luogo di questa, farò discendere dal cielo su di te un’altra più grave e dolorosa, affin di appagare le tue ardenti brame di patire, e per far sì che presto vengano a completarsi gli eterni miei disegni su di te”.
Dopo aver ciò detto Gesù, si presentò a me dinanzi quella croce altre volte da me vista, ed io, piena di gran contento, mi appressai subito a lei, la presi per deporla a terra, e quindi mi distesi su di essa; e mentre così mi disponevo per essere crocifissa, si aprì il cielo, e tosto vi discese l’evangelista san Giovanni, che portò la croce di cui Gesù mi aveva già parlato; indi, arrivò la Regina Mamma con moltissimi angeli, che facevanle corona, ed allorché si fecero appresso a me mi tolsero da sopra quella croce e mi adagiarono sull’altra portata da san Giovanni, che era più grande. Un gelo di morte s’im­possessò di tutta la mia persona, pur sentendo nel cuore una nuova fiamma d’amore, che tanto mi faceva agognare il patire della croce. Un angelo, intanto, ad un cenno di Gesù prese tosto la prima croce e se la portò verso il cielo, mentre egli[65], dopo ciò detto, di propria mano cominciò a crocifiggermi; e mentre la Regina Mamma mi assisteva, gli angeli e san Giovanni si fecero d’appresso per porgere i chiodi ed altro necessario al­l’uopo, alla mia crocifissione. Nell’atto di crocifiggermi, il benignissimo Gesù mostravami tale contento e gioia, che avrei voluto soffrire non una, ma mille crocifissioni ed altre pene ancora, per accrescergli sempre più quel dolce contento; e nello stesso tempo mi sembrava vedere come se il cielo fosse tutto parato a novella festa di gloria per me, e ciò per aver procurato a Gesù quel con­tento, ed alle anime del purgatorio liberazione e copioso suffragio, ed ai peccatori pentimento del mal fatto, oltre alla conversione di parecchi altri, giacché il mio diletto sposo Gesù fece a tutti partecipi [di] quel bene che si operava mercé la mia buona disposizione a tutte le sofferenze che sono inerenti alla crocifissione.
Quando poi tutto fu compiuto, mi sentii come nuotare in un mare di contenti, misto ad un mare di pene e di dolori inauditi. La Regina Mamma, volgendosi a Gesù, gli disse: “Figlio mio, oggi è giorno di gloria; perciò voglio che le partecipiate tutte le vostre pene, e che, a compimento di quanto si è fatto, venga il suo cuore trapassato dalla lancia, ed alla testa le si rinnovi la coronazione di spine”. E Gesù, obbedendo alla Mamma, prese una lancia e con essa mi trapassò il cuore da parte a par­te, mentre gli angeli, prendendo una corona di spine, gliela porsero alla Vergine Santissima, la quale, nel massimo suo contento ed a mia grande soddisfazione, me la conficcò benignamente nel capo. Che giorno memorabile non fu mai quello per me! Può veramente dirsi giorno di sommo gaudio e di sommo dolore, giorno d’indicibili pene e d’ineffabili gioie! In quanto al mio contento, basta dire che Gesù in tutta l’intera giornata non si mosse d’accanto a me, per sorreggere la mia naturale fralezza, la quale, senza la sua grazia, sarebbe venuta meno per l’acerbità delle pene e sofferenze; e per maggior mio contento, Gesù permise che le tante anime del purgatorio, che mercé l’applicazione delle mie pene erano state inviate al paradiso, vi scendessero dal cielo unitamente agli angeli, affinché circondando il mio letto mi ricreassero coi loro celestiali canti, specie con quello cosiddetto ‘il cantico di allegrezza’, che si fa in rendimento di grazie a Dio lassù nei cieli, e detto ancora ‘inno di ringraziamento’.
Dopo cinque o sei giorni d’intensissime pene, con mio grande rammarico mi accorsi che di giorno in giorno cominciarono a decrescere, e sarebbero del tutto cessate se non avessi fatto calda insistenza presso il mio sposo Gesù, che avesse almeno temporeggiato, per cui sentii in me sì eccessivo amore al dolce patire, che mi feci[66] a manifestarlo al mio buon Gesù, e nello stesso tempo a supplicarlo, affinché mi rinnovasse la già subita crocifissione; e Gesù, dal canto suo compiacendosi di me, di tanto in tanto mi contentava, trasportando di nuovo l’anima mia nei luoghi santi di Gerusalemme, e quando più, quando meno, mi partecipava le pene subite da lui lungo i giorni della sua passione e morte in croce. Mi faceva quindi soffrire, ora la sua flagellazione, ora la coronazione di spine, ora mi faceva provare le sofferenze che egli ebbe a soffrire nel portare il pesante legno della croce al Calvario, e talvolta ancora la crocifissione. Compiacendosi Gesù di farmi soffrire ora l’uno, ora l’altro di questi misteri, e talvolta in un solo giorno tutta intera la sua passione, procuravami l’aumento del sommo mio contento e dell’estremo mio dolore. Invece mi riusciva più che mai penoso e straziante al mio cuore allorché mi toccava vedere Gesù soffrire, ed io priva di [ciò], ma soltanto spettatrice del tanto suo patire, per cui smaniavo dall’ansia di poter entrare almeno a parte dei suoi dolori. Oh, quante e quante volte non mi sono trovata con la Regina Mamma, a veder soffrire Gesù pene acerbissime, a causa delle offese che si perpetrano da uomini malvagi, e più malvagi degli stessi Giudei che lo catturarono e gli diedero la morte! Ah, sì, fu allora che più che mai mi convinsi che è pur vero che, per chi ama, riesce più facile soffrire che veder soffrire la persona amata!
E fu appunto per questo che io mi sentivo spinta dall’amore verso il mio diletto Gesù a supplicarlo che mi rinnovasse spesso spesso queste crocifissioni, e ciò per alleviargli, almeno in parte, le sue pene; e Gesù mi diceva: “Diletta mia, la croce ben sopportata ed ardentemente bramata fa ben distinguere i predestinati dai reprobi, i quali sono sì ricalcitranti ad ogni patire. Sappi che nel giorno dell’universale giudizio, gli amanti della croce, al vederla comparire, oh, quanto non si rallegreranno, mentre i reprobi saranno presi ed assaliti da orribile spavento.
Fin da ora, diletta mia, si può senza dubbio asserire se quel tale dev’essere uno dei salvati o eternamente perduto, poiché se questi al presentarsi la croce l’ab­braccia e con rassegnazione e pazienza mi segue, e di tanto in tanto la bacia, ringraziando Colui che gliel’ha inviata, è segno evidente e più che sicuro di essere costui nel numero dei salvi; ma se all’opposto, al presentarsi la croce, la persona s’irrita, la disprezza, e vorrebbe ad ogni costo sottrarsi da essa, già meritata a causa delle sue dissolutezze, può tenersi come segno certo che cammina per la via dell’inferno. E quindi, i reprobi, se a vista della croce mi offendono in vita, nel giorno del giudizio più che mai mi bestemmieranno, vedendo comparire la croce, che incuterà loro l’eterno terrore. La croce poi, figlia mia, è il distintivo del vero cristiano. Essa dice tutto, perché come un libro aperto fa distinguere a chiare note e senza inganno di sorta il santo dal peccatore, il perfetto dall’imperfetto, il fervoroso dal tiepido. La croce comunica inoltre, a chi è ben disposto, tale luce, che fin d’ora non solo fa distinguere il buono dal reo, ma fa ancora conoscere chi dev’essere più o meno glorioso in cielo, e chi deve occupare in esso un posto più o meno eminente. Oltre a ciò, tutte le virtù dinanzi all’eccellenza della croce si fanno dimessamente umili e riverenti; e sai quando acquistano maggior lustro e splendore? Allorché si sono ben bene innestate con essa”.
Come poter esprimere a parola le tante fiamme d’amore verso la croce, che Gesù col suo parlare infuse nel mio cuore? Basta dire che fui presa da tali smanie di patire, che se Gesù non avesse appagato il mio cuore col rinnovarmi spesso spesso la crocifissione, mi sarei, cer­to, martirizzata fra i più atroci tormenti dell’amore. Aggiungo che, alle volte, dopo avermi rinnovato Gesù queste crocifissioni, mi diceva:
“Diletta del mio cuore, giacché brami sì ardentemente la fragranza che emanano i dolori della mia croce, io non solo ti appago col crocifiggerti l’anima, comunicandoti ogni dolore, ma desidero suggellare anche il tuo corpo col suggello evidente delle mie sanguinose piaghe, se non fossi così ritrosa di poter manifestare a tutti quanto tu mi ami. A tal fine, voglio insegnarti la seguente preghiera, che tu farai per ottenere questa grazia:
‘Io mi presento al trono della Santissima Trinità, e siccome bagnata nel sangue di Gesù Cristo, ardisco prostrarmi in segno di profonda adorazione e supplicarla che, per i meriti delle preclarissime virtù di Gesù e della sua divinità, voglia concedermi la grazia di essere sempre crocifissa’ ”.
Siccome, poi, ho avuto sempre avversione a tutto quello che avesse potuto comparire esternamente, come tuttora persiste, così nell’atto che Gesù m’infondeva maggior brama di essere crocifissa a piacer suo, non ardivo oppormi a che mi avesse crocifissa nell’anima e nel corpo; ma ravvisando subito quanto accettavo spensieratamente nella foga, con animo risoluto dicevo a Gesù: “Sposo santo, segni esterni non appariscano mai in me; e se talvolta senza alcuna riflessione avessi accettato cosa appariscente, non ho avuto però mai l’animo di acconsentirvi, poiché tu sai quanto io abbia amato sempre la vita nascosta. Perciò ti prego, allorquando vorrai rinnovarmi la crocifissione, che quei dolori siano permanenti e senza alcun alleviamento di sorta. Questo solo io bramo, questo mi basta, e non segni esterni, i quali mi farebbero distruggere dalla vergogna”.
Se molto mi tormentava il pensiero che certi segni esterni potessero manifestarsi esternamente, tanto più che senza considerazione avevo implicitamente acconsentito alla Volontà di Gesù, non meno mi tormentava il pensiero dei peccati trascorsi; e per questo tornavo spesso spesso a domandare a Gesù il dolore e la grazia della loro remissione, per cui giungevo a dirgli che allora sarei rimasta tranquilla e contenta, quando egli mi avesse detto di sua bocca: “Ti sono perdonati tutti i tuoi peccati”.
E Gesù benedetto, che nulla sa negare quando ciò che si domanda ridonda a nostro spirituale vantaggio, facendosi una mattina più condiscendente del solito, mi disse: “Questa mattina voglio io stesso fare l’ufficio di confessore. A me tu confesserai tutte le tue colpe, e nel­l’atto di far ciò ti farò comprendere uno per uno tutti gli affronti che mi hai arrecato e tutti i dolori causati a me coi tuoi peccati. S’intende che tu comprenderai tanto, per quanto è accessibile all’intelligenza e volontà umana, che cosa sia in sé il peccato, affinché prenda la risoluzione di piuttosto morire che tornare ad offendermi. Quindi, entra nel tuo nulla; considera per poco, che il nulla se l’ha preso[67] col Tutto, e che il Tutto avrebbe potuto far scomparire dalla faccia della terra il nulla, resosi tanto infame da prendersela col suo Creatore; ciononostante, questo nulla non solo è stato dal Tutto tollerato, ma ancora amato. Esci ora fuori del tuo nulla, e con trasporto d’amore verso l’amante tuo Signore, recita il Confiteor”.
Io, entrata nel nulla di me stessa, venni a scorgere tutta la mia miseria e tutte le colpe commesse, e trovandomi dinanzi alla reale presenza di Cristo giudice cominciai a tremare a verga a verga, fino a mancarmi la forza di poter pronunziare le parole del Confiteor; e sarei rimasta immersa nella più grande confusione, senza dire una parola, se il Signor mio Gesù Cristo non mi avesse infusa novella forza e coraggio col dirmi: “Figlia del mio amore, non temere, ché se ti sono ora giudice, ti sono ancor padre. Coraggio dunque ed andiamo avanti”. Per cui, tutta piena di confusione e di umiliazione recitai il Confiteor; e siccome mi vedevo tutta coperta di colpe, dando un’occhiata su tutto il passato, vi scorsi come più grave l’affronto recato al mio Signore con l’aver nutrito in me qualche atto di mera superbia, e quindi gli dissi: “Signore, mi accuso dinanzi alla tua maestà, di aver peccato di superbia”.
Gesù allora mi disse: “Avvicinati al mio amoroso cuore, tendi le orecchie e sentirai lo strazio crudele che hai fatto con questo peccato al mio generoso cuore”; ed io, tutta tremante, tesi l’orecchio sul suo cuore… Ma chi può dire ciò che sentii e compresi in pochi istanti? Il mio cuore fremente d’amore cominciò a pulsare sì forte, che a parer mio mi sembrava come avesse voluto rompersi il petto; e difatti mi parve poi come se si spezzasse per il dolore, e facendosi a brani a brani restasse quasi distrutto. E dopo di aver provato tutto ciò, esclamai più volte: “Ahi, quanto è crudele la superbia umana, che se avesse potere giungerebbe a distruggere lo stesso Essere Divino!”.
La superbia umana me la raffiguravo allora come un vermiciattolo che, avendo l’agio di essere ai piedi d’un gran re, si sollevasse e gonfiasse, in modo tale da credersi qualcosa di grande, e che preso quindi da somma audacia, cominciasse a poco a poco ad arrampicarsi, strisciando su per gli abiti del re, fino a giungere alla sua testa, [e] vedendola cinta da aurea corona, volesse toglierla dal suo capo per cingere il suo, ed indi, poi, spogliarlo delle sue vesti regali, detronizzarlo ed infine usare ogni mezzo per togliergli la vita. Questo verme, che non conosce nemmeno il suo essere, tanto che nella sua superbia non giunge nemmeno a pensare che per essere disfatto basterebbe soltanto che il re si accorgesse del­l’audace suo progetto per calpestarlo sotto uno dei suoi piedi, facendogli così crollare in un solo istante tutti i suoi sogni dorati, illudendosi troppo dei quali nella sua testa riscaldata dalla superbia, muoverebbe a sdegno e compassione insieme chi fosse meno orgoglioso di esso, il quale sarebbe tenuto non solo per l’essere più malvagio ed ingrato, ma ancora per il più temerario e presuntuoso. Ero appunto io, che mi vedevo, quel misero vermiciattolo ai piedi del Re divino, per cui mi sentivo riempire l’anima da tale confusione e dispiacere dell’af­fronto arrecatogli, da provare nel mio cuore lo strazio atroce sofferto da Gesù a causa della mia superbia.
Dopo ciò, Gesù mi lasciò sola, ed io continuai a considerare la bruttezza del peccato di superbia, che mi cagionò tali pene e così al vivo, che mi è impossibile esprimere a parole. Quando ebbi ben bene considerato quanto mi era stato detto da Gesù, vi tornò egli e mi fece continuare la confessione, ed io, più tremante di prima, feci l’accusa dei miei pensieri, delle mie parole, eseguiti non secondo la sua espressa Volontà, oltre ai peccati di causa [ed] omissione; e tutto fu accusato da me con tale pena ed amarezza di animo, che mi sentii come esterrefatta nella piccolezza del mio essere, per la baldanza ed audacia avuta nell’offendere quel Dio sì buono, il quale nell’atto stesso che gli arrecavo affronti, mi assisteva, mi conservava e mi alimentava; e se qualche sdegno avessi potuto notare in lui verso di me, a null’altro si riduceva che all’odio sommo che egli ha del peccato. All’opposto, la sua bontà verso di me, peccatrice, è stata sempre immensa, e tanto che giunse a scusarmi innanzi alla divina giustizia, mettendo in vista la mia incapacità e fralezza, per cui mi faceva ottenere in cambio novelle grazie e forza a meglio operare, il che era come togliere quel muro di divisione che era sorto a causa del peccato tra la mia anima e Dio. Oh, se tutti conoscessero la bontà di Dio e la bruttezza del peccato, da tutti gli uomini sarebbe tosto esiliato dalla faccia della terra; i quali, presi da forte rimorso e dolore per il peccato, o morrebbero, oppure conoscendo l’infinita bontà di Dio si getterebbero in essa, come in un mare immenso di grazie le più elette, destinate a loro bene e santificazione.
Allorché Gesù vide che per la gran pena ed amarezza del peccato non potevo più continuare, si ritirò da me, lasciandomi immersa nella considerazione del male fatto col peccato, ed in quella più profonda ancora della sua bontà, nello scusarmi presso la giustizia del Padre suo, facendomi ottenere novelle grazie. Dopo un lungo tratto, Gesù tornò di nuovo per farmi continuare l’ac­cusa, la quale, di tanto in tanto interrotta, ebbe fine dopo sette ore all’incirca. E quando l’amabilissimo Gesù mise termine alla mia accusa, smise l’aspetto di giudice e riprese quello di padre amorosissimo; e siccome mi ero ridotta sino all’estremo sfinimento di forze e di vita per il dolore provato per le offese fatte al mio Dio, e più ancora per la comprensione che il mio dolore, per quanto fosse stato grande, non era poi sufficientemente bastante a farmi dolere come mi conveniva, Gesù, per rincorarmi, mi disse: “Voglio io supplire per te, applicando all’anima tua il merito del mio dolore, sofferto là, nel­l’orto di Getsemani; solo questo può bastare a soddisfare la divina giustizia da te offesa”.
Mi parve quindi di essere più disposta a ricevere da Gesù l’assoluzione dei miei peccati; e perciò, tutta umiliata e confusa ai suoi piedi, gli dissi: “Sommo Iddio, per quanto sommo è il male che io ho fatto verso di te commettendo il peccato, altrettanto infinitamente somma ritengo la tua misericordia che mi perdona. Vorrei però che le potenze ed i sensi miei divenissero un numero infinitamente grande, e che come tante lingue lodassero ed elogiassero un osanna perenne alla tua infinita misericordia. Deh, Padre Santo, perdonami il gran torto fatto a te peccando, e rimettimi nella tua paterna grazia!”. E Gesù: “Promettimi di non più peccare, con l’al­lontanare da te ogni ombra di male, che potesse di nuovo offendermi”. “Ah, sì, prometto mille e mille volte, piuttosto morire che offendere mai più te, mio Creatore, mio Redentore e mio Salvatore, mai più, mai più”. Allora Gesù alzò la benedetta sua destra e pronunziò le parole dell’assoluzione, facendo scorrere sull’anima mia un fiume del suo preziosissimo sangue.
Dopo che Gesù ebbe lavata l’anima mia nel suo preziosissimo sangue, mercé le parole dell’assoluzione, mi sentii come rinata a nuova vita, e più che mai inondata dalla piena della sua grazia, che mi lasciò poi tale impressione, da non poterla più dimenticare. Basta dire che ogniqualvolta me ne rammento, sento dapprima come sorgere nell’anima mia un’insolita gioia, e poi corrermi un brivido per tutta la persona, al riflesso della grazia fattami dal mio Signore, la quale in tutte le sue più minute circostanze mi si affaccia continuamente alla mente, come se or ora si fosse eseguita. Ripiena quindi del passato ricordo, con tutti i suoi più minuti particolari, mi fa entrare in un profondo raccoglimento ed ansiose brame di poter corrispondere, il più che mi sia possibile, alle tante e sì singolari grazie che il Signore mi ha fatto e continua tuttora a farmi, sia per rinvigorirmi nello stato di vittima, che per ben dispormi a vivere nella sua Divina Volontà, per cui si richiede somma divina grazia e somma attività da parte mia, che essendo nulla, devo prendere il tutto da Dio, e quindi trafelare e travagliare per trasfonderlo in altri, come al par di un medico che s’impegnasse d’iniettare il sangue di un individuo sano nella vene di un ammalato, per ridonargli la sanità corporale.
Al pari di questi devo ancor io prendere da Dio la sua grazia, applicarla agli spiriti infermi, per far poi tut­to tornare a Dio. E per fare che ciò avvenisse in me, il mio amabilissimo Gesù mi trasse dapprima a sé, col far­mi prima distaccare da tutto ciò che menomamente mi distraesse da lui; indi mi ridusse allo stato di vittima perenne, disposta sempre, ogniqualvolta lo volesse, a pren­dere su di me una parte di quelle pene, dolori e sofferenze, di cui è continuamente sovraccarico il pazientissimo Gesù, sia per soddisfare la divina giustizia, già tan­to offesa dal continuo prevaricamento del genere umano, che per impedire che potesse mettere mano ai suoi più spietati flagelli. A me, poi, per rinfrancarmi delle forze perdute, mi usa grazie delle più singolari, come, fra le altre, quella della suddetta assoluzione, la quale mi è stata impartita da Gesù più volte, e nella quale ha preso ora l’aspetto d’un sacerdote che, come tale, prima mi confessava, facendomi sentire differenti effetti nel­l’anima, e dopo, terminata la confessione, si faceva conoscere qual egli era; ed ora prendeva l’aspetto del confessore, tanto che, credendo di parlare con lui, gli aprivo il mio cuore per fargli conoscere lo stato dell’anima mia, coi suoi timori, dubbi, pene, angosce e necessità, ma che poi, dalle risposte che mi dava e dalla soavità della sua voce, tramezzata, però, ora da quella del confessore ed ora dalla sua, dal tratto affabile e dagli effetti interni che io provavo, differentemente da quelli ordinari, venivo a scoprire che quelli non era altro che Gesù. Altre volte poi, mi si manifestava da principio in un modo tutto ineffabile, e mi faceva fare la confessione, sia ordinaria che straordinaria, ed infine mi assolveva. Se dovessi dire tutto quanto è passato tra Gesù e me, non solo andrei troppo per le lunghe, ma quanto che sarebbe preso per favola; perciò passo a dire altro, e che sia di più manifesto.
Ricordo che, dopo tutto quel che ho detto, Gesù mi tenne avvisata della seconda guerra che doveva avvenire tra l’Italia e l’Africa, nove mesi prima che s’ingaggiasse tra loro; ed ecco come. Il benedetto Gesù, facendomi uscire fuor di me stessa, mi trasportò dietro di sé, facendomi percorrere una lunghissima via, tutta disseminata di cadaveri umani, immersi nel proprio sangue, che a guisa di fiume inondava quella via, i quali, come Gesù mi fece vedere con mio sommo orrore, erano abbandonati ed esposti ad ogni intemperie dell’aria ed alla rapacità di animali carnivori, giacché non c’era chi si brigasse di dar loro sepoltura. Ed io allora, tutta spaventata, mi feci a domandare al mio Gesù: “Sposo santo, cosa vuol dire tutto ciò che ora mi fai vedere?”.
E Gesù mi rispose: “Sappi che nel prossimo anno vi sarà guerra. Gli uomini si sono dati ad ogni vizio ed abbandonati alle più carnali passioni per offendermi, ed io voglio fare le mie giuste vendette sulle loro medesime carni che puzzano tutte di peccato”. Io non ebbi alcun dubbio di quanto mi asseriva Gesù; ciò nonostante speravo che, nel corso dei nove mesi, gli uomini carnali avrebbero messo freno alle loro passioni, e Gesù in vista del loro ravvedimento avrebbe sospesa la preavvisata guerra. Ma che dire di tanti e tanti, che infangati nelle loro passioni, invece di ravvedersi peggioravano sempre più? Tanto che, passato quel periodo di prova accordato dal buon Gesù, si cominciò a sentirsi dapprima parlar di guerra e, subito dopo, che veramente tra l’Italia e l’Afri­ca aspramente si combatteva, con evidente danno d’am­bo le parti. Allora io, più che mai, mi offrii al buon Gesù, affinché avesse risparmiato tante vittime; ma per quanto lo pregassi ed incessantemente lo supplicassi che avesse avuto pietà di tante anime che, morendo in guerra, si sarebbero trovate al cospetto di Dio non in stato di grazia, e quindi sarebbero state precipitate nell’inferno, ma Gesù non mi diede punto ascolto; ma facendomi uscire fuori di me, l’anima mia seguendolo si trovò in un istante a Roma, in cui ascoltai la voce di tanti e tanti presuntuosi, che dicevano di essere affatto convinti che l’Italia avrebbe riportato vittoria sull’Africa…
Gesù intanto, dopo aver attraversato le vie di Roma, ed ivi ascoltato quanto ho su detto, mi fece penetrare unita a lui nell’aula del Parlamento, in cui i deputati tenevano calorose dispute, sul modo che dovessero[68] tenere per menare innanzi la guerra ed assicurarsi quindi della bramata vittoria; e si procedeva nella discussione con tanta ampollosità di parole, fanatismo e superbia, che facevano compassione a sentirli. Ma quel che mi fece più impressione fu nel sentire che costoro erano tutti settari, e che agivano sotto la pressione del demonio, a cui avevano venduto le loro anime, affin di accaparrarsi l’esito felice della guerra. Nel conoscere intanto tutto ciò, mi sentii raccapricciare, e tutta dolente esclamai: “Che uomini tristi e malvagi, in tempi più tristi di loro!”. A me sembrava che tra loro regnasse il regno di satana, giacché tutta la loro fiducia, anziché riporla in Dio e nella propria attitudine richiesta all’uopo, la riponevano tutta nel demonio, da cui si attendevano sicura vittoria. Ora dico che, mentre essi stavano immersi nelle più vive e calorose discussioni, per riunire le varie divergenze, per cui [una] tendeva ad allontanarsi sempre più dal­l’altra man mano che si discuteva tra loro, il benedetto Gesù, che senza essere veduto era in mezzo, a udire le loro infelicissime proposte, versò lacrime amarissime sul loro misero stato. Ed essi, dopo che ebbero alla men peggio tirato consiglio, ma senza Dio, sul modo pratico di procedere in guerra, come se la vittoria fosse già del­l’Italia, presuntuosi più che mai, menavano vanto della sicurezza della vittoria. Gesù allora, come se quelli stessero intenti ad ascoltarlo, disse loro in tono di minaccia: “Voi tutti vi fidate di voi stessi, ed io perciò vi umilierò, affinché possiate constatare quanto è il danno che si riporta agen­do senza invocare l’aiuto e l’intervento divino, che è l’autore d’ogni bene. Questa volta quindi la vittoria non sarà dell’Italia, ma a lei toccherà invece totale sconfitta”.
Chi può dire, ora, quanto soffrì il mio cuore a queste parole di Gesù, e i mezzi usati presso il mio amabile Gesù perché si placasse, o che almeno la guerra non andasse più oltre? Come sempre mi offrii vittima di espiazione, affinché versasse su di me le più acerbe pene e i dolori più spasimanti, a patto che risparmiasse l’Italia da un tanto flagello. Ma Gesù mi disse: “Terrò sempre duro, in modo che l’Africa avrà la vittoria sull’Italia. Solo ti accordo che l’Africa vincitrice non si riversi sulla terra italiana per continuare il combattimento, come giusto castigo che merita l’Italia, sia per la vita molto licenziosa che vive, sia per la fede già perduta, per cui non spera in Dio, ma nel diavolo”.
Il tutto già narrato, con altre circostanze, fu da me esposto all’obbedienza del confessore, il quale rispose: “Non mi pare vero che l’Italia abbia ad essere sconfitta dall’Africa, poiché l’Italia nella sua civiltà possiede ogni specie di armi offensive e difensive, per cui la vittoria dov’essere nostra anziché dell’Africa incivile, che è assolutamente priva di armi atte alla guerra”. Ma quando, purtroppo, il risultato di questa venne a confermare quanto Gesù mi aveva assicurato, questi soggiunse dicendomi: “Figlia mia, non c’è consiglio, non c’è pruden­za né forza che valga, se non è attinta da Dio”.
Potrei ora terminare la narrazione di quelle cose più rilevanti, toccatemi dall’età di sedici anni all’incirca [fino] ad oggi, se il confessore non mi avesse obbligata a mettere su carta il modo che Gesù abbia tenuto meco nel parlarmi. Dapprima dico che vari sono questi modi, ma io li riduco appena a quattro, che sono i seguenti: Il primo modo che tiene Gesù nel far apprendere dall’anima ciò che egli vuole, avviene quando fa uscire l’anima dal suo corpo, il che può avvenire in modo istantaneo, oppure insensibile. Nel primo caso l’anima esce dal suo corpo come in un baleno, ed è così repentino che il corpo si solleva come per seguire l’anima, ma poscia rimane come morto, mentre l’anima segue Gesù, percorrendo tutto l’universo, terra, mari, monti, cielo, e fin le regioni del purgatorio e nella magione eterna di Dio, seguendo però sempre la direzione che prende Gesù. Nel secondo caso, in cui l’anima esce dal corpo, è più quieto; ed infatti, pare che il corpo insensibilmente resti come assopito al cospetto di Gesù, e l’anima, nell’atto che Gesù parte, lo segue dovunque egli va.
Sia nel primo che nel secondo caso, il corpo resta impietrito e delle cose esterne non sente più nulla, ancorché si sconvolgesse tutto il mondo e le sue membra le punzecchiassero, le bruciassero e le facessero anche a pezzi. Ed in questi due casi posso asserire che mi son trovata fuori del corpo, e così lontana che dal luogo dove mi aveva trasportata Gesù vedevo il confessore che andava verso casa per farmi riavere; ed io, dagli ultimi confini della terra, dal purgatorio ed anche dal paradiso, al comando di Gesù (che voleva da me perfetta obbedienza al confessore) in un batter d’occhio mi ritrovavo nel corpo. Le prime volte però, temendo che non facessi a tempo, mi angustiavo, mi affliggevo e tutta mi affaticavo per far che mi ritrovassi nel corpo, nell’atto che il confessore mi avrebbe fatto riavere, a mezzo dell’ub­bidienza. Confesso però che mai mi son trovata a non fare a tempo a rientrare nel corpo, allorquando il confessore si è recato presso il mio letticciolo, e che se Gesù non avesse premurato l’anima mia a tornare nel corpo, sarei stata restia alla voce del confessore, poiché si trattava, nientemeno, di lasciare Gesù, mio sommo bene, per accorrere alla voce dell’ubbidienza. Perciò, nel licenziarmi da lui, gli dicevo: “Vado dal confessore, che mi chiama all’ubbidienza; ma tu, mio diletto, torna presto e non appena se ne andrà via; te ne prego, non mi fare tanto aspettare”. Ora dico che l’anima mia, in questi due casi, non ha bisogno che Gesù parli, per farsi intendere, perché da una luce che comunica al mio intelletto mi fa tosto comprendere quanto voglia imprimere in esso. Oh, quanto bene c’intendiamo, quando ci troviamo tutti e due insieme! Questo modo intellettuale di Gesù, per farsi intendere dall’anima, è rapidissimo. Basta dire che in un istante si apprendono molte e sublimi cose, più che leggendo libri interi per tutta la vita; è sì alto, poi, e sì sublime, che riuscirebbe impossibile a qualsiasi intelligenza umana esprimere a parole tutte le impressio­ni di quanto si è appreso[69] dall’anima in un istante solo. Oh, che maestro sapientissimo ed ingegnosissimo è Gesù, che in un batter d’occhio fa apprendere tante cose, quante non arriverebbero altri a farle comprendere nem­meno dopo anni ed anni di lezioni, giacché il maestro terreno non ha la potenza, non solo di esplicare tutte le sue scienze, ma neppure quella di attrarre a sé tutta l’attenzione del discepolo, né quella d’infondere nella mente altrui alcunché senza sforzo e fatica. Gesù invece ha tanta dolcezza, tanta affabilità di tratto e tanta soavità nel dire, che, appena lo scorge, l’anima si sente talmente attirata a lui, che non può non corrergli dietro con la massima velocità, per cui, senza avvedersene, si trova trasformata in lui, in modo da non discernersi l’essere suo da quello divino.
Chi potrebbe dire ciò che l’anima apprende in questo istante di trasformazione? Ci vorrebbe Gesù, o almeno un’anima che avesse subìto di queste trasformazioni mentre era in vita, e che ora si trovi in stato di perfetta gloria; giacché chi è circondato dal muro di questo corpo, ancorché avesse posseduto quella luce divina per cui si sia sentito tutto inabissato in Dio, pur possedendola, sentendosi nell’atto di rientrare nel corpo come av­volto dalle più fitte tenebre, se volesse provare a dire qualcosa gli riuscirebbe impossibile riferirla come gli è stata comunicata, ma [lo farebbe] molto rozzamente ed imperfettamente. Per darne un’idea, m’immagino un cieco nato, che un bel giorno avesse ricevuto la vista per pochi istanti, e che in brevissimo tempo avesse percorso tutto l’universo mondo, in cui velocemente avesse visto le cose più sorprendenti, sia in minerali, che vegetali ed animali, oltre all’immensa distesa del cielo tutto tempestato d’innumerevoli astri, ma che poi, dopo pochi istan­ti tornasse alla stessa cecità di prima. Ora, dico: potrebbe questi riferire ad altri ciò che vide, e con linguaggio al tutto appropriato? A quanti scherni non si assoggetterebbe, se invece di formare un abbozzo volesse descrivere più minutamente tutto ciò che fu da lui veduto appena e solo in pochi istanti?
E proprio così avviene dell’anima quando, dopo aver spaziato per cielo e terra, nel rientrare nel corpo, essendo tornata a non veder più nulla come quel povero cieco, amerebbe chiudersi nel silenzio anziché parlare, sia per la vista perduta che per il timore di spropositare. Così l’anima, rientrando nel corpo, vive gemente e sconsolata per lo stato di violenza a cui deve sottostare, poiché mentre si sente violentata a slanciarsi verso il suo sommo bene, per l’attrazione che Gesù fa all’anima, la quale non brama altro che di star unita con Dio, anziché parlare in modo disordinato di cose eccedenti la sua capacità e l’attuale suo stato, che è più infelice di colui che abbia perduto la vista corporale.
Per obbedienza dico, però, forse spropositando, che stando così le cose, vengo ora a spiegare come meglio posso il secondo modo che tiene Gesù nel parlare al­l’anima, e cioè, che stando questa nel corpo, fuori di esso vede la persona di Gesù, ora da bambino, or da giovane, ora crocifisso, ecc., e Gesù, come noi altri, dalla sua bocca mette fuori parole che sensibilmente l’anima sente giungere al suo udito, e questa a sua volta risponde a Gesù, in modo che talvolta succede una conversazione tale come la si può fare tra due persone. Ma la parola di Gesù, però, è molto misurata, tanto che, appena, egli pronunzia quattro o cinque parole, ed altre volte anche una sola, e rarissime volte [parla] a lungo; ma in quelle sì brevi parole, quanta luce non infonde nell’ani­ma! A me è sembrato vedere un piccolissimo ruscello, che poi si è disteso in un vastissimo mare. Sicché una parola di Gesù ha riportato in me tanta immensità di luce, da far sì che l’anima restasse come assorbita da quel­la luce di verità, tanto da farla come sua. Se a tutti i sapienti del mondo fosse dato ascoltare soltanto una parola di Gesù, son sicura che tutti resterebbero stupiti, confusi e muti, ed incapaci di saper che rispondere. Ora dico che con questo modo di parlare, Gesù manifesta all’anima più facilmente le sue verità, poiché avendo egli usato un linguaggio appropriato all’intelligenza di questa, lei non ha bisogno di andare in cerca di vocaboli per comunicarle ad altri, giacché può usare benissimo quelli stessi usati da Gesù. Quando invece l’anima apprende queste verità per comunicazione al tutto intellet­tuale, si trova molto impacciata nel manifestarle ad altri, perché le riesce impossibile esprimersi con la parola. Ecco perché Gesù, per adattarsi alla natura umana, per lo più fa uso della parola, perché diversamente questa [70], ripeto, non si aprirebbe con altri, stando nel dubbio di errare; e parla secondo la capacità ed il linguaggio di ciascun’anima.
Insomma, Gesù fa come un maestro dottissimo e sa­pientissimo, il quale possiede in grado superlativo tutte le scienze, e volendo impartire ad altri delle lezioni, par­lerà certamente la lingua conosciuta e parlata dall’alun­no, altrimenti la verità scientifica non sarebbe mai appresa da quello, o almeno ci sarebbe bisogno che prima gli facesse apprendere quella lingua, e rifarsi quindi da capo, e poi insegnare quella scienza che si era proposto di far imparare. Oh, quanto è buono Gesù, che pur essendo sapientissimo si adatta alla capacità di tutti, e tan­to da non sdegnare di abbassarsi a far scuola a quegli ignoranti che volessero apprendere da lui le verità necessarie per il conseguimento dell’eterna salute, e molto meno superbo[71], se le sue verità le dovesse comunicare a persone dottissime ed in modo elevato, giacché egli non ha altra mira se non che quella di far conoscere, apprezzare ed eseguire le sue verità, non volendo che alcuno ne resti privo di queste.
Il terzo modo che adopera Gesù nel far apprendere all’anima le sue verità, consiste nel partecipare a lei la stessa sua sostanza. A me sembra che avvenga come quando Iddio creò il mondo dal nulla, che ad una sola sua parola tutte le cose vennero all’esistenza, mentre ad un’altra sua onnipotente parola tutto il creato fu messo in ordine, quale ab æterno era stato da lui prefisso. Così avviene dell’anima a cui Gesù le parli parole di vita eterna; [egli] crea, nell’atto stesso che comunica le sue verità, perché volendo Gesù che l’anima s’innamori del­la sua bellezza, le dice: “Vuoi tu sapere quanto io sia bello? Per quanto il tuo occhio potesse scorrere su tutte le bellezze sparse su tutta la terra e negli stessi cieli, mai troveresti bellezza simile alla mia bellezza”.
In questo dire di Gesù, l’anima si sente come se entrasse in lei un certo che di divino, a cui si sente di aderire perché è attirata da Gesù come bellezza sopra ogni altra bellezza, ed insieme [si sente] perdere ogni attrattiva per tutte le cose belle di quaggiù, giacché per quanto belle e preziose fossero[72], messe a paragone della bellezza di Gesù, vi scorge l’infinito divario, e quindi si dà a questa[73], in questa si trasmuta, a questa sempre pensa, di questa vorrebbe sempre parlare, giacché di essa si sente tutta investita, innamorata ed anzi trasfusa; dico ancor di più, che se il Signore non operasse un miracolo, l’anima cesserebbe di vivere, facendole scoppiare il cuore di puro amore a vista della bellezza di Gesù, per volarsene tosto appresso a lui lassù nel cielo per bearsi della sua bellezza. Io stessa però, che ho provato tutte queste emozioni, con tutte le attrattive della bellezza di Gesù, non so cosa mi dico; si tenga quindi il mio detto come tanti spropositi, ma non posso però non sostenere che una impressione soprannaturale non sia rimasta in me, ed in modo tale da farmi dedurre questa verità: ogni bellezza terrena, a vista di quella del mio amabilissimo Gesù, viene ad eclissarsi, come le stelle al comparir del sole, e quindi le bellezze delle cose create, Gesù me le fa tenere come un’inezia e cosa da trastullo. Di quanto ho detto della bellezza di Gesù, altrettanto e più ancora potrei dire della purità, della carità, della bontà, della semplicità, e di tutte le altre virtù di Gesù, come pure di tutti gli attributi di Dio, giacché parlando all’anima fa entrare in essa, oltre alla parte comunicativa delle sue virtù, gli infiniti attributi della sua divinità.
Un giorno, fra gli altri, Gesù mi disse: “Vedi quanto io sono puro? Anche in te voglio questa purità”. A queste parole di Gesù, accompagnate dallo splendore candidissimo della sua purità tutta divina, sentii entrare in me tale purità, come se la purità di Gesù si fosse del tutto trasfusa in me, in modo che cominciai d’allora a vivere come se non avessi più corpo, perché mi sentivo tutta inebriata dalla sua fragranza, mi assopivo all’olez­zo suo balsamico, correva il mio spirito dietro al suo odore di paradiso, mi ridestavo alla freschezza della sua aria pregna di aromi. Il mio corpo, reso partecipe della purezza vitale dell’anima assieme alle sue potenze, si rese molto semplice per la correttezza dei suoi sensi, giacché la nausea dell’impurità s’impossessò tanto in[74] me, che se d’allora in poi avesse potuto solo lontanamente percepire qualche sensazione meno pura, involontariamente lo stomaco mi si ribellava, dando forti conati di vomito.
L’anima, insomma, a cui Dio abbia parlato della sua purità, viene a trasmutarsi in quella, e tanto che sente di non poter più vivere in sé, ma vive ed agisce in Gesù, avendo egli preso stabile dimora in lei. Perciò non posso fare a meno di dire che quanto ho detto della bellezza e purità di Gesù trasfuse in me, sono meri spropositi, giacché l’intelligenza e capacità umana sono incapaci ad esprimere con linguaggio umano ciò che non lo potrebbe nemmeno il linguaggio angelico, tanta è la sublimità di esse. Se non mi riesce, quindi, a ben esprimere del­l’impressione[75] avuta nell’ammirare la bellezza, purità, e tutte le altre virtù, così è da dirsi degli attributi divini che il mio buon Gesù di tanto in tanto ha voluto comunicare all’anima mia. Oh, quanto è desiderabile la partecipazione di esse virtù e attributi di Dio che Gesù fa al­l’anima, in modo tutto creativo, mercé la quale, l’anima si trova in possesso di quanto le è dato di apprendere, fosse pure in un batter d’occhio. In quanto a me, darei tutto ciò che sta in tutto l’uni­verso mondo, se ne fossi padrona, per avere una sola di sì elette comunicazioni, per cui l’anima si avvicina sempre più a lui[76], sublimandola all’intuitiva comprensione dei beati ed angeli del paradiso.
Il quarto modo che tiene Gesù di parlare all’anima, consiste tutto nella comunicazione dei cuori, mercé l’esercizio continuo e mai interrotto nelle sue più eroiche virtù, essendo allora l’anima sempre intenta a procurare il maggior compiacimento di Dio, fatto ospite del suo cuore. Gesù internamente, stando in riposo, ma sempre vigilante nell’intimo nascondiglio del suo[77] cuore, la richiama talvolta al suo dovere senza articolar parola, giacché essendosi l’uno e l’altra come fusi ed immedesimati insieme, gli basta un solo moto interno per farsi comprendere; ma però altre volte Gesù fa uso anche della parola, che fa giungere all’orecchio del corpo, facendole comprendere quanto egli vuole. E questo mo­do di parlare di Gesù, che fa all’anima che lo abbia reso padrone assoluto del suo cuore, succede spesso spesso avendo egli preso tutta a sé la direzione di quest’anima, per cui la sveglia se la vede assopita durante l’adem­pimento dei suoi doveri, la incita dolcemente a riprendere di buona voglia ciò che avesse potuto trascurare per rincrescimento, e tosto fa sentire la sua parola ammonitrice se la vedesse distratta, afflitta, sconsolata, oppure perdendo il tempo, mancante alla carità, ecc. E questa sua parola basta a farla rientrare subito in se stessa, per riconcentrarsi maggiormente in Dio a fare la sua Santa Volontà.
E così avrei dovuto mettere termine a[78] tutte le grazie che il mio amabilissimo Gesù ha voluto copiosamente elargire a me, ultima delle sue ancelle, nel corso di sedici anni all’incirca, dal momento che io feci proposito di fare la novena del santo Natale con nove meditazioni al giorno, concernenti i grandi misteri della sua Incarnazione. Se non che il mio confessore, trovandosi a considerare l’inizio di questo manoscritto, e proprio al punto ove io dissi: “Così io passavo la seconda ora di meditazione, e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi seccante…”, questi ora mi ha ingiunto di scriverle per esteso, affinché - come egli mi dice - si venga a riempire quella lacuna già fatta contro il suo volere. E poiché mi conviene sempre ubbidire, anche contro la mia ragione, che è quella di non poter fare questo lavoro a causa della mia incapacità e distanza di tempo, che mi ha fatto quasi dimenticare quanto Gesù mi faceva praticare, senz’altro, fidente in lui, pren­do la penna in mano e dico.
Dalla seconda meditazione passai immediatamente alla terza, giacché la voce interna che sin dalla prima meditazione mi si fece sentire sensibilmente mi disse: “Figlia mia, poggia la tua testa sul seno della mia Mam­ma, e considera in esso la mia piccola umanità. Qui il mio amore per la creatura quasi mi divora; sono gli incendi, gli oceani, i mari immensi dell’amore della mia divinità, che m’inceneriscono, m’inondano, e che eccessivamente oltrepassano ogni confine, tanto da sollevarsi ovunque e sino a tutte le generazioni, dalla prima all’ul­tima creatura. E la mia piccola umanità, pur divorata in mezzo a tante fiamme d’amore, si rende ancor essa divorante nel medesimo amore. Ma sai che cosa il mio eterno amore mi voglia far divorare? Ah, sì; ben lo saprai a prova: le anime tutte! Ed allora, figlia mia, sarà contento il mio amore, quando le divorerà in sé tutte, giacché [io] essendo Dio devo operare da Dio, abbracciando in tutto e per tutto ciascun’anima che possa venire all’esistenza, poiché il mio amore non mi darebbe pace se vi escludessi qualcuna. Sì, figlia mia, guarda bene nel seno della Mamma mia; fissa il tuo sguardo nella mia umanità già concepita, e vi troverai ancora l’anima tua concepita con me, e le fiamme del mio amore che ti hanno incendiata tutta d’amore per me, ed allora faranno sosta quando ti avranno in me consumata. Oh, quanto ti ho amato, ti amo e ti amerò in eterno!”.
Al sentire Gesù, che così mi parlava, io mi sperdevo in mezzo a tanto amore e non sapevo come corrispondergli; se non che una voce interna venne a scuotermi col dirmi: “Figlia mia, ciò è nulla, in paragone di quanto si opera dal mio amore. Stringiti perciò più a me; dà le tue mani alla mia cara Mamma, affinché ti tenga viepiù stretta sul suo seno materno, e tu intanto dà un altro sguardo alla mia piccola umanità concepita nel tempo per concepire le anime per l’eternità, il che ti darà campo a considerare il quarto eccesso del mio amore, che si rende operativo”.
“Figlia mia, se tu vuoi passare dall’amore sì divorante all’amore mio operante, mi scorgerai immerso in un abisso senza fondo di sofferenze. Considera che ogni anima in me concepita mi portò il fardello dei suoi peccati, delle sue debolezze e passioni, ed il mio amore m’impose a prendere il fardello di ciascuna, per cui, dopo aver concepito in me le loro anime, concepii ancora le loro pene e le soddisfazioni che ognuna di loro doveva dare al mio celeste Padre. Perciò non deve meravigliarti se la mia passione fu concepita unitamente a me. Guarda bene nel seno della mia Mamma, e vi scorgerai quanto e come sento al vivo lo strazio di tante pene! Guarda bene la mia testolina, circondata da un serto di spine, le quali, trafiggendomi crudelmente il capo, mi fanno versare dagli occhi fiumi di cocentissime ed amarissime lacrime. Deh, muoviti tu a compassione di me con l’asciugarmi gli occhi, versanti tante lacrime, tu che hai libere le braccia per potermelo fare!
E queste spine, figlia mia, non sono altro che il serto crudele che mi formano le creature coi loro pensieri cattivi, che si affollano nelle loro menti. Oh, quanto crudelmente essi mi pungono! Oh, lunga coronazione di nove mesi! E come se questa non bastasse, mi crocifiggono mani e piedi, giacché mi fanno soddisfare la divina giustizia per loro, che percorrendo ogni via perversa e commettendo ogni ingiustizia nel traffico transitorio del­la vita, passandola[79] in ogni illecito guadagno; ed in questo stato non mi è possibile poter muovere né una mano, né un dito, né un piede; sono sempre immobile, sia per la crocifissione perenne che subisco, sia per lo spazio troppo ristretto in cui vivo. E questa lunga crocifissione la subii ancora per ben nove mesi! Sai tu, figlia mia, perché sia la coronazione di spine che la crocifissione mi si rinnovano ad ogni momento? Perché il genere umano non smette mai di macchinare disegni malvagi e compiere atti cattivi, i quali, prendendo forma di spine e chiodi, mi trafiggono con quelle le tempie e con questi ripetutamente mani e piedi”.
E così Gesù nell’affanno e nel dolore continuava a narrarmi ciò che nella sua piccola umanità soffriva di pene, dolori e martiri, nel seno materno, il che tralascio per non rendermi troppo lunga e perché non mi regge il cuore a narrare tutto ciò che il benedetto Gesù ha sofferto in esso per nostro amore. Io non sapevo far altro che abbandonarmi ad un dirotto pianto; ma tosto mi scuoteva di nuovo la sua flebile voce, dicendomi internamente al cuore: “Figlia mia, oh, quanto vorrei abbracciarti per ricambiarti l’amore penante che senti per me, ma non lo posso ancora, ché come vedi sono racchiuso in questo piccolo spazio che mi obbliga all’immobilità. Vorrei venire a te, ma ciò non mi è dato, perché non posso camminare per ora. Figlia del mio primo amore penante, vieni tu spesso spesso a me ed abbracciami, che poi, quando uscirò dal seno materno, verrò io a te e allora ti abbraccerò e starò teco”.
E mentre con la mia fantasia m’immaginavo di essere con lui nel seno della Mamma, e me lo abbracciavo e me lo stringevo forte forte al mio cuore tutto addolorato, di nuovo mi faceva sentire la sua voce, che internamente mi diceva: “Basta così per ora, figlia mia; passa piuttosto a considerare il quinto eccesso del mio amore, che, sebbene da tutti vilipeso e messo in non cale, non indietreggia mai, né fa sosta, bensì sormonta tutto e va sempre avanti”.
Sentendomi chiamare da Gesù a considerare il quin­to eccesso del suo amore, tesi l’orecchio del cuore ad ascoltare la flebile ma creatrice voce di Gesù, che internamente mi diceva: “Figlia mia, non ti discostare da me, non mi lasciare solo. Il mio amore brama essere sempre in compagnia; e questo, sappi, è un altro eccesso del mio amore, ché come la mia divinità essenzialmente for­ma l’unione più intima che si possa dare, così la mia umanità, ipostaticamente unita al mio Verbo eterno, non può naturalmente non essere portata a deliziarsi della compagnia delle creature.
Notasti che non appena fui concepito nel seno della mia Mamma, nel tempo stesso concepii alla grazia tutte le umane creature, affinché concepite in me crescessero al par di me in sapienza e verità. Ecco perché amo la loro compagnia e voglio stare in continua corrispondenza d’amore con loro, e spesso spesso comunicare ad esse l’attestato più palpitante del mio amore. Voglio continuamente essere in soave colloquio d’amore con loro, per tenerle a giorno delle mie gioie e dei miei dolori; bramo ancora far loro conoscere che son venuto dal cielo in terra, non per altro fine che per renderle pienamente felici, e quindi bramo di stare in mezzo a loro come un fratellino, per riscuotere benevolenza ed amore, per ridare a ciascuna tutti i miei beni, il mio proprio regno, a costo dei più duri sacrifizi, non escluso quello della mia morte per la loro vita. Bramo, insomma, trastullarmi con loro, col colmarle di baci e delle più soavi carezze d’amore. Ma, ahimè, sappi che in cambio del mio amore non ricevo altro che continui dolori e pene! Ed infatti, vi è chi svogliatamente ascolta la mia parola di vita eterna; chi schiva la mia compagnia; vi è chi si svincola dal mio amore, chi mi fugge, chi fa il sordo, e perciò mi riduco al silenzio; ma vi è di più, chi direttamente mi disprezza e mi oltraggia. I primi non si curano dei miei beni e del mio regno, ricambiano i miei baci e carezze con la noncuranza e dimenticanza di me, e quin­di il mio trastullo che dovrei tener [con] loro si riduce al silenzio e all’abbandono; ma i secondi, che sono i più, convertono il mio amore per loro in amarissimo pianto, che naturalmente è sfogo del cuore, che non solo non è appagato, ma bensì vilipeso, sprezzato ed oltraggiato. E dire, poi, che mentre sono in mezzo a loro, sono sempre solo! Oh, quanto mi pesa la solitudine forzata che mi procurano esse col loro abbandono, col farsi sorde anche ad una mia parola, e con l’impedirmi ogni sfogo d’amo­re! Sono sempre solitario, mesto e taciturno, perché se parlo non vengo punto ascoltato… Ah, figlia mia, supplisci tu al defraudato mio amore, col non lasciarmi mai solo in questa mia solitudine! Dammi il bene di farmi parlare col darmi ascolto, prestando il tuo orecchio ai miei insegnamenti. Sappi che io sono il maestro dei maestri, e se tu mi ascolti, oh, quante cose non apprenderai da me, e nel tempo stesso mi farai cessare dal pianto col farmi teco trastullare. Dimmi, vuoi tu trastullarti con me?”.
Ed io, dopo di essermi protestata di essergli sempre fedele, mi abbandonavo in lui, amandolo nella mia più tenera compassione verso di lui, che pur essendo tanto magnanimo da voler deliziare con se stesso la creatura, da questa viene lasciato solo, senza alcun sollievo, e nella più tetra solitudine. Ma mentre così passavo la mia quinta ora di meditazione, la voce interna del mio Gesù si faceva di nuovo sentire al cuore: “Basta, basta così; passa ora a considerare il sesto eccesso del mio amore”.
“Figlia mia, sia teco la mia intimità. Avvicinati sempre più a me, e prega la mia cara Mamma che ti faccia un po’ di posticino nel suo materno seno, affinché tu stessa possa constatare lo stato doloroso in cui mi trovo”.
Col pensiero quindi m’immaginavo che la mia Regina Mamma, a volermi attestare il suo materno e più grande affetto verso di me, mi facesse congiungere nel suo seno al dolce ed affabile Gesù, incarnato in lei, e mi raffiguravo come se fossi già nel suo seno, stretta stretta col mio amabile Gesù. Ma era tale e tanta l’oscurità che ivi regnava, che mi riusciva affatto impossibile vedere le sue fattezze, ma solo sentivo il suo infocato sospiro d’amore, mentre nel mio interno seguitava a dirmi: “Figlia mia, considera un altro eccesso del mio amore. Io sono la luce eterna, e non vi è altra luce fuor di me più splendente. Considera per poco il sole, quando è nel suo pieno splendore; eppure esso non è altro che un’om­bra della mia luce eterna. Ebbene, questa mia luce eterna per amore della creatura si eclissa interamente in me per l’assunta umanità. Vedi tu in che oscura prigione mi ha ridotto l’amore? Sì, è per amore della creatura che mi sono così confinato, ad attendere che si faccia uno spiraglio di luce; ma ho dovuto pazientare per ben nove mesi in sì fitta notte, ma notte senza stelle, senza riposo, ma sempre desto in attesa della luce del sole che ancora non mi arriva… Che pena io provo! La strettezza della prigione, che non mi dà campo di potermi menomamente muovere, mi procura indicibile affanno; la mancanza di luce, che nulla mi fa vedere ancora, mi dà tanta pena da togliermi fin anche il respiro, che ricevo languidamente per mezzo del respiro della Mamma. Ma sai tu chi mi ha tratto in questa prigione, chi mi ha tolto la luce, e chi mi fa sempre più languire nel mio respiro? È stato l’amore che sento per la creatura; sono le tenebre delle colpe delle creature, perché ogni colpa è una notte di più per me; è la durezza del cuore umano, in cui non vi entra alcun ravvedimento; è la nera ingratitudine, che come mostro infernale mi soffoca il respiro; tutti assieme mi formano un abisso, senza fondo, di oscurità, di soffocamento, di dolori inauditi. Che pena! Oh, eccesso del mio amore non corrisposto, tu mi hai fatto passare da una immensità di luce eterna in una profondità di fitte tenebre, ed in tale strettezza da farmi mancare la libertà del respiro!”.
Mentre Gesù tutto ciò mi diceva, gemeva, ma con gemiti soffocati per la ristrettezza dello spazio, ed io mi stemperavo in lacrime per la compassione, e volevo fargli un po’ di luce col mio amore, come egli richiedeva. Ma chi può dire ciò che Gesù ed io soffrivamo a vicenda, per amor delle creature? Ma in tanto dolore e pena, il mio sempre amabile Gesù fece sentire nell’interno del mio cuore la sua dolce parola: “Basta così per ora; passa piuttosto al settimo eccesso del mio amore”.
Quindi mi soggiungeva: “Figlia mia, non volermi lasciare solo in tanta solitudine ed in tanta oscurità; non voler uscire dal seno della Mamma mia, per ben considerare il settimo eccesso del mio amore.
Ascoltami: nel seno del mio celeste Padre io ero pienamente felice; non c’era bene che io non possedessi: gioia, felicità, tutto era a mia disposizione. Gli angeli, riverenti, mi prestavano culto di somma adorazione e tutti pendevano dei miei cenni. Ma l’eccesso del mio amore per il genere umano, potrei dire, mi fece cambiar fortuna. Mi spogliai di tutte le mie gioie e felicità, mi svestii di tutti i miei beni e d’ogni celestiale comodità, per vestirmi di tutte le infermità delle creature, a fine di procurar loro la mia felicità eterna, le mie gioie ed i miei contenti eterni. Questo cambio, però, sarebbe stato ben lieve per me, se non avessi trovato in loro la più mostruosa ingratitudine ed ostinata perfidia. Oh, come il mio eterno amore restò sorpreso innanzi a tanta ingratitudine! Oh, quanta pena mi dà l’ostinatezza e la perfidia dell’uomo, le quali sono per me più che spine, le più pungenti al mio cuore, che sin dal mio concepimento ebbe a soffrire inenarrabili punture, e continuerà sino al­l’ultimo momento della mia vita. Guarda, guarda bene il mio cuoricino, in quante spine si trova; osserva le ferite che gli fanno ed il sangue che a rivi sgorga da esso! Oh, che pena, e quanti dolori io sento mai!
Figlia mia, non essermi ancor tu ingrata, giacché l’ingratitudine è la pena più dura e più crudele per il tuo Gesù. L’ingratitudine è più che chiudermi in faccia la porta del cuore, per farmi restar fuori, tutto assiderato dal freddo disamorato. Eppure il mio amore, a tanta perversità del cuore umano, non si è arrestato, anzi si atteggia ad un altro amore più elevato, che mi fa divenire supplicante, gemente e supplicante per loro; e questo, fi­glia mia, è l’ottavo eccesso del mio più possente amore”.
“Figlia mia, non mi lasciar solo; continua a poggiare le tua testa sul seno della Mamma, che anche dal di fuori sentirai i miei gemiti e le mie suppliche; ma vedrai che né i miei gemiti, né le mie suppliche, moveranno a compassione del mio amore l’ingrata creatura, e mi vedrai allora, ancor piccino, stendere la mia mano come il più povero dei mendicanti e chiedere per pietà le loro anime, a titolo almeno di elemosina. Spero che in questo modo potrò attirarmi i loro affetti ed i loro cuori, assiderati dall’egoismo. Il mio amore, figlia mia, vuol vincere a qualunque costo il cuore dell’uomo, ed è perciò che vedendo [che] questi, dopo aver usato il settimo eccesso del mio amore, ne era ancor restio, facendo il sordo col non curarsi né di me, né dei miei beni, mi son deciso a spingermi più oltre. Il mio amore avrebbe dovuto arrestarsi innanzi a tanta ingratitudine; ma no, vuole uscire anche fuori dei suoi limiti, e fin dal seno materno fa giungere la mia voce supplichevole ad ogni cuore; uso i modi più insinuanti, le parole più dolci e penetranti e le preghiere più commoventi, per toccare le fibre del cuore umano e per ottenere… sai tu che cosa? Il cuore delle creature. Ad [essa] dico: ‘Figlia mia, dammi il tuo cuore, che è mio, ed io ti darò tutto ciò che vuoi ed ancor me stesso, purché mi dia in cambio il tuo cuore. Benché freddo d’amore, io lo riscalderò al contatto del mio cuore e lo farò andare in fiamme, da far distruggere in te ogni affetto che non sa di cielo. Se son disceso dal cielo per incarnarmi nel seno materno, sappi che l’ho fatto ap­punto per farti entrare nel seno del mio celeste Padre. Deh, non me lo negare, non rendere deluse le mie speranze, che per te saranno certezza d’infiniti beni’.
Ciononostante, vedendo la creatura ancor restia al mio amore, che anzi mi volse le spalle e se ne allontanò da me, ho cercato di fermarla, e coi gemiti più teneri e supplichevoli, e congiungendo le mie manine, ho cercato di scongiurarla, dicendole con voce soffocata da singhiozzi: ‘Deh, vedi, anima mia, che io non sono altro che il piccolo mendico, che null’altro ti chiede in elemosina che solo il tuo cuore? Figlia mia, possibile che non voglia tu comprendere che questo mio modo di agire non è altro che l’eccesso più grande del mio amore non corrisposto? Che il Creatore, per attirare al suo amore la creatura, prenda la forma di piccolo bambino, per non incutere timore, e s’induca a chiedere [in] elemosina il deformato suo cuore, e vedendola ricalcitrante e restia a non volerglielo dare, la prega, la supplica, geme e piange…, non ti muove a compassione? Non ram­mollisce il tuo cuore?’. Eppure, figlia mia, la creatura ragionevole pare che abbia perduto affatto l’uso di ragione, ché mentre dovrebbe restare annegata nelle fiam­me del mio divino amore, cerca invece di disfarsene, per andare in cerca dei più bestiali amori, per cui dovrà precipitare nel caos infernale, in cui a mille doppi piangerà in eterno”.
A queste parole di Gesù mi sentivo tutta intenerire e nel tempo stesso raccapricciare e rabbrividire, pensando all’umana ingratitudine, e poi alle tristissime conseguenze eterne e irreparabili. Mentre ero immersa in questa duplice considerazione, la voce del mio Gesù internamente si fece sentire nel mio cuore così: “E tu, figlia mia, non vorresti darmi il tuo cuore? Vorresti tu forse che anche per te io pianga e mi stemperi in gemiti e suppliche, affine di ottenere il possesso del tuo cuore?”. Ma mentre Gesù mi diceva tutto ciò singhiozzando, preso il mio cuore da un’ineffabile tenerezza per il non corrisposto suo amore, e tutto palpitante dal più vivo e non mai sentito amore, gli risposi: “Mio diletto Gesù, non piangere più; sì, sì che ti ridono non solo il mio cuore, ma tutta me stessa. Non esito a dartelo, ma per renderti un dono più gradito vorrei prima togliere dal freddo cuore mio, tutto ciò che non è tuo. Dammi perciò la grazia efficace per renderlo simile al tuo, affinché [tu vi] possa prendere stabile e perenne dimora”.
Dopo ciò, Gesù senz’altro aggiunse: “Figlia mia, è tempo che per ora passi più oltre. Entra a considerare il nono eccesso del mio amore”.
“L’attuale mio stato, figlia mia, si fa sempre più doloroso. Se tu mi ami, procura che il tuo sguardo sia sempre fisso in me, affinché possa ben apprendere tutto ciò che ti ho insegnato, affin di apprestare al tuo piccolo Gesù un qualche sollievo alle tante pene che soffre; fosse anche una tua parola di amore, una tua carezza o un affettuoso bacio, affinché il mio cuore abbia il dolce contento di sentirsi corrisposto con amore, che darà tregua al mio amarissimo pianto ed alle dure afflizioni che qui soffro. Senti, figlia mia, l’uomo, dopo d’avergli dato tante prove di amore mercé gli otto eccessi del mio amore, avrebbe dovuto piegarsi al contatto del vero e sublime mio amore, ma invece mi contraccambia sì malamente da farmi così passare ad un altro eccessivo amore, che per me sarà il più doloroso se non verrò corrisposto.
L’uomo sinora non si è dato per vinto, ed è perciò che all’ottavo eccesso di amore faccio seguire il nono, che consiste tutto nelle ansie, le più amorose, nei sospiri più infuocati di amore per lui, e nei desideri più ardenti di volermi poter sprigionare dal seno materno, affin di corrergli dietro, e dopo averlo fermato sulla china del male, bramo abbracciare e baciare quest’uomo ingrato del mio amore, per far che s’innamori della mia bellezza, della mia verità e dei miei beni eterni, dei quali voglio renderlo eterno possessore ad ogni costo. Questo mio inestimabile disegno riduce la mia piccola umanità, non ancor nata, ad un’agonia tale, da farmi giungere al­l’ultimo anelito della mia vita, che se non fosse stata soccorsa e sostenuta dalla mia divinità, che da lei è inseparabile per l’unione ipostatica, già a quest’ora avrebbe esalato l’ultimo suo respiro. La divinità, comunicandole continuamente dolci sorsi di novella vita, la fa resistere alla continuata agonia di nove mesi, che si direbbero mesi più di morte che di vita.
Questo, figlia mia, è il nono eccesso del mio amore, che non fu altro se non che un continuo agonizzare sin dal primo istante in cui la mia divinità entrò in questo seno materno, per prendere le spoglie umane, per ivi nascondere l’essenza della stessa mia divinità, altrimenti invece di amore incuterei timore alla creatura che vuole sposarsi al mio amore. Ma, ahimè, che lunga agonia non fu per me, quella di aspettare per ben nove mesi questa creatura! Oh, come l’amore mi soffoca e mi riduce ad un continuo morire! Ti ripeto, figlia mia, che se la mia umanità non avesse avuto dalla divinità aiuto e forza a sostenere l’amore immenso che tutto mi divora, si sarebbe purtroppo incenerita e consumata per l’amore operante, che mi ha fatto addossare l’enorme fardello delle pene dovute ad ogni creatura, insieme alle soddisfazioni richieste dalla divina giustizia e all’amore supplicante, gemente e supplicante, che cosa mai? Il cuore freddo ed insensibile delle creature. Ecco perché la mia vita nel seno materno si è resa tanto dolorosa, da non sentirmi più capace di star lontano dalla creatura. Bramo ad ogni costo di avvicinarla al mio seno, per farle sentire i miei palpiti infocati d’amore; di abbracciarla col mio più tenero e sviscerato affetto, affin di renderla padrona dei miei beni eterni... E sappi che se non venissi or ora da te sollevato, prima ancora che potessi uscire alla luce del giorno resterei affatto consumato dall’eccesso di questo mio novello amore. Guardami fisso fisso nel seno materno, e vedi come son divenuto pallido pallido; ascolta la mia voce che si rende, al par di un agonizzante, sempre più flebile; senti il palpito del mio cuore che, tanto accelerato nel suo battito, ora è quasi senza pulsazione. Guardati dal divagare lo sguardo da me, perché, osservami bene, io mi sento che adesso adesso io muoio… Sì, io muoio, e muoio di puro amore!”.
In questo mentre ancor io sentii venirmi meno la vita per amor di Gesù, e perciò si fece da entrambi profondo silenzio, silenzio sepolcrale. Il mio sangue si agghiacciò ed arrestò nelle mie vene, tanto che il mio cuore non me lo sentii più battere nel petto; il respiro mi venne meno, e tutta tremante stramazzai di peso sulla nuda terra. In quell’assopimento mortale soltanto la mia lingua balbettava: “Gesù mio..., amor mio..., vita mia..., mio tutto, non morire, che io sempre t’amerò…, mai più, mai più ti lascerò, a costo pure di qualsiasi sacrifizio. Dammi però sempre le fiamme del tuo amore, per poterti sempre più amare e consumarmi al più presto, tutta tua, di amore per te, sommo ed eterno mio bene”.
Allora sì, posso dire che mi sentii più che morta per amore del mio Gesù, il quale, già nato per questa nostra vita di morte, per farci prima assoggettare alla morte della nostra volontà e poscia a quella vera vita e vita eterna, al suo primo tocco mi fece rinvenire dall’asso­pimento in cui ero caduta, pronunziando queste soavissime parole: “Figlia, rinata per il mio amore, su, levati alla vita della mia grazia e del mio amore; corrispondimi in tutto, e come mi hai affatto compagnia con le nove considerazioni sull’eccesso del mio amore, lungo la novena della mia natività, così continua a fare altre ventiquattro considerazioni circa la mia passione e morte di croce, distribuendole nelle 24 ore della giornata, nelle quali scorgerai altri eccessi più sublimi del mio amore, e mi sarai di continuo sollievo nelle dolorosissime pene che mi vengono dalle ingrate creature; ed in vita sarai del tutto amante della mia sepoltura, ed in morte avrai l’ottima parte della mia gloria”.


INDICE

  Vol 2   J.M.J.

VOLUME 2°
Febbraio 28, 1899  (1)
Gesù le parla della fede.
Per ordine del confessore incomincio a scrivere ciò che passa tra me e Nostro Signore giorno per giorno. Anno 1899, mese di febbraio, giorno 28. Confesso la verità, gran ripugnanza io provo; è tanto lo sforzo che devo fare per vincermi, che solo il Signore può sapere lo strazio dell’anima mia. Ma, oh santa obbedienza, che legame potente tu sei! Tu sola potevi vincermi e, superando tutte le mie ripugnanze, come monti insuperabili, mi leghi alla Volontà di Dio e del confessore. Ma deh, o sposo santo, per quanto è grande il sacrifizio, altrettanto ho bisogno d’aiuto; non voglio altro, che m’introduciate nelle vostre braccia e mi sosteniate; così, assistita da voi, possa dire la sola verità, per sola gloria vostra e per mia confusione.
Questa mattina, avendo celebrata la messa il confessore, ho fatto anche la comunione. La mia mente si trovava in un mare di confusione per cagione di queste obbedienze che mi vengono date dal confessore, di scrivere tutto ciò che passa nel mio interno. Appena ricevuto Gesù, ho incominciato a dirgli le mie pene, specialmente la mia insufficienza, e tant’altre cose; ma Gesù pareva che non si curava del fatto mio, e non rispondeva a niente. Mi è venuto un lume nella mente ed ho detto: “Chi sa che non sono io stessa la causa che Gesù non si mostra secondo il suo solito”. Allora con tutto il cuore gli ho detto: “Deh! Mio bene e mio tutto, non mostrarti meco sì indifferente, il cuore me lo fai spezzare per il dolore; se è per lo scritto, venga [quel] che venga, mi costasse il sacrifizio della vita, vi prometto di farlo”.
Allora Gesù ha cambiato aspetto, e tutto benigno mi ha detto: “Che cosa tu temi? Non ti ho io assistito le altre volte? La mia luce ti circonderà da per tutto, e così potrai tu manifestarla”.
Mentre così diceva, non so come, ho visto il confessore vicino a Gesù, ed il Signore gli ha detto: “Vedi, tutto ciò che fai passa nel cielo, perciò vedi la purità con cui devi operare, pensando che tutti i tuoi passi, parole ed opere, vengono alla mia presenza, e se son puri, cioè fatti per me, io ne prendo diletto grandissimo e me li sento a me d’intorno, come tanti messaggeri che mi ricordano continuamente di te; ma se sono per fini bassi e terreni invece, ne prendo fastidio”.
E mentre così diceva, pareva che gli prendesse le mani e, sollevandole al cielo, gli diceva: “L’occhio sempre in alto, sei del cielo, opera per il cielo”. Mentre vedevo il confessore, e che Gesù così gli diceva, nella mia mente mi pareva che, se così si operasse, succedeva[1] lo stesso come quando una persona deve sloggiare da una casa per andare ad un’altra: che fa? Prima manda tutte le robe e tutto ciò che essa tiene, e poi se ne va essa. Così noi, prima mandiamo le nostre opere a prenderne il posto per noi nel cielo, e poi, quando giungerà il nostro tempo, andremo noi. Oh, che bel corteggio ci faranno! Or, mentre vedevo il confessore, mi ricordavo che mi aveva detto che dovevo scrivere sulla fede, e il modo come il Signore mi aveva parlato su questa virtù. Mentre così pensavo, in un istante il Signore mi ha tirato talmente a sé, che mi son sentita fuori di me stessa nella volta dei cieli, insieme con Gesù, e mi ha detto queste precise parole: “La fede è Dio”. Ma queste due parole contenevano una luce immensa, che è impossibile spiegarlo; ma come posso, lo dirò.
Nella parola fede comprendevo che la fede è Dio stesso. Come al corpo il cibo materiale dà vita acciocché non muoia, così la fede dà la vita all’anima; senza la fede l’anima è morta. La fede vivifica, la fede santifica, la fede spiritualizza l’uomo e gli fa tenere l’occhio all’Ente Supremo, in modo che niente apprende delle cose di quaggiù, e se le apprende, le apprende in Dio. Oh, la felicità di un’anima che vive di fede! Il suo volo è sempre verso il cielo; in tutto ciò che le succede si rimira sempre in Dio, ed ecco come: nella tribolazione, la fede la solleva in Dio, e non se ne affligge, neanche mena lamento, sapendo che non deve formare qui il suo contento, ma nel cielo. Così, se la gioia, la ricchezza, i piaceri, la circondano, la fede la solleva in Dio e le fa dire fra sé: “Oh, quanto sarò più contenta, più ricca nel cielo!”. Quindi, di questi beni terreni ne prende fastidio, li disprezza, se li mette sotto i piedi. A me sembra che ad un’anima che vive di fede, succede come ad una persona che possedesse milioni e milioni di monete, ed anche regni interi, ed un’altra che vorrebbe[2] offrirle un centesimo. Or, che direbbe costei? Non l’avrebbe a sdegno, non glielo getterebbe in faccia? Aggiungo: e se quel centesimo fosse tutto infangato, qual sono le cose terrene? Di più: e se quel centesimo fosse dato solo in prestito? Or, direbbe costei: “Immense ricchezze io godo e posseggo, e tu ardisci d’offrirmi questo vil centesimo, così fangoso e solo per poco tempo?”. Io credo che ritorcerebbe subito lo sguardo, e non accetterebbe il dono. Così fa l’anima che vive di fede riguardo alle cose terrene.
Ora, andiamo un’altra volta all’idea del cibo; il corpo, prendendo il cibo, non solo si sostiene, ma partecipa della sostanza del cibo che si trasforma collo[3] stesso corpo. Ora, così l’anima che vive di fede; siccome la fede è Dio stesso, l’anima viene a vivere dello stesso Dio, e cibandosi dello stesso Dio viene a partecipare della sostanza di Dio e, partecipando, viene ad assomigliarsi a lui e a trasformarsi collo[4] stesso Dio. Quindi, avviene all’anima che vive di fede, che: santo Iddio, santa l’ani­ma; potente Iddio, potente l’anima; sapiente, forte, giusto, Iddio, sapiente, forte, giusta, l’anima; e così di tutti gli altri attributi di Dio. Insomma, l’anima diviene un piccolo Dio. Oh, la beatitudine di quest’anima sulla terra, per essere poi più beata nel cielo!
Compresi ancora [che] non altro significano quelle parole che il Signore dice alle anime sue dilette, cioè: “Ti sposerò nella fede”, che il Signore in questo mistico sposalizio viene a dotare le anime delle sue stesse virtù. Mi sembra come due sposi, che unendo le loro proprietà insieme, non si discerne più la roba dell’uno e dell’altra, e ambedue si rendono padroni. Ma nel fatto nostro, l’ani­ma è povera, tutto il bene è da parte del Signore, che la rende partecipe delle sue sostanze.
Vita dell’anima è Dio, la fede è Dio; e l’anima, possedendo la fede, viene ad innestare in sé tutte le altre virtù, di modo che essa[5] se ne sta come re nel cuore e le altre se ne stanno d’intorno come suddite, servendo alla fede; sicché le stesse virtù, senza la fede, sono virtù che non hanno vita. Pare a me che Iddio in due modi comunica la fede all’uomo. La prima è nel santo battesimo. La seconda è quando Iddio benedetto, spiccando una particella della sua sostanza nell’anima, le comunica le virtù di far miracoli, come poter risorgere i morti, sanare gl’infermi, arrestare il sole ed altro. Oh, se il mondo avesse fede, si cambierebbe in un paradiso terrestre! Oh, quanto alto e sublime è il volo dell’anima che si esercita nella fede! A me sembra che l’anima, esercitandosi nella fede, fa come quei timidi uccelletti che, temendo di essere presi dai cacciatori oppure da qualche altra insidia, fanno la loro dimora sulle cime degli alberi, oppure sulle alture; quando poi son costretti a prendere il cibo, scendono, prendono il cibo, e subito se ne volano nella loro dimora; e qualcuno più accorto prende il cibo e neppure se lo mangia sul terreno, per essere più sicuro se lo porta sulle cime degli alberi e là se lo inghiotte. Così l’anima che vive di fede: è tanto timida delle cose terrene che, per paura di essere insidiata, neppure le degna d’uno sguardo. La sua dimora è in alto, cioè sopra tutte le cose della terra, e specialmente nelle piaghe di Gesù Cristo, e da dentro quelle beate stanze, geme, piange, prega e soffre insieme col suo sposo Gesù, sulla condizione e miseria in cui giace il genere umano. Mentre essa vive in quei forami delle piaghe di Gesù, il Signore le dà una particella delle sue virtù, e l’anima si sente in sé quelle virtù come se fossero sue; ma però avverte che, sebbene se le vede sue, il possesso che le viene dato, è stato comunicato dal Signore. Succede come ad una persona che ha ricevuto un dono che essa non possedeva; ora, che fa? Se lo prende e se ne rende padrona, ma ogniqualvolta lo guarda, dice fra sé: “Questo è mio, però mi fu donato da quel tale”.
Così fa l’anima cui il Signore, spiccando da sé una particella del suo Essere Divino, la trasmuta in se stesso. Or, quest’anima, oh! Come aborrisce il peccato, ma insieme compatisce gli altri, prega per chi vede che cammina nella via del precipizio, si unisce insieme con Gesù Cristo e si offre vittima a soffrire per placare la divina giustizia e per risparmiare le creature dai meritati castighi. E se fosse necessario il sacrificio della vita, oh, quanto volentieri lo farebbe per la salvezza [anche] di un’anima sola!
Avendomi detto il confessore che io gli spiegassi come veggo la divinità di Nostro Signore qualche volta, io gli risposi che era impossibile sapergli dir nulla; ma la notte mi apparve il benedetto Gesù, e quasi mi rimproverò di questo mio diniego; ed allora mi fece balenare come due raggi luminosissimi. Col primo compresi nel mio intelletto che la fede è Dio e Dio è la fede; mi son provata a dire qualche cosa sulla fede, proverò [ora] a dire come veggo Iddio, e questo fu il secondo raggio.
Ora, mentre mi trovo fuori di me stessa e trovandomi nell’alto dei cieli, mi è parso di vedere Dio dentro a una luce, ed egli stesso pareva anche luce; ed in questa luce si trovava bellezza, fortezza, sapienza, immensità, altezza, profondità, senza termini e confini; sicché pure nel­l’aria che respiriamo vi è Dio, è Dio stesso che si respira; sicché ognuno lo può fare come vita propria, come lo è infatti. Sicché nessuna cosa gli sfugge e nessuno lo può sfuggire. Questa luce pare che sia tutta voce, senza che parla; tutta operante, mentre sempre riposa; si trova da per tutto, senza niente ingombrare; e mentre si trova da per tutto, tiene anche il suo centro. Oh Dio, quanto sei incomprensibile! Ti veggo, ti sento, sei la mia vita, ti restringi in me, mentre resti sempre immenso e niente perdi di te; eppure mi sento balbuziente e mi pare di non saperne dire nulla.
Per potermi spiegare meglio, secondo il nostro umano linguaggio, dirò che veggo un’ombra di Dio in tutto il creato; perché in tutto il creato, dove ha gettato l’ombra della sua bellezza, dove i suoi profumi, dove la sua luce, come nel sole, [nel quale] io veggo un’ombra speciale di Dio. Lo veggo come adombrato in questo pianeta, come re di tutti gli altri pianeti.
Che cosa è il sole? Non è altro che un globo di fuoco; uno è il globo, ma molti sono i raggi, di modo che noi possiamo comprendere facilmente, il[6] globo, Iddio, e dai raggi, gli immensi attributi di Dio.
Secondo: il sole è fuoco, ma insieme è luce ed è calore, quindi la Santissima Trinità è adombrata nel sole; il fuoco è il Padre, la luce è il Figlio, il calore è lo Spirito Santo, ma uno è il sole; e come non si può dividere il fuoco dalla luce e dal calore, così una è la potenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che fra loro non si possono realmente separare. Come il fuoco nello stesso istante produce la luce ed il calore, sicché non si può concepire il fuoco senza concepirsi anche la luce ed il calore, così non si può concepire il Padre prima del Figlio e dello Spirito Santo, e così, vicendevolmente hanno tutti e Tre lo stesso principio eterno.
Aggiungo che la luce del sole si spande ovunque; così Iddio, con la sua immensità, dovunque penetra; però ricordiamoci che questo non è che un’ombra, perché il sole non giunge dove non può penetrare con la sua luce, ma Dio penetra dovunque. È spirito purissimo Iddio, e noi lo possiamo raffigurare nel sole che fa penetrare i suoi raggi dovunque, e senza che nessuno li possa prendere fra le mani; di più: Dio guarda tutto, le iniquità, le nefandezze degli uomini, e lui resta sempre quello che è, puro, santo, immacolato. Ombra di Dio è il sole, che manda la sua luce sulle immondezze e resta immacolato; nel fuoco, spande la sua luce e non si arde; nel mare, nei fiumi, e non si affoga; dà luce a tutti e feconda tutto; dà vita a tutto col suo calore e non si ammiserisce di luce, né niente perde del suo calore; e molto più, fa tanto bene a tutti e lui di nessuno fa bisogno, e resta sempre quello che è: maestoso, risplendente, senza mai mutarsi.
Oh, come si ravvisano bene nel sole le qualità divine! Con la sua immensità si trova nel fuoco e non si arde; nel mare e non si affoga; sotto dei nostri piedi e non [lo] si calpesta; dà a tutti e non si ammiserisce, e di nessuno fa bisogno; guarda tutto, anzi è tutt’occhi e non c’è cosa che non sente, è a giorno d’ogni fibra del nostro cuore, d’ogni pensiero della nostra mente. Ed essendo spirito purissimo, non ha né orecchie né occhi, e per qualunque successo non mai si muta. Il sole, investendo il mondo con la sua luce, non si affatica; così Iddio, dando vita a tutti, aiutando e reggendo il mondo non si affatica. Per non godere più, l’uomo, la luce del sole ed i suoi benefici influssi, può nascondersi, può mettere ripari, ma al sole nulla fa, [il sole] rimane quello che è; il male cadrà tutto sopra dell’uomo. Così, col peccato può allontanarsi da Dio e non godere più i suoi benefici influssi, ma a Dio nulla gli fa, il male è tutto suo.
Anche la rotondità del sole mi simboleggia l’eternità di Dio, che non ha né principio né fine. La stessa luce penetrante del sole, che nessuno può restringere nel suo occhio, che se alcuno volesse fissarlo nel suo pieno meriggio resterebbe abbagliato, e se il sole si volesse avvicinare all’uomo, l’uomo ne resterebbe incenerito, così del sol Divino: nessuna mente creata può restringerlo nella sua piccola mente, per comprenderlo in tutto quello che è; e se volesse sforzarsi, ne resterebbe abbagliato e confuso; e se questo sole Divino volesse sfoggiare tutto il suo amore, facendolo sentire [all’uomo] mentre è in carne mortale, l’uomo ne resterebbe incenerito. Onde [Dio] ha gettato un’ombra di sé e delle sue perfezioni su tutto il creato, sicché pare [che] lo vediamo e tocchiamo e ne restiamo toccati continuamente.
Oltre di ciò, dopo che il Signore disse quelle parole: “La fede è Dio”, io gli dissi: “Gesù, mi vuoi bene?”.
E lui ha soggiunto: “E tu mi vuoi bene?”.
Io subito ho detto: “Sì, Signore e voi lo sapete che senza di voi mi sento mancare la vita”.
“Ebbene ‑ ha ripreso Gesù ‑ tu mi vuoi bene, io pure; quindi amiamoci e stiamoci sempre insieme”.
Così è finito per questa mattina. Ora, chi può dire quanto la mia mente ha compreso di questo sole divino? Mi pare di vederlo e di toccarlo ovunque, anzi mi sento investita dentro e fuori di me stessa; ma la mia capacità è piccina; mentre pare che comprenda qualche cosa di Dio, al vederlo pare che non ho compreso niente, anzi di avere spropositato; spero che Gesù perdoni i miei spropositi.
Marzo 10, 1899  (2)
Gesù le mostra molti castighi.
Stando nel mio solito stato, si è fatto vedere il mio sempre amabile Gesù tutto amareggiato ed afflitto, e mi ha detto: “Figlia mia, la mia giustizia si è troppo appesantita, e son tante le offese che mi fanno gli uomini, che non posso più sostenerle. Quindi la falce della morte sta per mietere molti, e all’improvviso, e di malattie; e poi sono tanti i castighi che verserò sul mondo, che saranno una specie di giudizio”.
Chi può dire i tanti castighi che mi ha fatto vedere, ed il modo con cui io sono stata atterrita e spaventata? L’animo mio, è tanta la pena che sente, che credo meglio passarlo in silenzio; riprendo a dire, ché l’ubbidien­za non vuole. Quindi mi pareva di vedere le strade piene di carni umane ed il sangue che inondava il terreno; città assediate da nemici, che non risparmiavano neppure i bambini; [i nemici] mi parevano come tante furie uscite dall’inferno, non rispettando né chiese né sacerdoti. Il Signore pareva che mandava un castigo dal cielo; qual sia non so dire; solo mi pareva che tutti ricevevano un colpo mortale, e chi resterà vittima della morte e chi si rimetterà. Mi pareva pur di vedere le piante disseccate e tanti altri mali che devono venire sui raccolti. Oh Dio, che pena, vedere queste cose ed essere costretta a manifestarle!
Ah! Signore, placatevi; io spero che il tuo sangue e le tue piaghe saranno il nostro rimedio; oppure versateli[7] sopra di questa peccatrice, che ne son meritevole, altrimenti prendetemi, che allora sarete libero di fare ciò che volete; ma finché vivrò, farò quanto posso per oppormi”.
Marzo 13, 1899  (3)
Gesù le mostra come la carità non è altro che lo sbocco dell’Essere Divino.
Questa mattina il diletto Gesù non si faceva vedere, secondo il solito, tutto affabilità e dolcezza, ma severo. La mia mente me la sentivo in un mare di confusione e l’anima mia tanto afflitta ed annichilita, specialmente per i castighi visti nei giorni passati. Vedendolo in quel­l’aspetto, non ardivo dirgli niente; ci guardavamo, ma in silenzio. Oh Dio, che pena!
Quando in un momento ho visto anche il confessore; e Gesù, mandando un raggio di luce intellettuale, ha detto queste parole: “Carità; la carità non è altro che uno sbocco dell’Essere Divino, e questo sbocco l’ho diffuso in tutto il creato, di modo che tutto il creato parla del­l’amore che porto all’uomo, e tutto il creato insegna il modo come deve amarmi, cominciando dall’essere più grande fino al più piccolo fiorellino del campo”.
“Vedi — dice all’uomo [il piccolo fiorellino del campo] — col mio soave odore e collo starmi sempre rivolto al cielo, cerco di mandare un omaggio al Creatore; anche tu fa che tutte le tue azioni siano odorose, sante, pure; non fare che col cattivo odore delle tue azioni [tu] offenda il Creatore. Deh! O uomo — ci ripete il fiorellino — non essere così insensato da tener l’occhio fisso alla terra, ma alzalo al cielo; vedi, lassù è il tuo destino, la tua patria, lassù è il mio e tuo Creatore che ti aspetta”.
L’acqua che continuamente scorre sotto dei nostri occhi, ci dice ancora: “Vedi, dalle tenebre sono uscita, e tanto devo scorrere e correre, fin quando che giungerò a seppellirmi nel luogo donde uscii. Anche tu, o uomo, corri, ma corri nel seno di Dio, da dove uscisti. Deh! Ti prego, non correre le vie storte, le vie che menano al precipizio, altrimenti guai a te”.
Anche le bestie più selvatiche ci ripetono: “Vedi, o uomo, come devi essere selvatico per tutto ciò che non è Dio; vedi, quando noi vediamo che qualcuno si avvicina a noi, coi nostri ruggiti mettiamo tanto spavento che nessuno ardisce d’avvicinarsi più e disturbare la nostra solitudine. Anche tu, quando il lezzo delle cose terrene, ossia le tue passioni violente, stanno per farti infangare e farti cadere nel precipizio delle colpe, coi ruggiti della tua preghiera e col ritirarti dalle occasioni in cui ti trovi, sarai salvo da ogni pericolo”.
Così di tutti gli altri esseri, che dirli tutti sarebbe troppo lungo. Ad unanime voce risuonano fra loro e ci ripetono: “Vedi, o uomo, per amor tuo ci ha creato il nostro Creatore e tutti a tuo servizio  stiamo, e tu non essere tanto ingrato; ama, ti prego[8], ama, ti ripeto, ama il nostro Creatore”.
Dopo di ciò, il mio amabile Gesù mi disse: “Questo è il tutto che voglio: amar Dio ed il prossimo per amor mio. Vedi quanto ho amato l’uomo, ed esso è tanto ingrato; come vuoi tu che non lo castighi?”.
Nell’atto stesso mi parve di vedere una grandine terribile ed un terremoto che deve fare notabile danno, fino a distruggere le piante e gli uomini. Allora con tutta l’amarezza dell’animo mio gli ho detto: “Mio sempre amabile Gesù, perché sei tanto adesso sdegnato? Se l’uomo è ingrato, non è tanta la malizia, quanto la debolezza. Oh, se vi conoscessero un poco, oh, come starebbero umili e palpitanti! Perciò placatevi. Almeno vi raccomando Corato e quelli che a me appartengono”.
Nell’atto di dire così, mi pareva che anche a Corato doveva succedere qualche cosa; a confronto di quello che succederà negli altri paesi, sarà niente.
Marzo 14, 1899  (4)
Gesù le mostra altri castighi, si ritira nel suo cuore e piange la sorte delle creature. Lei consola Gesù e piange con lui. Continua a veder Gesù ritirato nel suo cuore.
Questa mattina il dolcissimo mio Gesù, trasportandomi insieme con lui, mi faceva vedere la molteplicità dei peccati che si commettono, ed erano tali e tanti, che è impossibile descriverli. Vedevo pure nell’aria una stella di smisurata grandezza, e nella sua rotondità conteneva fuoco nero e sangue; incuteva tale timore e spavento nel guardarla, che pareva che fosse minor male la morte, che vivere in tempi sì tristi. In altri luoghi si vedevano i vulcani, che aprendo altre bocche dovevano inondare anche i paesi vicini; si vedeva pure gente settari[a], che andavano procurando gl’incendi.
Mentre io vedevo, il mio amabile ma afflitto Gesù mi disse: “Hai visto quanto mi offendono, e quello che tengo preparato? Io mi ritiro dall’uomo”.
E mentre ciò diceva, ci ritirammo tutti e due nel letto, e vedevo che in questo ritiramento di Gesù, gli uomini si davano a fare più brutte azioni, più omicidi; in una parola, mi pareva di vedere gente contro gente. Quando ci fummo ritirati, Gesù pareva che si metteva nel mio cuore ed incominciò a piangere e singhiozzare, dicendo: “Oh uomo, quanto ti ho amato! Se tu sapessi quanto mi duole il doverti castigare! Ma a ciò mi obbliga la mia giustizia. Oh uomo! Oh uomo, quanto piango e mi duole la tua sorte!”.
Poi dava sfogo al pianto, e di nuovo ripeteva le parole. Chi può dire la pena, la paura, lo strazio che si faceva nell’animo, specialmente nel vedere Gesù così afflitto e piangente? Facevo quanto più potevo a nascondere il mio dolore per consolarlo, e gli dicevo: “Oh Signore, non sarà mai che castighiate gli uomini! Sposo santo, non piangete! Come avete fatto altre volte, così farete adesso; verserete in me, farete a me soffrire, e così la vostra giustizia non vi affliggerà a[9] castigare le genti”.
E Gesù continuava a piangere, ed io ripetevo: “Ma statemi a sentire un poco; non mi avete messo in questo letto perché fossi vittima per gli altri? Forse non sono stata pronta a soffrire le altre volte per far risparmiare le creature? Perché adesso non volete darmi retta?”.
Ma con tutto il mio povero dire, Gesù non s’acquie­tava dal piangere. Allora, non potendo più resistere, an­ch’io ruppi il freno al pianto, dicendogli: “Signore, se la vostra intenzione è di castigare gli uomini, anche a me non mi regge l’animo di vedere tanto soffrire le creature; perciò, se veramente volete mandare i flagelli, ed i miei peccati non mi fanno più meritare di soffrire, io invece degli altri, me ne voglio venire, non voglio più stare in questa terra”.
Poi è venuto il confessore ed essendo stata chiamata all’ubbidienza, Gesù si è ritirato, e così tutto è finito.
La seguente mattina, continuavo a vedere Gesù nel mio cuore, ritirato, e vedevo che le persone fin dentro il mio cuore venivano e lo calpestavano, lo mettevano sotto i piedi. Io facevo quanto più potevo per liberarlo; e Gesù, rivolto a me, mi ha detto: “Vedi fin dove giunge l’ingratitudine degli uomini? Loro stessi mi costringono a castigarli, senza che possa fare di­versamente. E tu, mia cara, dopo che hai visto me tanto soffrire, ti siano più care le croci e delizie le pene”.
Marzo 18, 1899  (5)
Gesù mostra quanto gli è cara la carità.
Questa mattina seguitava ancora il mio diletto Gesù a farsi vedere dentro il cuore mio e, vedendolo un poco più carino, fecimi coraggio e incominciai a pregarlo, che non mandasse tanti castighi. E Gesù mi disse: “Che ti muove, o mia figlia, a pregarmi che non castighi le creature?”.
Io subito risposi: “Perché sono tue immagini e, dovendo le creature soffrire, verresti tu stesso a soffrire”.
Allora Gesù, mandando un sospiro, mi disse: “Mi è tanto cara la carità, che tu non puoi comprenderlo. La carità è semplice come l’Essere mio che, sebbene è immenso, è pure semplicissimo, tanto che non c’è parte in cui non vi penetri. Così la carità, essendo semplice, si diffonde dappertutto, non ha riguardo di nessuno, amico o nemico, cittadino o forestiero, tutti ama”.
Marzo 19, 1899  (6)
Timori delle insidie diaboliche. Gesù la tranquillizza.
Questa mattina, Gesù, mentre si faceva vedere, io temevo ancora non fosse veramente Gesù, ma il demonio che mi volesse illudere.
Dopo che ho fatto le solite proteste, Gesù mi ha detto: “Figlia, non temere, che non sono il demonio; e poi, quello, se parla delle virtù, è una virtù scolorita, non vera virtù, né ha virtù d’infonderla nell’anima, ma di solamente di parlarne; e se qualche volta mostra di voler far praticare qualche poco di bene, non è [un bene] perseverante, e nell’atto stesso che l’anima fa quel poco di bene, l’anima è fiacca ed agitata. Solo io ho la potenza d’infondermi nel cuore e di far praticare le virtù e di far soffrire con coraggio e tranquillità e con perseveranza; e poi, quando mai il demonio è andato in cerca di virtù? La sua caccia sono i vizi. Perciò non temere, stai tranquilla”.
Marzo 20, 1899  (7)
Gesù le versa le sue amarezze e le mostra la causa dei mali del mondo.
Questa mattina Gesù mi ha trasportata fuori di me stessa, e mi ha fatto vedere molta gente, tutta in discordia. Oh, quanta pena faceva a Gesù! Io, vedendolo molto soffrire, l’ho pregato che versasse in me, ma siccome continuava ancora che voleva castigare il mondo, Gesù non voleva versare in me; ma dopo averlo pregato e ripregato, per contentarmi, ha versato un poco.
Indi, essendosi sollevato un poco, mi ha detto: “La causa che[10] il mondo si è ridotto in questo triste stato, è d’aver perduta la subordinazione ai capi; e siccome il primo capo è Dio, a cui [gli uomini] si sono ribellati, di conseguenza è avvenuto che hanno perduta ogni soggezione e dipendenza alla Chiesa, alle leggi ed a tutti gli altri che si dicono capi. Ah! Figlia mia, che sarà di tanti membri infetti da questo malo esempio, dato da quegli stessi che si dicono capi, cioè da superiori, da genitori e da tanti altri? Ah, giungeranno a tanto che non si conosceranno più, né genitori, né fratelli, né re, né principi; questi membri saranno come tante vipere che a vicenda si avveleneranno. Perciò, vedi quanto sono necessari i castighi in questi tempi, e che la morte quasi distrugga questa razza di gente, affinché quei pochi che rimarranno imparino a spese altrui ad essere umili ed obbedienti; onde lasciami fare, non volerti opporre a farmi castigare le genti”.
Marzo 31, 1899  (8)
Gesù le mostra la preziosità della croce.
Questa mattina il mio adorabile Gesù si faceva vedere crocifisso, e dopo d’avermi comunicato le sue pene mi ha detto: “Molte sono le piaghe che mi fecero soffrire nella mia passione, ma una fu la croce; ciò significa che molte sono le strade con cui attiro le anime alla perfezione, ma uno è il cielo, in cui queste anime devono unirsi, sicché, sbagliato quel cielo, non c’è alcun altro che possa renderle beate per sempre”.
Poi ha soggiunto: “Guarda un poco: una è la croce, ma di vari legni fu formata detta croce; ciò vuol dire che uno è il cielo, ma vari posti che questo cielo contiene, più o meno gloriosi, ed a misura delle sofferenze sofferte quaggiù, più o meno pesanti, saranno distribuiti i posti. Oh! Se tutti conoscessero la preziosità del patire, farebbero a gara a chi più volesse patire, ma questa scienza, dal mondo, non viene conosciuta; perciò aborriscono ciò che può renderli più ricchi in eterno”.
Aprile 1899  (9)
Gesù le si mostra adombrato e poi le parla della piccola pianta dell’umiltà.
Dopo aver passati parecchi giorni di privazione e di lacrime, io mi trovavo tutta confusa ed annientata in me stessa; nel mio interno andavo dicendo continuamente: “Dimmi o mio bene, perché ti sei da me allontanato? Dove ti ho offeso, che non ti fai più vedere, e se ti mostri è quasi adombrato e in silenzio? Deh, non farmi più aspettare, che il mio cuore non ne può più!”.
Finalmente Gesù si è mostrato un po’ più chiaro, e vedendomi così annientata mi ha detto: “Se tu sapessi quanto mi piace l’umiltà! L’umiltà è la pianta più piccola che si potesse trovare, ma i suoi rami sono così alti che giungono fino al cielo, serpeggiano intorno al mio trono e penetrano fin dentro il mio cuore. La piccola pianta è l’umiltà, i rami che somministra questa pianta è la confidenza, sicché non si può dare[11] vera umiltà senza confidenza. L’umiltà senza confidenza è virtù falsa”.
Dalle parole del mio Gesù si vede che il mio cuore, non solo era annientato, ma pure un poco scoraggiato.
Aprile 5, 1899  (10)
Gesù la tiene adombrata nel suo amore.
L’animo mio continuava nel suo annientamento e con timore di perdere il dolce Gesù, quando, in un istante, di botto si è fatto vedere e mi ha detto: “Ti tengo nell’om­bra della mia carità; onde, siccome l’ombra penetra per ogni dove, con il mio amore ti tiene adombrata dappertutto ed in tutto. Di che temi adunque? E come posso io lasciarti, mentre ti tengo così inabissata nel mio amore?”.
Mentre Gesù così diceva, io volevo dirgli perché non si faceva vedere secondo il suo solito, ma Gesù subito mi è scomparso e non mi ha dato tempo di dirgli neppure una parola. Oh Dio, che pena!
Aprile 7, 1899  (11)
Aspetta, con ansia e pianto, Gesù, che poi le si mostra e la invita a baciare le sue piaghe.
Continua lo stesso stato, ma specialmente questa mattina l’ho passata amarissima; avevo perduta quasi la speranza che Gesù venisse. Oh, quante lagrime ho dovuto versare! Era proprio l’ultima ora e Gesù non ci veniva ancora! Oh Dio, che fare? Il mio cuore era in tanto forte dolore ed in continuo palpitare, tanto sì fortemente, che mi sentivo in agonia mortale.
Nel mio interno gli dicevo: “Mio buon Gesù, non vedi pur tu stesso che mi sento mancare la vita? Dimmi almeno, come si può fare a stare senza di te? Come si può vivere? Sebbene sono ingrata a tante grazie, eppure ti amo, giacché ti offro questa pena amarissima della vostra assenza per ripararti la mia ingratitudine; ma vieni, abbi, Gesù, pazienza. Sei sì buono, non farmi più aspettare, vieni. Ah, non sai pur tu stesso che crudel tiranno è l’amore? Che, non hai compassione di me?”.
Mentre stavo in questo stato sì doloroso, Gesù è venuto, e tutto compassione mi ha detto: “Ecco che son venuto; non più piangere, vieni a me”.
In un istante mi son trovata fuori di me stessa, insieme con lui, ed io lo guardavo, ma col timore che di nuovo lo perdessi, che a larga vena mi scorrevano le lacrime dagli occhi. Gesù ha continuato a dirmi: “No, non piangere più, vedi un poco quanto sto a soffrire; guardami la testa, le spine son penetrate tanto dentro che non più compariscono fuori. Vedi quanti squarci e sangue coprono il mio corpo? Avvicinati, dammi un ristoro”.
Occupandomi delle pene di Gesù, ho dimenticato un poco le mie, e così ho incominciato dal capo. Oh, quanto era straziante vedere quelle spine, così incarnate dentro, che appena si potevano tirare! Mentre io ciò facevo, Gesù si lamentava, tant’era il dolore che soffriva. Dopo che ho tirato[12] quella corona di spine, tutta spezzata, l’ho riunita insieme, e conoscendo che il maggior piacere che si possa dare a Gesù è il patire per lui, l’ho presa e l’ho conficcata sulla mia testa. Poi, una per una si è fatto baciare le piaghe, ed in qualche piaga voleva che succhiassi il sangue. Io cercavo di fare tutto ciò che lui voleva, ma in muto silenzio, quando si è presentata la Vergine Santissima e mi ha detto: “Domanda a Gesù che cosa vuol fare di te”.
Io non ardivo, ma la Mamma m’incitava a farlo. Per contentarla, ho avvicinato le labbra all’orecchio di Gesù, e zitto zitto[13] gli ho detto: “Che cosa vuoi fare di me?”.
E lui ha risposto: “Voglio fare di te un oggetto delle mie compiacenze”.
E nell’atto stesso di dire queste parole è scomparso ed io mi son trovata in me stessa.
Aprile 9, 1899  (12)
Gesù la trasporta in Chiesa e se la tiene in sua compagnia nella custodia.
Questa mattina Gesù si è fatto vedere e mi ha trasportato dentro di una chiesa; là ho sentito la S. Messa e ho fatto la comunione dalle mani di Gesù. Dopo ciò mi sono abbracciata ai piedi di lui, sì fortemente che non potevo distaccarmene. Il pensiero delle pene dei giorni passati, cioè della privazione di Gesù, mi faceva tanto temere che di nuovo lo perdessi, che stando ai suoi piedi piangevo e gli dicevo: “Questa volta, o Gesù, non ti lascerò più, perché tu, quando te ne vai da me, mi fai tanto penare ed aspettare”.
Gesù mi disse: “Vieni fra le mie braccia, che voglio ristorarti delle pene che passasti in questi giorni”.
Io quasi non ardivo di farlo, ma Gesù stese le mani e mi prese sui piedi[14], mi abbracciò e mi disse: “Non temere, che non ti lascio; questa mattina voglio contentarti, vieni a starti con me nella custodia”.
E così ci ritirammo tutti e due nella custodia. Chi può dire ciò che facemmo? Ora mi baciava ed io a lui; ora io mi riposavo in lui e Gesù in me; ora vedevo le offese che riceveva, ed io facevo atti di riparazione contro le diverse offese. Chi può dire la pazienza di Gesù nel sacramento? È tale e tanta, che mette terrore solo a pensarla. Ma mentre stavo ciò facendo, Gesù mi ha fatto vedere il confessore che veniva a chiamarmi in me stessa; Gesù mi ha detto: “Basta adesso, va, che l’ubbidienza ti chiama!”.
E così pareva che l’anima tornasse al corpo, e di fatto il confessore mi chiamava all’ubbidienza.
Aprile 12, 1899  (13)
Gesù trova in lei il suo tabernacolo, e mostra il suo dolore per le sante messe sacrileghe e le ipocrisie.
Quest’oggi, senza farmi tanto aspettare, Gesù è venuto subito e mi ha detto: “Tu sei il mio tabernacolo; tanto è per me stare nel sacramento, quanto nel tuo cuore; anzi, in te ci trovo un’altra cosa di più, che è il poterti partecipare le mie pene ed averti insieme con me, vittima vivente innanzi alla divina giustizia, ciò che non trovo nel sacramento”.
E mentre diceva queste parole si è rinchiuso dentro di me. Stando dentro di me, Gesù mi faceva sentire, ora le punture delle spine, ora i dolori della croce, gli affanni e le sofferenze del cuore. Intorno al suo cuore vedevo un intreccio di punture[15] di ferro, che lo facevano soffrire molto a Gesù. Ah, quanta pena mi faceva, vederlo tanto soffrire! Avrei voluto io tutto soffrire, anziché far soffrire il mio dolce Gesù, e di cuore l’ho pregato che a me desse le pene, a me il patire.
Gesù mi ha detto: “Figlia, le offese che più trafiggono il mio cuore sono le messe sacrilegamente dette e le ipocrisie”.
Chi può dire quello che compresi in queste due parole? A me più[16] pareva che esternamente si fa vedere che si ama, si loda il Signore, internamente si ha il veleno pronto per ucciderlo; esternamente si fa vedere che si vuole la gloria, l’onore di Dio, internamente si cerca l’onore, la stima propria. Tutte le opere fatte con ipocrisia, anche [le] più sante, sono opere tutte avvelenate, che amareggiano il cuore di Gesù.
Aprile 16, 1899  (14)
Gesù la conduce in chiesa e le mostra come viene trattato dalle anime a lui consacrate.
Stando nel mio solito stato, Gesù mi ha invitato a girare per vedere che cosa facevano le creature. Io gli ho detto: “Mio adorabile Gesù, stamane non ci ho voglia di girare e di vedere le offese che ti fanno; stiamoci qui, tutti e due insieme”.
Ma Gesù insisteva che voleva girare; allora, per contentarlo, gli ho detto: “Se vuoi uscire, andiamo piuttosto dentro di qualche chiesa, che là son più poche le offese che vi fanno”.
E così siamo andati dentro ad una chiesa, ma anche là era offeso più che in altri luoghi; non perché nelle chiese si fanno più peccati che nel mondo, ma perché sono offese fatte dai suoi più cari, e da quegli stessi che dovrebbero mettere anima e corpo per difendere l’onore e la gloria di Dio; perciò giungono più dolorose al suo cuore adorabile. Quindi vedevo anime devote, che per bagattelle da niente non si preparavano bene alla comunione; la loro mente, invece di pensare a Gesù, pensava ai loro piccoli disturbi, a tante cose da niente, e questo era il loro apparecchio. Quanta pena facevano queste tali a Gesù, e quanta compassione facevano loro stesse, che badavano a tante pagliuzze, a tante frasche, ed intanto, poi, non benignavano d’uno sguardo a Gesù!
Gesù mi disse: “Figlia mia, quanto impediscono queste anime che la grazia si versi in loro; io non guardo alle minutezze, ma all’amore con cui si accostano, e loro me ne fanno un cambio, più badano[17] alle paglie che al­l’amore; anzi, l’amore distrugge le paglie, ma con molte paglie non si accresce un tantino d’amore, anzi lo si diminuisce. Ma quel ch’è peggio, queste anime che si disturbano tanto, ci perdono molto tempo; vorrebbero stare coi confessori le ore intere per dire tutte queste minutezze, ma mai mettono mano all’opera con una buona e coraggiosa risoluzione per svellere queste paglie. Che dirti poi, o figlia mia, di certi sacerdoti di questi tempi? Si può dire che operano quasi satanicamente, giungendo a farsi idolo delle anime. Ah, sì, dai miei figli il mio cuore viene più trafitto, perché se più gli altri mi offendono, offendono le parti del mio corpo, ma i miei mi offendono le parti più sensibili e tenere, fino nell’intimo del cuore”.
Chi può dire lo strazio di Gesù? Nel dire queste parole piangeva amaramente. Io feci quanto più potevo per compatirlo, ma mentre ciò facevo, ci ritirammo insieme con Gesù sulla croce.
Aprile 21, 1899  (15)
Gesù le appare sotto la forma di un ragazzo povero e le chiede di rimanere con lei.
Questa mattina, stando nel mio solito stato, in un momento mi son trovata in me stessa, ma però senza potermi muovere, quando ho inteso che qualcuno entrava nella mia stanzetta, e dopo ha chiuso di nuovo la porta ed ho sentito che si avvicinava al mio letto. Nella mia mente, pensavo che qualcuno fosse entrato furtivamente, senza che nessuno della famiglia lo avesse visto, e fosse penetrato fin dentro la mia stanzetta. Chi sa che cosa mi potrà fare? Era tanto il timore che mi son sentita gelare il sangue nelle vene, e tremavo tutta. “Oh Dio, che fare? ‑ dicevo tra me ‑ la famiglia non l’ha visto, io mi sento tutta intorpidita e non posso difendermi, né posso chiamare aiuto. Gesù, Maria, Mamma mia, aiutatemi! San Giuseppe, difendetemi da questo pericolo!”.
Quando ho inteso che saliva sopra del letto e si è rannicchiato vicino a me, è stato tanto il timore che ho aperto gli occhi e gli ho detto: “Dimmi, chi sei tu?”.
Costui ha risposto: “Io sono il povero dei poveri, non ho dove stare, son venuto da te, se mi vuoi tenere con te nella tua stanzetta; vedi, sono tanto povero che non ho neppure le vesti, ma tu ci penserai a tutto”.
Io lo guardai bene; era un ragazzo di cinque o sei anni, senza vesti, senza scarpe, sommamente bello e grazioso. Subito gli risposi: “Per me, volentieri ti avrei tenuto, ma che dirà il mio papà? Non è che sono persona libera, che posso fare quel che voglio; ho i miei genitori che lo impediscono. A vestirti, sì, lo posso fare con le mie povere fatiche; farò qualunque sacrifizio, ma a tenerti è impossibile. E poi, non tieni padre, non tieni madre, che non hai dove stare?”.
Ma il ragazzo amaramente rispose: “Non ho nessuno. Deh, non farmi più girare, fammi stare con te!”.
Io stessa non sapevo che fare, come tenerlo. Un pensiero mi balenò: chi sa che non è Gesù? Oppure sarà qualche demonio, per disturbarmi? Così di nuovo gli dissi: “Ma dimmi la verità, almeno, chi sei tu?”.
E lui ripetette: “Io sono il povero dei poveri”.
Io replicai: “Hai imparato a farti la croce?”.
“Sì”, rispose.
“Ebbene, fattela; voglio vedere come la fai! Ed egli si segnò con la croce.
Io soggiunsi: “E l’Ave Maria, la sai dire?”. “Sì, ma se vuoi che la dica, diciamola insieme”.
Io incominciai l’Ave Maria e lui diceva insieme, quando una luce purissima è spiccata dalla sua fronte adorabile ed ho conosciuto che il povero dei poveri era Gesù. In un momento, con quella luce che Gesù mi mandava, mi ha fatto di nuovo perdere i sensi e mi ha tirato fuori di me stessa. Io mi vedevo tutta confusa innanzi a Gesù, specialmente per le tante ripulse, e subito gli ho detto: “Carino mio, perdonami; se ti avessi conosciuto non ti avrei vietato l’ingresso. E poi, perché non me lo hai detto che eri proprio tu? Ho tante cose da dirti; te l’avrei detto[18], non avrei perduto il tempo in tante inutilità e timori. Poi, a tener te, non ho bisogno dei miei; posso tenerti liberamente, perché tu non ti fai vedere da nessuno”.
Ma mentre io dicevo, Gesù è scomparso, e così è finito, lasciandomi una pena per non avergli detto nulla di ciò che volevo dirgli.
Aprile 25, 1899  (16)
Gesù le mostra il conto che si deve fare delle lodi e dei disprezzi da parte delle creature.
Oggi ho fatto la meditazione sul danno che può venire alle anime nostre dalle lodi che ci danno le creature. Mentre facevo applicazione a me stessa per vedere se ci fosse in me il compiacimento delle lodi umane, Gesù si è avvicinato a me e mi ha detto:
“Quando il cuore è pieno del conoscimento di se stesso, le lodi degli uomini sono come quelle onde del mare che s’innalzano e rumoreggiano, ma mai escono dal loro lido; così le lodi umane strepitano, rumoreggiano, s’avvicinano fino al cuore, ma trovandolo pieno e ben cir­condato da forti mura del conoscimento di se stesso, quindi non avendo dove prendere posto, se ne ritornano indietro, senza fare nessun danno all’anima propria.
Perciò, a questo devi stare attenta, che delle lodi e dei disprezzi delle creature non ne devi fare nessun conto”.
Aprile 26, 1899  (17)
Gesù bacia il suo[19] confessore e le parla del valore del distacco dalle creature.
Mentre quest’oggi il mio amante Gesù si faceva vedere, mi pareva che mi mandava tanti lampi di luce che tutta mi penetravano, quando, in un istante, mi sono trovata fuori di me stessa ed insieme si è trovato il confessore. Io subito ho pregato il mio diletto Gesù che desse un bacio al confessore e che andasse un poco nelle braccia di lui (Gesù era bambino). Per contentarmi, subito ha baciato il confessore nel volto, ma senza vo-lersi da me distaccare. Io son rimasta tutta afflitta, dicendogli:
“Tesoretto mio, non era questa la mia intenzione, di farti baciare il volto, ma la bocca, acciocché toccata dalle tue purissime labbra restasse santificata e fortificata da quella debolezza[20], così potrà più liberamente annunziare la santa parola e santificare gli altri. Deh, ti prego di contentarmi!” Così Gesù ha dato un altro bacio alla bocca di lui e dopo ha detto:
“Son tanto a me gradite le anime distaccate da tutto, non solo nell’affetto, ma anche in effetto, che a misura che vanno spogliandosi, così la mia luce va investendole e divengono tali e quali come cristalli, che la luce del sole non trova impedimento a penetrarvi dentro, come la trova nelle fabbriche e nelle altre cose materiali. Ah ‑ disse poi ‑ credono di spogliarsi, ma invece vengono a vestirsi non solo delle cose spirituali, ma anche corporali, perché la mia provvidenza ha una cura tutta particolare e speciale per queste anime distaccate. La mia provvidenza le adombra dappertutto; succede che niente hanno, ma tutto posseggono”.
Dopo questo, ci ritirammo dal confessore e trovammo tante persone religiose che pareva che avevano tutta la mira a lavorare per fini d’interesse. Gesù passando in mezzo a loro disse: “Guai, guai a colui che lavora per fine d’acquistare monete! Già avete ricevuto in vita la vostra mercede”.
Maggio 2, 1899  (18)
Gesù le mostra come nella Chiesa sta adombrato il cielo. La esorta poi ad aver fiducia nel confessore.
Questa mattina Gesù faceva molta compassione; era tanto afflitto e sofferente che io non ardivo di fargli nessuna domanda. Ci guardavamo in silenzio, di tanto in tanto mi dava un bacio ed io a lui, e così ha seguitato parecchie volte a farsi vedere. L’ultima volta mi ha fatto vedere la Chiesa, dicendomi queste precise parole:
“Nella mia Chiesa sta adombrato tutto il cielo. Siccome[21] nel cielo uno è il capo, che è Dio, e molti sono i santi, di diverse condizioni, ordini e meriti, così nella mia Chiesa uno è il capo, qual è il Papa, e fin nel triregno che circonda il suo capo viene adombrata la Trinità Sacrosanta; e molte sono le membra che da questo capo dipendono, cioè diverse dignità, diversi ordini, superiori ed inferiori, dal più piccolo fino al più grande; tutti servono ad abbellire la mia Chiesa, ognuno secondo il suo grado ha l’ufficio a lui compartito. Con l’esatto adempimento delle virtù, viene a dare di sé nella mia Chiesa uno splendore odorosissimo, in modo che la terra e il cielo restano profumati ed illuminati, e le genti restano tanto attirate da questa luce e da questo profumo che riesce quasi impossibile non arrendersi alla verità. Lascio considerare a te poi quelle membra infette, che invece di rendere luce danno tenebre. Quanto strazio fanno nella mia Chiesa!”
Mentre Gesù così mi diceva, ho visto il confessore vicino a lui. Gesù col suo sguardo penetrante, fisso lo guardava, poi rivolto a me mi ha detto: “Voglio che [tu] abbia tutta la piena fiducia col confessore anche nelle minime cose, tanto che tra me e lui non ci deve essere differenza alcuna, che a misura della tua fiducia e della fede che presterai alle sue parole, così io vi concorrerò”.
Nell’atto che Gesù diceva queste parole, mi ricordai di certe tentazioni del demonio che avevano prodotto in me qualche poco di sfiducia; ma Gesù col suo occhio vigilante, subito mi ha ripresa e nell’atto stesso mi son sentita togliere da dentro il mio interno quella sfiducia. Sia sempre benedetto il Signore che ha tanta cura di quest’anima così miserabile e peccatrice.
Maggio 6, 1899  (19)
Cerca Gesù fra gli spiriti angelici, e Gesù mostra a questi il suo contento per lei.
Questa mattina Gesù stentatamente si è fatto vedere. La mia mente la sentivo tanto confusa che quasi non comprendevo la perdita di Gesù, quando mi son sentita circondata da tanti spiriti; forse erano angeli, ma non sono certa. Mentre mi trovavo in mezzo a questi, di tanto in tanto andavo indagando: chi sa potessi sentire almeno l’alito del mio diletto; ma per quanto facessi non avvertivo [da] niente che ci stesse l’amante mio bene, quando da dietro le spalle mi son sentita venire un alito dolce, subito ho gridato: “Gesù, mio Signore!”
Egli ha risposto: “Luisa, che vuoi?”
“Gesù mio bello, vieni, non stare da dietro[22] le spalle, che non posso vederti; sono stata tutta questa mattina ad aspettarti e ad indagare [se], chi sa ti potessi vedere in mezzo a questi spiriti angelici che circondano il letto, ma non mi è riuscito; quindi mi sentivo molto stanca, perché senza di te non posso trovare riposo. Vieni, che ci riposeremo insieme”.
Così Gesù si è messo a me vicino e mi sosteneva la testa. Quegli spiriti hanno detto: “Signore, come subito ti ha conosciuto! Niente meno, non alla voce, ma al solo alito subito ti ha chiamato”.
Gesù ha risposto a loro: “Lei conosce me ed io conosco lei; mi è tanto cara come mi è cara la pupilla degli occhi miei”.
E mentre così diceva mi son trovata negli occhi di Gesù. Chi può dire ciò che ho provato stando in quegli occhi purissimi? È impossibile manifestarlo a parole; gli stessi angeli ne son rimasti stupiti.
Maggio 7, 1899  (20)
Gesù le parla della retta intenzione e del vero amore del prossimo.
Mentre nel giorno ho fatto la meditazione, Gesù continuava a farsi vedere a me vicino, e mi ha detto: “La mia persona è circondata da tutte le opere che si fanno dalle anime, come da una veste; ed a misura della purità d’intenzione e dell’intensità dell’amore che[23] si fanno, così mi danno più splendore, ed io darò a loro più gloria, tanto che nel giorno del giudizio le mostrerò a tutto il mondo per far conoscere a tutto il mondo come mi hanno amato ed onorato i miei figli ed il modo come io onoro loro”.
Prendendo un’aria più afflitta ha soggiunto: “Figlia mia, che sarà di tante opere anche buone fatte senza retta intenzione, per usanza e per fine d’interesse? Quale vergogna non sarà di loro nel giorno del giudizio, nel vedere tante opere buone in sé stesse, ma marcite dalla loro intenzione, che invece di renderle[24] onore come a tante altre, le stesse loro azioni le[25] renderanno vergogna? Perché non sono le opere grandi che miro, ma l’intenzione con cui si fanno; qui è tutta la mia attenzione”.
Per poco Gesù ha fatto silenzio, ed io pensavo alle parole che aveva detto; mentre andavo ruminando nella mia mente, specialmente sulla purità dell’intenzione, e [su] come facendo il bene alle creature, le stesse devono scomparire facendo una la creatura con lo stesso Signore, e fare come se le creature non esistessero, Gesù ha ripreso il suo dire, dicendomi:
“Eppure così è; vedi, il mio cuore è larghissimo, ma la porta è strettissima. Nessuno può riempire il vuoto di questo cuore se non le anime distaccate, nude e semplici, perché come tu vedi, essendo la porta piccola, qualunque impedimento, anche minimo, cioè un’ombra d’attacco, un’intenzione storta, un’opera senza il fine di piacermi, impedisce che entrino a deliziarsi nel mio cuore. L’amore del prossimo, molto va nel mio cuore, ma deve essere tanto congiunto al mio, in modo che [ne] deve formare uno solo, senza potersi discernere uno dall’altro; ma quell’altro amore del prossimo che non è trasformato nel mio amore, io non lo guardo come cosa che a me appartiene”.
Maggio 9, 1899  (21)
Lamenti, domande e colloqui con Gesù, che la contenta e le partecipa i suoi patimenti.
Questa mattina mi trovavo in un mare d’afflizione per la perdita di Gesù. Dopo molto stentare Gesù è venuto e tanto si stringeva a me vicino che non potevo neppure vederlo. Giungeva a mettere la fronte sulla mia, il suo volto poggiava proprio sul mio, e così tutte le membra. Ora mentre Gesù stava in questa posizione gli ho detto: “Mio adorabile Gesù, non mi vuoi più bene?”
E lui: “Se non ti volevo bene, non mi stavo tanto a te vicino”.
Ed io ho ripreso: “Come mi dici che mi vuoi bene se non mi fai più soffrire come prima? Temo che non mi si vuole più in questo stato, almeno liberami pure dal fastidio del confessore”.
Mentre ciò dicevo pareva che Gesù non dava retta al mio dire e mi faceva vedere [una] moltitudine di gente che commetteva ogni specie di nefandezze, e Gesù sdegnato con loro faceva piombare in mezzo ad essi diverse specie di malattie contagiose, e molti morivano neri come carboni. Pareva che Gesù sterminasse dalla faccia della terra quella moltitudine di gente. Mentre io vedevo, ho pregato Gesù che versasse in me le sue amarezze, acciocché potesse risparmiare le genti, ma neppure mi dava retta a questo, e rispondendo alle parole che prima gli avevo detto ha soggiunto: “Il più gran castigo che posso dare a te, al sacerdote ed ai popoli è se ti liberassi da questo stato di sofferenze. La mia giustizia si sfogherebbe in tutto il suo furore, perché non troverebbe più alcuna opposizione. Tanto vero che il peggior male per uno è essere messo ad un ufficio e poi essere deposto; meglio per lui se non fosse stato ammesso a quell’uf­ficio, perché abusando e non profittando, se ne rende indegno”.
Poi Gesù ha seguitato a venire quest’oggi parecchie volte, ma tanto afflitto che moveva a pietà ed a lacrime forse le stesse pietre. Per quanto ho potuto cercavo di consolarlo, or me l’abbracciavo, or gli sostenevo la testa molto sofferente, or gli dicevo: “Cuor del mio cuore Gesù, non è stato mai tuo solito comparirmi così afflitto, se altre volte ti sei fatto vedere afflitto, col versare in me [le tue sofferenze], subito dopo hai cambiato aspetto, ma ora mi viene negato di darti questo sollievo. Chi doveva dirlo che dopo tanto tempo che ti sei benignato di versare e di farmi partecipe delle tue sofferenze e che tu stesso hai fatto tanto per dispormi, a quest’ora dovevo restarne priva? Era il patire per tuo amore l’unico mio sollievo, era il patire che mi faceva sopportare l’esilio dal cielo; ma adesso, mancandomi questo mi sento che non ho dove più appoggiarmi e mi viene a noia la vita. Deh, o sposo santo, amato bene, cara mia vita, deh, fammi tornare le pene, dammi il patire, non guardare la mia indegnità ed i miei gravi peccati, ma la tua grande misericordia che non è esaurita!”
Mentre in questo mi sfogavo con Gesù, avvicinandosi più a me mi ha detto: “Figlia mia, è la giustizia che vuole sfogarsi sulle creature. Il numero dei peccati negli uomini quasi è completo e la giustizia vuole uscire fuori per farsi pompa del suo furore e ripararsi delle ingiustizie degli uomini. Ecco, per farti vedere quanto sono amareggiato e per contentarti un po’ voglio versare il mio alito in te”.
E così, avvicinando le sue labbra alle mie mi mandava il suo respiro, che fu tanto amaro che mi sentivo intossicare la bocca, il cuore e tutta la persona. Se il solo suo alito era così amaro, che sarà del resto di Gesù? Mi ha lasciato tanto una pena che mi sentivo trafiggere il cuore.
Maggio 12, 1899  (22)
Gesù l'accontenta nei suoi desideri, le fa succhiare dal suo costato dolcezze ed amarezze e passa la giornata con lei.
Questa mattina il mio adorabile Gesù, continuando a farsi vedere afflitto mi ha trasportata fuori da me stessa e mi faceva vedere le varie offese che riceveva, ed io l’ho incominciato a pregare di nuovo che versasse in me le sue amarezze. Gesù da principio non mi dava retta, e solo mi ha detto: “Figlia mia, la carità allora è perfetta, quando è fatta per il solo fine di piacermi; ed allora è detta vera e viene riconosciuta da me, quando è spogliata di tutto”.
Io, prendendo occasione dalle sue stesse parole gli ho detto: “Gesù mio caro, è per questo appunto che voglio che tu versi in me le [tue] proprie amarezze, per poterti sollevare da tante pene; e se ti prego che risparmi pure le creature, è perché ricordo bene che tu, anche in altre occasioni, dopo che avesti castigate le creature, nel vederle soffrire, tanto la povertà che altra cosa, molto anche hai sofferto. Invece, quando io sono stata accorta e ti ho pregato e importunato fino a stancarti, tanto che ti sei ben compiaciuto di versare in me risparmiando loro, dopo ne sei pur restato molto contento, non ve ne ricordate? E poi non sono tue immagini?”
Gesù, vedendosi convinto, mi ha detto: “Per te è necessario contentarti, avvicinati e bevi al mio costato”.
Cosi feci, mi avvicinai per bere al costato, ma invece di venire l’amarezza, succhiavo un sangue dolcissimo che tutta m’inebriava d’amore e di dolcezza, sicché n’ero contenta, ma non era questa la mia intenzione; perciò a lui rivolta gli dissi: “Caro mio bene che fai? Non è amaro quello che viene, ma dolce; deh, ti prego, versa tu in me le tue proprie amarezze!”
E Gesù guardandomi benignamente mi disse: “Continua a bere, che appresso verrà l’amaro”.
Così, mettendomi di nuovo al costato, dopo che continuò a venire il dolce venne anche l’amaro. Ma chi può dire l’intensità dell’amarezza? Dopo che mi saziai di bere mi levai e guardando la [sua] testa che teneva la corona di spine, la tolsi e la conficcai sulla mia testa, e Gesù pareva tutto condiscendente, mentre in altre volte non aveva ciò permesso. Quanto era bello vedere Gesù dopo che versò le sue amarezze! Pareva quasi disarmato, senza fortezza, ma tutto mansueto come un umile agnellino, tutto condiscendente.
Io avvertivo che l’ora era tardissima e siccome il confessore era stato[26] subito questa mattina a chiamarmi all’ubbidienza, quindi non è che sapeva che dovevo essere chiamata [di nuovo] dall’ubbidienza, che all’ubbi­dienza Gesù mi lascia libera. Perciò a lui rivolta gli ho detto: “Gesù dolcissimo, non permettere che io sia di disturbo alla famiglia e di fastidio al confessore col farlo venire di nuovo; deh, ti prego, fammi tu stesso ritornare in me stessa!”
Gesù mi ha detto: “Figlia mia, non ti voglio lasciare quest’oggi”.
Ed io: “Anch’io non ho cuore di lasciarti, ma un pochettino solo, quanto mi faccio vedere alla famiglia che sto in me stessa e poi ritorneremo a stare insieme”.
Così, dopo un lungo contrasto, dandoci un addio a vicenda mi ha lasciato un poco. Era appunto l’ora del pranzo e la famiglia allora veniva a chiamarmi. Ma che, sebbene mi sentivo in me stessa, mi sentivo tutta piena di sofferenza, la testa non mi reggeva, quell’amaro e quel dolce bevuto al costato di Gesù mi dava tanta sazietà e sofferenza insieme che mi riusciva impossibile poter prendere nessun’altra cosa. La parola data a Gesù mi faceva stare sulle spine. Così sotto il pretesto che mi doleva la testa, ho detto alla famiglia: “Lasciatemi sola, che non voglio niente”.
Così sono [stata] lasciata libera di nuovo e subito ho incominciato a chiamare il dolce Gesù, e lui sempre benigno è ritornato. Ma chi può dire ciò che ho passato quest’oggi, quante grazie Gesù ha fatto all’anima mia, quante cose mi ha fatto capire? È impossibile poterlo esprimere a parole. Così, dopo un lungo stare, Gesù, per calmare le mie sofferenze, dalla sua bocca ha versato un latte dolce e poi verso sera mi ha lasciato col darmi la parola che subito sarebbe ritornato; e così mi son trovata in me stessa di nuovo, ma un poco più libera di sofferenze.
Maggio 16, 1899  (23)
Gesù le parla della croce e si lamenta delle anime devote.
Gesù ha seguito per altri giorni a manifestarsi allo stesso modo, di non volersi distaccare da me. Pareva che quel poco di sofferenze che aveva versato in me lo attirassero tanto, che non sapeva stare senza di me. Questa mattina ha versato un altro poco d’amarezza dalla sua bocca nella mia e dopo mi ha detto:
“La croce dispone l’anima alla pazienza. La croce apre il cielo ed unisce insieme cielo e terra, cioè Dio e l’anima. La virtù della croce è potente e quando entra in un’anima ha la virtù di togliere la ruggine di tutte le cose terrene; non solo, ma dà la noia, il fastidio, il disprezzo delle cose della terra, ed invece, poi, le rende il sapore, il gradimento delle cose celesti; ma da pochi viene riconosciuta la virtù della croce, perciò [molti] la disprezzano”.
Chi può dire quante cose ho compreso della croce mentre Gesù parlava? Il parlare di Gesù non è come il nostro che tanto si capisce [per] quanto si dice; ma una sola parola lascia una luce immensa, che ruminandola bene potrebbe fare stare occupato tutto il giorno in profondissima meditazione. Perciò se io volessi dire tutto andrei troppo per le lunghe ed anche mi mancherebbe il tempo a farlo.
Dopo poco Gesù è ritornato di nuovo, ma un poco più afflitto. Io subito ho domandato la cagione, e Gesù mi ha fatto vedere molte anime devote e mi ha detto:
“Figlia mia, quello che guardo in un’anima è quando si spoglia della propria volontà, allora la mia Volontà l’investe, la divinizza e la fa tutta mia. Vedi un po’ queste anime che si dicono devote fino a tanto che le cose vanno a lor modo, poi [per] una piccola cosa, se non sono lunghe le loro confessioni, se il confessore non le soddisfa, perdono la pace e certune giungono a non volerne fare più niente. Questo dice che non è la mia Volontà che le[27] predomina, ma la loro. Credi pure o figlia mia, che hanno sbagliata la strada, perché quando veggo che davvero vogliono amarmi, ho tanti modi di poter dare la mia grazia”.
Quanta pena faceva veder Gesù soffrire da [parte di] questa sorta di gente! Ho cercato di compatirlo per quanto ho potuto, e così è finito.
Maggio 19, 1899  (24)
Gesù le mostra la preziosità dell'umiltà e della semplicità.
Questa mattina mi sentivo un timore che non fosse Gesù, ma il demonio che mi volesse illudere. Gesù è venuto e vedendomi con questo timore mi ha detto: “L’umiltà è la sicurezza dei favori celesti. L’umiltà veste l’anima d’una sicurezza tale, in modo che le astuzie del nemico non vi penetrano dentro. L’umiltà mette in salvo tutte le grazie celesti, tanto che dove veggo l’umiltà abbondantemente faccio scorrere qualunque specie di favori celesti. Perciò non voler disturbarti per questo, ma con occhio semplice guarda sempre nel tuo interno se sei investita della bella umiltà, e di tutto il resto non curarti di niente”.
Poi mi ha fatto vedere molte persone religiose e tra questi sacerdoti, anche di santa vita; ma per quanto buoni fossero non vi era in loro quello spirito di semplicità nel credere alle tante grazie ed ai tanti diversi modi che il Signore tiene con le anime. Gesù mi ha detto:
“Io mi comunico sia agli umili che ai semplici, perché subito danno credenza alle mie grazie e le tengono in gran conto sebbene siano ignoranti e poveri. Ma con questi altri che tu vedi, io sono molto restio, perché il primo passo che avvicina l’anima a me è la credenza; onde avviene di questi tali, che con tutta la loro scienza e dottrina ed anche santità, non provano mai un raggio di luce celeste, cioè camminano per la via naturale e mai giungono a toccare neppure per un tantino ciò che è soprannaturale. Eccoti pure la causa perché nel corso della mia vita mortale non ci fu neppure un dotto, un sacerdote, un potente nel mio seguito, ma tutti ignoranti e di bassa condizione, perché più umili e semplici, ed anche più facili a fare dei grandi sacrifizi per me”.
Maggio 23, 1899  (25)
Gesù scherza e le parla del vero distacco.
Questa mattina il mio adorabile Gesù voleva giocare un poco. Veniva, faceva vedere che mi voleva sentire, ma mentre mi mettevo a dire, come un lampo mi scompariva dinanzi. Oh Dio, che pena!
Mentre il mio cuore nuotava in questa pena amarissima della lontananza di Gesù ed ancor ero quasi un po’ inquieta, Gesù è ritornato di nuovo dicendomi: “Che c’è, che c’è? Più quieta, più calma! Dì, dì, che vuoi?”
Ma nell’atto di dire è scomparso. Ho fatto quanto ho potuto per quietarmi, ma che! Dopo qualche tempo il mio cuore è tornato pur a non sapersi dar pace senza del suo unico e solo conforto, e forse più di prima. Gesù ritornando di nuovo mi ha detto: “Figlia mia, la dolcezza ha la virtù di far cambiare la natura alle cose, sa l’amaro ben convertire in dolce. Perciò più dolce, più dolce”. Ma però senza darmi tempo di dire una sola parola. Così ho passato questa mattina.
Dopo ciò mi son sentita fuori di me stessa insieme con Gesù. Ci stavano molte persone; chi ambiva la ricchezza, chi l’onore, chi la gloria e chi fin la santità e tant’altre cose, ma non per Dio, sebbene[28] per essere tenute per qualche gran che dalle creature. Gesù rivolto a loro, tentennando la testa, [a] loro ha detto: “Stolti che siete, che vi state lavorando la rete come imbrigliarvi”.
Poi rivolto a me mi ha detto: “Figlia mia, perciò la prima cosa che tanto raccomando è il distacco da tutte le cose ed anche da loro stesse, e quando l’anima si è distaccata da tutto non ha bisogno di farsi forza per star lontano da tutte le cose della terra che da sé stesse le vanno intorno, ma vedendosi non curate, anzi disprezzate, dandole un addio si licenziano per non darle più molestia”.
Maggio 26, 1899  (26)
Vede il proprio nulla e Gesù l'ammaestra.
Questa mattina mi trovavo in un annientamento di me stessa fino a sentirmi esosa ed infastidita. Mi pareva [di] essere [la] più abominevole che trovar si potesse. Mi vedevo come un piccolo verme che si volgeva e rivolgeva, ma sempre lì nel fango rimanevo, senza poter dare un passo. Oh Dio, che miseria umana! Eppure dopo tante grazie elargitemi sono così cattiva ancora! Il mio buon Gesù, sempre benigno con questa miserabile peccatrice, è venuto e mi ha detto: “Il disprezzo di te stessa allora è lodevole quando è ben investito dallo spirito della fede, ma quando non è investito dallo spirito di fede, invece di farti bene ti potrà nuocere, perché vedendoti quale tu sei, che non puoi fare niente di bene, sconfiderai, rimarrai abbattuta, senza fidarti di dare un passo nella via del bene; ma appoggiandoti a me, cioè investendoti dallo spirito di fede, verrai a conoscere e disprezzare te, ed insieme a conoscere me, confidando di tutto poter operare con l’aiuto mio; ed ecco che facendo in questo modo camminerai secondo la verità”.
Quanto bene ha fatto all’anima mia questo parlare di Gesù! Ho compreso che devo entrare nel mio nulla e conoscere chi sono io, ma non devo lì fermarmi, ma subito dopo, conosciuta me stessa, devo volare nel mare immenso di Dio e lì fermarmi ad attingere tutte le grazie che bisognano all’anima mia; altrimenti la natura resta infiacchita ed il demonio cercherà mezzi come gettarla nella sconfidenza. Sia benedetto sempre il Signore e tutto a gloria sua sempre sia!
Maggio 31, 1899  (27)
Lamenti che Gesù fa del confessore e lo consiglia.
Questa mattina, stando nel mio solito stato, il mio adorabile Gesù è venuto e nell’atto stesso ho veduto il confessore. Gesù si mostrava un po’ dispiaciuto con lui, perché pareva che il confessore volesse che tutti approvassero che fosse opera di Dio il fatto mio, e voleva quasi convincere col manifestare qualche cosa del mio interno ad altri sacerdoti. Gesù si è voltato al confessore e gli ha detto:
“Questo è impossibile, finanche io ebbi dei contrari e da persone delle più riguardevoli ed anche da sacerdoti ed altre dignità; ebbero che ridire sulle mie sante opere, fino a tacciarmi d’indemoniato. Questi contrasti, anche da persone religiose, io li permetto per fare che a suo tempo potesse[29] più rilucere la verità. Che [tu] vuoi consigliarti con due o tre sacerdoti dei più buoni e santi ed anche dotti, per averne lume, ed anche per fare ciò che voglio io nelle cose da farsi, quale il consiglio dei buoni e la preghiera, questo io lo permetto, ma il resto no, no, sarebbe un voler farne sciupio delle opere mie e metterle in burle, ciò che molto mi dispiace”.
Poi disse a me: “Quello che voglio da te è un operare retto e semplice; che del pro e contro delle creature non ti curare. Lasciale pensare come vogliono, senza prenderti il minimo fastidio, che il voler che tutti fossero favorevoli è un voler fuorviare dall’imitazione della mia vita”.
Giugno 2, 1899  (28)
Gesù le parla della conoscenza di noi stessi.
Il mio dolcissimo Gesù questa mattina mi ha voluto fare toccare con le proprie mani il mio nulla. Nell’atto che si è fatto vedere, le prime parole che mi ha indirizzato sono state: “Chi sono io e chi sei tu?”
Pur in queste due parole vidi due luci immense: in una comprendevo Dio, nell’altra vedevo la mia miseria, il mio nulla; mi vedevo non essere altro che un’ombra, come quell’ombra che fa il sole nell’irradiare la terra, che dipende dal sole, che passando per essa ad altri punti, l’ombra finisce d’esistere fuori del suo splendore. Così l’ombra mia, cioè il mio essere, dipende dal mi­stico sole Iddio, che in un semplice istante può disfare quest’ombra. Che dire poi, come ho deformato que­st’ombra che il Signore mi ha dato non essendo neppure mia? Fa orrore a pensarlo: puzzolente, putrida, tutta verminosa; eppure in questo stato così orrido ero costretta a stare innanzi ad un Dio sì santo. Oh, come sarei stata contenta se mi fosse [stato] dato nascondermi nei più cupi abissi!
Dopo ciò, Gesù mi ha detto: “Il favore più grande che posso fare ad un’anima è il farle conoscere sé stessa. La conoscenza di sé e la conoscenza di Dio vanno pari passi[30]. Per quanto conoscerai te stessa altrettanto conoscerai Dio. L’anima che ha conosciuto sé stessa, vedendosi che da sé non può niente operare di bene, quest’ombra del suo essere la trasforma in Dio e ne avviene che in Dio fa tutte le sue operazioni. Succede che l’anima sta in Dio e cammina presso di lui senza guardare, senza investigare, senza parlare; in una parola, come morta, perché conoscendo a fondo il suo nulla non ardisce di fare niente da sé, ma ciecamente segue il tiro delle operazioni del Verbo”.
A me sembra che all’anima che conosce sé stessa succede come a quelle persone che vanno in vapore, che mentre passano da un punto all’altro, senza fare un passo da sé stesse fanno dei lunghi viaggi, ma tutto in virtù del vapore che le trasporta; così l’anima, mettendosi in Dio come le persone in vapore, fa dei sublimi voli nella via della perfezione, ma conoscendo appieno che non [è] essa, ma in virtù di quel Dio benedetto che la porta in sé. Oh, come il Signore favorisce, arricchisce, concede grazie più grandi, sapendo che non a sé, ma tutto a lui attribuisce! Oh anima che conosci te stessa, quanto tu sei fortunata!
Giugno 3, 1899  (29)
Gesù versa in lei le sue amarezze.
Questa mattina mi trovavo in un mare d’afflizione, che Gesù non era venuto ancora; sentivo tale pena che mi sentivo strappare il cuore, quando è venuto il confessore per chiamarmi all’ubbidienza, ché doveva celebrare la santa messa; e Gesù senza farsi vedere neppure l’om­bra, come è suo solito, che quando non viene si fa vedere una mano, un braccio; specialmente quando è giorno di far la comunione, come questa mattina, lui stesso viene, mi purifica, mi prepara per ricevere lui stesso sacramentalmente. Dicevo tra me: “Sposo santo, Gesù amabile, come non venite voi stesso a prepararmi? Come posso ricevervi?” Ma intanto il tempo è giunto, il confessore è venuto, ma Gesù senza venirci affatto. Che pena straziante, quante lacrime amare! Il confessore mi ha detto: “Lo vedrai nella comunione e gli dirai, per ubbidienza, perché non viene e che cosa vuole da te”.
Così, dopo la comunione ho visto il mio buon Gesù, sempre benigno con questa miserabile peccatrice. Mi ha trasportato fuori di me stessa ed io lo tenevo in braccio: era da bambino, tutto afflitto. Io subito ho cominciato a dire: “Bambinello mio, solo ed unico mio bene, com’è che non vieni? In che ti ho offeso? Che cosa vuoi da me, che mi fai così tanto piangere?”
Nell’atto di dire, era tanta la pena che, con tutto ciò che lo tenevo fra le mie braccia, continuavo a piangere. Ma anche prima che finissi di dire l’ultima parola, Gesù avvicinando la sua bocca alla mia ha versato le sue amarezze senza rispondermi una parola. Quando finiva di versare, io incominciavo di nuovo a dire, ma Gesù senza darmi retta si metteva di nuovo a versare. Dopo ciò senza rispondermi niente a ciò che io volevo, mi ha detto: “Fammi versare in te, altrimenti come ho distrutto con la grandine gli altri punti, così distruggerò le parti vostre, perciò fammi versare e non pensare ad altro”.
Così, senza dirmi altro, è finito.
Giugno 5, 1899  (30)
Prega insieme con Gesù.
Continua ancora lo stato di annientamento, ma tale che non ardisco di dire una parola al mio diletto Gesù. Ma questa mattina, Gesù, avendo compassione del mio miserabile stato, lui stesso ha voluto sollevarmi, ed ecco come: mentre si è fatto vedere ed io mi sentivo tutta annichilita e vergognosa innanzi a lui, Gesù si è avvicinato a me, ma tanto stretto che mi pareva che egli stesse in me ed io in lui, e mi ha detto: “Figlia mia diletta, che hai che stai tanto afflitta? Dimmi a me tutto, che ti contenterò e rimedierò a tutto”.
Siccome continuavo a vedere me stessa, come dissi l’altro giorno di sopra, onde vedendomi così cattiva, neppure ho ardito di dirgli niente. Ma Gesù ha replicato: “Presto, presto, dimmi che vuoi, non indugiare”.
Vedendomi quasi costretta, dando in dirottissimo pianto, gli ho detto: “Gesù santo, come vuoi che non stia afflitta? Che dopo tante grazie non dovevo essere più così cattiva. Talora anche nelle opere buone che cerco di fare, nelle stesse preghiere, vi mescolo tanti difetti ed imperfezioni che io stessa ne sento orrore. Che sarà innanzi a te che sei così perfetto e santo? E poi lo scarsissimo patire a confronto di prima, il lungo tuo indugio nel venire, tutto mi dice a chiare note che i miei peccati, le mie ingratitudini ne sono la causa, e che tu sdegnato meco, mi neghi pur quel pane quotidiano che concedi tu a tutti generalmente, qual è la croce; sicché poi finirai con l’abbandonarmi del tutto. Si può dare forse maggiore afflizione di questa?”
Gesù, tutto compassionandomi mi ha stretto al suo cuore e mi ha detto: “Non temere, questa mattina faremo le cose insieme, così supplirò alle tue”.
E così prima mi pareva che Gesù conteneva una fonte d’acqua e un’altra di sangue nel suo petto, ed in quelle due fontane ha tuffato l’anima mia, prima nell’acqua e poi nel sangue. Chi può dire come è restata purificata ed abbellita l’anima mia? Dopo mi son messa a pregare insieme con Gesù, recitando tre Gloria Patri, e questo, mi ha detto che lo faceva per supplire alle mie preghiere ed adorazioni alla maestà di Dio. Oh, come era bello e commovente pregare insieme con Gesù!
Dopo ciò Gesù mi ha detto: “Non ti affligga il non patire; vuoi tu anticipare l’ora da me designata? Il mio operare non è furioso, ma tutto a suo tempo; adempiremo ogni cosa a tempo debito”.
Indi poi, per un fatto tutto provvidenziale, all’improv­viso, essendo uscito il viatico dalla chiesa per altri infermi, ho fatto anch’io la comunione. Chi può dire dopo tutto, ciò che è passato tra me e Gesù, i baci, le carezze che Gesù mi faceva? È impossibile poter dire tutto. Mi pareva che dopo la comunione vedevo la sacra particola; ed ora vedevo nella particola la bocca di Gesù, ora gli occhi, ora una mano, e poi ha fatto vedere tutto sé. Mi ha trasportata fuori di me stessa, ed ora mi trovavo nella volta dei cieli ed ora mi trovavo sulla terra in mezzo agli uomini, sempre insieme con Gesù. Lui andava di tanto in tanto ripetendo: “Oh, quanto sei bella diletta mia, se tu sapessi quanto ti amo! E tu, quanto mi ami?”
Nel sentirmi dire queste parole, io provavo tale confusione che mi sentivo morire; ma con tutto ciò ho avuto il coraggio di dirgli: “Gesù mio bello, sì ti amo assai, e tu, se veramente mi ami tanto, dimmi, anche tu mi perdoni per tutto il male che ho fatto? Ma concedimi pur il patire”.
E Gesù: “Sì che ti perdono, e voglio contentarti col versare in abbondanza le mie amarezze in te”.
Così Gesù ha versato le sue amarezze. Mi pareva che avesse una fonte d’amarezza nel suo cuore dalle offese ricevute dagli uomini, e la maggior parte la traboccava in me. Poi Gesù mi ha detto: “Dimmi, che altro vuoi?”
Ed io: “Gesù santo, ti raccomando il mio confessore, fammelo santo e donagli anche la salute del corpo”. E poi: “È Volontà tutta tua che venga questo Padre?”
E Gesù: “Sì”.
Ed io: “Se tua Volontà fosse lo faresti star bene”.
E lui: “Statti quieta, non voler investigare troppo i miei giudizi”. E nell’atto stesso mi faceva vedere il miglioramento della salute del corpo e la santità dell’anima del confessore, ed ha soggiunto: “Tu vuoi essere furiosa, ma io faccio tutto a tempo”.
Dopo ho raccomandato le persone che a me appartenevano, ho pregato per i peccatori dicendo a Gesù: “Oh, quanto desidero che il mio corpo si facesse in minutissimi pezzi, purché i peccatori si convertissero!” E così ho baciato la fronte, gli occhi, il volto, la bocca di Gesù, facendo varie adorazioni, riparazioni per le offese che gli fanno i peccatori. Oh, come era contento Gesù, ed io pure!
Indi, facendomi promettere da Gesù di non dovermi più lasciare, son ritornata in me stessa e così è finito.
Giugno 8, 1899  (31)
Domanda la conversione del mondo. Stringe Gesù al suo petto.
Il mio adorabile Gesù continua ancora a farsi vedere tutto benignità e dolcezza. Questa mattina mentre mi trovavo insieme con lui, di nuovo ha replicato: “Dimmi, che vuoi?”
Ed io subito ho detto: “Gesù mio caro, quello che vorrei davvero è che tutto il mondo si convertisse”. Che domanda spropositata! Ma pure[31] il mio amante Gesù mi ha detto:
“Ti contenterei, purché tutti avessero la buona volontà di salvarsi; eppure per farti vedere che volentieri consentirei a tutto ciò che ho detto, andiamo insieme in mezzo al mondo, e tutti quelli che troveremo con la buona volontà di salvarsi, per quanto cattivi fossero io te li darò”.
Così siamo usciti in mezzo alle genti per vedere chi avesse la buona volontà di salvarsi, e per nostro sommo dispiacere abbiamo trovato un numero tanto scarsissimo che fa pena al solo pensarlo, e tra questo scarsissimo numero vi era il mio confessore e la maggior parte dei sacerdoti e parte delle devote, ma non tutti di Corato. Poi mi ha fatto vedere le varie offese che riceveva. Io l’ho pregato che mi facesse parte delle sue sofferenze, e Gesù ha versato dalla sua bocca nella mia le sue amarezze. Dopo ciò mi ha detto:
“Figlia mia, mi sento la bocca troppo amareggiata; deh, ti prego di raddolcirla!” Io gli ho detto: “Volentieri ti avrei dato tutto, ma non ho niente. Dimmi tu stesso, che cosa ti potrei dare?”
E lui fattosi bambino mi ha detto: “Stringimi al tuo cuore e così potrai raddolcirmi”[32]. E nell’atto stesso che ciò diceva si è coricato fra le mie braccia, però mi è venuto un gran timore che non fosse il bambino Gesù, ma il demonio. Perciò ho fatto sulla sua fronte il segno della croce “Per signum crucis”, e Gesù mi ha guardato tutto festoso, sorridendo, e mi diceva: “Non sono [il] demonio”. Dopo si è alzato in piedi in braccio a me stessa e tutta mi baciava; ma sentendomi anch’io la bocca amara per le amarezze che aveva versato in me, domandai a Gesù di raddolcirmela e lui amorosamente lo ha fatto, lasciandomi tutta inondata di dolcezze e di contenti.
Ora quando questo succede, il corpo non ne partecipa niente affatto, e[33] quando mi trovo fuori di me stessa nella volta dei cieli, oppure girando per altri punti della terra. Qualche volta il Signore mi trasporta fuori di me stessa e mi fa partecipe della crocifissione. Gesù stesso mi distende sulla croce e mi trapassa le mani ed i piedi coi chiodi; vi sento tale un dolore da sentirmi morire. Poi trovandomi in me stessa li sento bene nel corpo, tanto vero da non poter muovere le dita, il braccio, e così delle altre sofferenze che il Signore mi fa partecipe. Se dovessi dire tutto andrei troppo per le lunghe.
Aggiungo pure un’altra cosa, cioè che il Signore di tanto in tanto si benigna di versare dalla bocca un latte dolcissimo, oppure di farmi bere al suo costato il suo preziosissimo sangue[34].
Giugno 9, 1899  (32)
Gesù le fa vedere le offese che riceve dagli uomini.
Questa mattina l’ho passata molto angustiata per le tante offese che vedevo far dagli uomini, specialmente per certe disonestà orrende. Quanta pena faceva a Gesù la perdita delle anime, molto più d’un bambino nato che dovevano uccidere senza amministrargli il santo battesimo! A me pare che questo peccato pesi tanto sulla bilancia della divina giustizia, che sono i più che[35] gridano vendetta innanzi a Dio. Eppure spesso spesso si rinnovano queste scene dolorose. Il mio dolcissimo Gesù stava tanto afflitto che faceva pietà. Vedendolo in tale stato non ho ardito dirgli niente, e Gesù, solo mi ha detto:
“Figlia mia, unisci le tue sofferenze con le mie, le tue preghiere alle mie, e così innanzi alla maestà di Dio sono più accettevoli e compariscono non come cose tue, ma come opere mie”.
Poi ha seguitato a farsi vedere altre volte, ma sempre in silenzio. Sia sempre benedetto il Signore!
Giugno 11, 1899  (33)
Gesù le mostra come saranno trattati coloro che avvicineranno lei.
Il mio dolce Gesù continua a farsi vedere scarsissime volte e quasi sempre in silenzio. La mia mente me la sentivo tutta confusa e piena di timore di poter perdere il mio solo ed unico Bene, e per tante altre cose che non è qui necessario il dirle. Oh Dio, che pena! Mentre stavo in questo stato, quando appena si è fatto vedere e pareva che portava una luce, e da questa luce uscivano altrettanti globetti di luce. E Gesù mi ha detto:
“Togli ogni timore dal tuo cuore. Vedi, ti ho portato questo globo di luce per metterlo tra te e me e tra quelli che a te si avvicinano. [A] quelli che a te s’avvicinano con cuore retto e per farti il bene, questi globetti di luce che escono penetreranno nelle loro menti, scenderanno nel loro cuore, e li riempirà di gaudio e di grazie celesti e comprenderanno con chiarezza ciò che opero in te. Quelli poi che verranno con altre intenzioni sperimenteranno il contrario e da questi globetti di luce resteranno abbagliati e confusi”.
Così son restata più quieta. Sia tutto a gloria di Dio.
Giugno 12, 1899  (34)
Gesù stesso la prepara alla comunione.
Questa mattina, dovendo fare la comunione, stavo pregando il buon Gesù che venisse egli stesso a prepararmi prima che venisse il confessore per celebrare la santa messa; altrimenti come potrò ricevervi essendo tanto cattiva e indisposta?
Mentre ciò facevo, il mio dolce Gesù si è compiaciuto di venire. Nell’atto stesso che lo vedevo mi pareva che non faceva altro che saettarmi coi suoi sguardi purissimi e scintillanti di luce. Chi può dire ciò che operavano in me quegli sguardi penetranti, che non lasciavano sfuggire neppure l’ombra d’un piccolo neo? È impossibile poterlo dire; anzi avrei voluto passare tutto ciò in silenzio, perché le operazioni interne della grazia difficilmente si sanno esporre tali quali sono con la bocca; pare piuttosto che si vengono a contraffare. Ma la signora obbedienza non vuole, e quando è per lei bisogna chiudere gli occhi senza dire altro, altrimenti guai da per tutto, perché essendo signora da per se stessa si fa rispettare.
Quindi seguo a dire. Nel primo sguardo ho pregato Gesù che mi purificasse e così mi pareva che dall’animo mio si scuotesse tutto ciò che l’adombrava. Nel secondo sguardo l’ho pregato che mi illuminasse, perché che giova ad una pietra preziosa l’essere pura se non è luccicante per attirarsi gli sguardi di quelli che la mirano? La guarderanno sì, ma con occhio indifferente. Tanto più io, che non solo dovevo essere guardata, ma immedesimata col mio dolce Gesù, avevo bisogno di quella luce che non solo mi rendeva  risplendente l’anima, ma che mi faceva capire l’azione grande che stavo per fare. Perciò non mi bastava d’essere purgata, ma illuminata ancora.
Onde Gesù in quello sguardo pareva che mi penetrava come la luce del sole penetra il cristallo. Dopo ciò, vedendo che Gesù continuava a guardarmi, gli ho detto: “Amantissimo Gesù, giacché ti sei compiaciuto prima di purgarmi e poi d’illuminarmi, benignati ora di santificarmi, molto più che dovendo ricevere te che sei il Santo dei santi, non è giusto che io sia tanto diversa da te”.
Così Gesù, sempre benigno verso questa miserabile, si è inclinato verso di me, ha preso l’anima mia fra le sue braccia e pareva che con le sue proprie mani tutta la ritoccava. Chi può dire ciò che operavano in me quei tocchi di quelle mani creatrici? Oh, come le mie passioni a quei tocchi si mettevano a posto! I miei desideri, inclinazioni, affetti, palpiti ed altri miei sensi santificati da quei tocchi divini, si cambiavano in tutt’altro, ed uniti fra loro, non più discordanti come prima facevano una dolce armonia all’udito del mio caro Gesù. Mi pareva che fossero tanti raggi di luce che ferivano il suo cuore adorabile. Oh, come si ricreava Gesù, e che momenti felici sono stati per me! Ah! Io esperimentavo la pace dei santi, per me era un paradiso di contento e di delizie.
Dopo ciò, Gesù pareva che vestiva l’anima mia con la veste della fede, di speranza e di carità; nell’atto stesso che mi vestiva, Gesù mi suggeriva il modo come dovevo esercitarmi in queste tre virtù. Ora mentre stavo ciò facendo, Gesù spiccando un altro raggio di luce mi ha fatto capire il mio nulla, che mi pareva che fosse come un acino d’arena in mezzo ad un vastissimo mare qual è Dio, e questo piccolo acino andava a disperdersi in quel mare immenso, ma si perdeva in Dio. Poi mi ha trasportato fuori di me stessa, portandomi fra le sue braccia, e mi veniva suggerendo vari atti di contrizione dei miei peccati; ricordo solamente che sono stata un abisso d’iniquità. Signore, oh, quante nere ingratitudini ho usato verso di voi!
Mentre facevo questo ho guardato Gesù che teneva la corona di spine in testa. Ho distesa la mano e l’ho tolta dicendogli: “Dammi o Gesù le spine, che son peccatrice; a me convengono le spine, non a te che sei il Giusto, il Santo”.
Così Gesù stesso l’ha conficcata sulla mia testa. Poi, non so come, da lontano ho visto il confessore, subito ho pregato Gesù che andasse a preparare il confessore, per poter riceverlo nella comunione; così Gesù pareva che andasse dal padre. Dopo poco è ritornato e mi ha detto: “Uno voglio che sia il modo che tratti tra me e te, con il confessore[36], e così voglio pure da lui: che guardi e tratti con te come se fossi un altro io, perché essendo tu vittima come fui io, non voglio differenza alcuna, e questo per fare che tutto fosse purgato e che in tutto risplendesse il solo amor mio”.
Io gli ho detto: “Signore, questo pare impossibile, che possa trattare col confessore come si fa con voi, specialmente nel vedere l’instabilità”.
E Gesù: “Eppure è così; la vera virtù, il vero amore tutto fa scomparire, tutto distrugge, e con una maestria da incantare non fa risplendere altro, in tutto il suo operare, che il solo Iddio, e tutto guarda in Dio”.
Dopo ciò è venuto il confessore per chiamarmi all’ub­bidienza e così celebrare la santa messa, e perciò tutto è finito. Quindi ho ascoltato la santa messa ed ho fatto la comunione; ora chi può dire l’intimità che è passata tra me e Gesù? È impossibile poterla manifestare, non ho parole come farmi capire, onde le passo in silenzio.
Giugno 14, 1899  (35)
Gesù vuole castigare il mondo.
Questa mattina l’amantissimo Gesù non ci veniva e nel mio interno andavo pensando: “Com’è che non viene? Che c’è di nuovo? Ieri veniva così spesso ed oggi neppure si fa vedere ancora! Che crepacuore, quanta pazienza ci vuole con Gesù!” Tutto il mio interno mi pareva che si metteva tutto all’arme, che voleva Gesù, e mi faceva una guerra da darmi pene di morte. La volontà, come superiora a tutto, cercava di mettere pace col persuadere ai miei sensi, inclinazioni, desideri, affetti ed a tutto il resto di quietarsi, che Gesù doveva venire. Così, dopo il lungo penare, Gesù è venuto portando una tazza in mano, piena di sangue aggrumato, putrefatto e puzzolente, e mi ha detto: “Vedi questa tazza di sangue? La verserò sul mondo”.
Mentre così diceva è venuta la Mamma, la Vergine Santissima, ed insieme con lei il mio confessore, e pregavano Gesù che non la versasse sul mondo, ma che la facesse bere a me. Il confessore gli ha detto: “Signore, a che pro tener la vittima se non volete versare sopra di essa? Assolutamente voglio che la fate soffrire, e risparmiate le genti”.
La Mamma piangeva ed insisteva presso Gesù, [e] presso il confessore di non desistere di pregare finché Gesù non si fosse contentato d’accettare il cambio. Gesù insisteva che la voleva versare sopra il mondo tutto, ed in [un] primo [momento] pareva quasi che si accigliasse. Io mi vedevo tutta confusa, non sapevo dire niente, perché era tanto l’orrore che faceva a vedere quella tazza piena di sangue sì brutto, che metteva il fremito in tutta la natura; che sarebbe a berla? Ma però ero rassegnata, che se il Signore me l’avesse data, l’avrei accettata. Chi può dire poi i castighi che [si] contenevano in quel sangue, se il Signore lo versasse sul mondo? Da questo giorno appunto, pare che tiene preparata una grandine che farà molto danno e pare che deve continuare i giorni seguenti. Dopo poi Gesù pareva un poco più calmo, tanto che pareva abbracciasse il confessore che lo aveva pregato in quel modo, ma però senza venire a nessuna determinazione se lo deve versare sopra le genti o no.
Così è finito, lasciandomi una pena indescrivibile di quello che potrà succedere.
Giugno 16, 1899  (36)
Ottiene da Dio di fare risparmiare in parte dai suoi castighi il suo paese.
Continuava ancora a farsi vedere che vuole castigare; io l’ho pregato che volesse versare in me le sue amarezze e che volesse risparmiare tutto il mondo; e se questo non fosse possibile, almeno quelli che mi appartengono e il mio paese. A quest’intenzione pareva che si unisse pure quella del confessore e così pareva che Gesù, vinto dalle preghiere, ha versato un poco dalla sua bocca, ma non quella tazza detta disopra. Questo poco che ha versato pareva che lo facesse per risparmiare in qualche modo il mio paese, ma non tutti quelli che mi appartengono. Io però questa mattina sono stata causa di fare affliggere Gesù. Siccome dopo versato l’ho visto più calmo, senza pensarci gli ho detto: “Amabile mio Gesù, ti prego di liberarmi dal fastidio che do al confessore di farlo venire ogni giorno. Che costa a voi il liberarmi, e che voi stesso che mi mettete nelle sofferenze, voi stesso mi liberate? Certo che vi costa niente e se volete, tutto potete”.
Mentre ciò gli dicevo, Gesù faceva un volto tanto afflitto che quell’afflizione me la sentivo penetrare fin nell’intimo del mio cuore, e senza dirmi parola è scomparso. Come mi ha lasciata mortificata! Lo sa solo il Signore, pensando specialmente, ancora, [che] più non ci veniva[37]. Ma poco dopo è ritornato, ma con maggiore afflizione, portando un volto tutto gonfio e pieno di sangue, che allora allora gli avevano fatto quelle offese. Gesù tutto mesto ha detto:
“Vedi quello che mi hanno fatto, come tu dici che non vuoi che castighi le creature? [I castighi] son necessari per umiliarli e non farli imbaldanzire di più”.
Giugno 17, 1899  (37)
Contende con Gesù per far risparmiare i castighi.
Si continua ancora sempre lo stesso, ma specialmente questa mattina sono stata sempre a contendere col mio caro Gesù; lui che voleva continuare a mandare la grandine, come ha fatto nei giorni passati, ed io che non volevo. Quando al meglio, pareva che si preparava un temporale, e dava comando ai demoni che distruggessero col flagello della grandine parecchi punti. Nell’atto stesso vedevo che da lontano mi chiamava il confessore dandomi l’ubbidienza che andassi a mettere in fuga i demoni per non farle[38] far niente. Mentre sono uscita per andare, Gesù si è fatto incontro, facendomi rivolgere indietro. Io gli ho detto: “Signore benedetto, non posso, perché è l’ubbidienza che mi ha chiamato e tu sai che io e tu a questa virtù dobbiamo cedere senza poterci opporre”.
Allora Gesù: “Ebbene, lo farò io per te”.
E così ha comandato ai demoni che andassero in parte più lontana e che per ora non toccassero le terre appartenenti al nostro paese. Poi ha detto a me: “Andiamo”. Così siamo ritornati, io nel letto e Gesù accanto a me. Appena giunti, Gesù voleva riposare, dicendo ch’era molto stanco; io l’ho arrestato dicendogli: “Chi sa ch’è questo sonno che vuoi fare? E poi bella ubbidienza che mi hai fatto fare. Perché vuoi dormire? Questo è il bene che mi vuoi? È [così] che vuoi contentarmi in tutto? Vuoi dormire? Dormi pure, basta che mi dai la parola che non farai niente”.
Allora, dispiacendosi del mio mal contento, mi ha detto: “Figlia mia, eppure vorrei contentarti; facciamo così: usciamo insieme di nuovo in mezzo alle genti e quelli che vediamo che son necessari di punire per le tante nefande azioni, almeno chi sa sotto il flagello si arrendessero, e che tu vuoi [che io punisca, li punirò], e quelli che son meno necessari a punire, e che tu non vuoi, io li risparmierò”.
Ed io: “Signore, grazie ti rendo della tua somma bontà nel volermi contentare, ma con tutto ciò non posso far questo che mi dici. Non mi sento la forza di mettere la volontà mia a castigare nessuna delle tue creature. E poi quale strazio sarà del mio povero cuore, quando sentirò che quel tale o quell’altro è stato castigato, e che io ci abbia messo la mia volontà? Sia mai, sia mai, oh Signore!”
Dopo è venuto il confessore per chiamarmi in me stessa, ed è finito.
Giugno 19, 1899  (38)
Gesù si lamenta di certe anime a lui consacrate.
Avendo passato ieri una giornata di purgatorio per la privazione quasi totale del sommo Bene e per le tante tentazioni che mi metteva il demonio, mi pareva che facessi tanti peccati. Oh, Dio che pena, offendere Dio! Questa mattina, appena visto Gesù, subito gli ho detto: “Gesù buono, perdonami i tanti peccati che feci ieri”; e volevo dirgli tutto il male che mi sentivo d’aver fatto. Egli spezzando il mio dire mi ha detto:
“Se fai scomparire te stessa, non farai mai peccati”.
Io volevo continuare a dire, ma Gesù facendomi vedere molte anime devote e mostrandomi di non voler sentire ciò che gli volevo dire, ha ripreso di nuovo a dire:
“Quello che più mi dispiace di queste anime è l’instabilità nel fare il bene; basta una piccola cosa, un dispiacere, anche un difetto, mentre allora è il tempo più necessario per stringersi più a me, e quali[39] invece si irritano, si disturbano e tralasciano il bene incominciato. Quante volte ho preparato loro le grazie per darle e, vedendole così instabili sono stato costretto a ritenerle!” Però, conoscendo che non voleva sapere niente di quello che volevo dirgli e vedendo il mio confessore che stava poco bene nel corpo, ho pregato a lungo per lui, e facendogli[40] varie domande, che non è qui necessario il dirle. E Gesù a tutto benignamente mi ha risposto, e così è finito.
Giugno 20, 1899  (39)
Gesù le mostra come la grande santità di Luigi Gonzaga è frutto del grande amore per Dio.
Si continua quasi sempre lo stesso. Questa mattina pare che Gesù abbia voluto sollevarmi un poco, dopo che per qualche tempo sono andata in cerca di lui. Da lontano ho visto un bambino; come fulmine che cade dal cielo, così vi accorsi. Appena giunta, l’ho preso fra le mie braccia, e venendomi un dubbio che non fosse Gesù gli ho detto: “Tesoretto mio caro, dimmi un po’ chi sei”.
Ed egli: “Io sono il tuo caro ed amato Gesù”.
Ed io a lui: “Bambinello mio bello, ti prego di prendere il mio cuore e portarlo con te in paradiso, che appresso al cuore vi verrà l’anima”. Gesù pareva che mi prendesse il cuore e l’univa talmente al suo che ne faceva uno solo. Dopo si è aperto il cielo, parendo che si preparava ad una festa grandissima; nell’atto stesso è sceso dal cielo un giovane di vago aspetto, tutto scintillante di fuoco e fiamme. Gesù mi ha detto:
“Domani è la festa del mio caro Luigi, devo andare ad assistere”.
Ed io: “E me poi mi lasciate sola? Come farò?”
Ed egli: “Anche tu ci verrai. Vedi quanto è bello Luigi? Ma quello che fu più in lui, che lo distinse in terra, era l’amore con cui operava. Tutto era amore in lui, l’amore gli occupava l’interno, l’amore lo circondava [al]l’esterno, sicché anche il respiro si poteva dir ch’era amore; perciò di lui si dice che non patì mai distrazione, perché l’amore l’inondava da per tutto, e da questo amore sarà inondato eternamente, come tu vedi”. E così pareva che era tanto grande l’amore di San Luigi, che poteva incenerire tutto il mondo.
Poi Gesù ha soggiunto: “Io passeggio sopra i più alti monti e vi formo la mia delizia”. Io, non intendendo il significato, [Gesù] ha ripreso a dire: “I monti più alti sono i santi che più mi hanno amato, ed io vi faccio la mia delizia, e quando stanno sulla terra e quando passano su in cielo; sicché il tutto sta nell’amore”.
Dopo ciò ho pregato Gesù che mi benedicesse, a me ed a quelli che in quel momento vedevo; ed egli dando la benedizione è scomparso.
Giugno 21, 1899  (40)
Gesù le promette di non lasciarla mai.
Siccome Gesù non ci veniva, andavo pensando tra me: “Chi sa che Gesù non ci verrà più e mi lascia in abbandono”. E non dicevo altro [che]: “Vieni mio diletto, vieni!”
Tutto all’improvviso è venuto e mi ha detto: “Non ti lascerò, mai t’abbandonerò; anche tu vieni, vieni a me”. Io subito son corsa per mettermi nelle sue braccia, e mentre stavo così, Gesù ha ripreso a dire: “Non solo non lascerò te, ma per amore tuo non lascerò Corato”.
Poi senza quasi avvedermene, in un istante è scomparso, mentre io son rimasta che lo desideravo più di prima ed andavo dicendo: “Che mi hai fatto! Come, così presto te ne sei andato, senza neppure dirmi addio?” Mentre sfogavo la mia pena, l’immagine del bambino Gesù che tengo a me vicina, pareva che [Gesù] si facesse vivo, e di tanto in tanto usciva[41] la testa da dentro la campana per vedere che cosa facessi. Quando vedeva che mi avvertivo[42], subito si rinchiudeva dentro.
Io gli ho detto: “Si vede che sei impertinente e che vuoi farla da bambino. Mi sento impazzire per la pena che non vieni e tu stai a giocare; bene, giocate, scherza pure, che io avrò pazienza”.
Giugno 22, 1899  (41)
Gesù scherza con lei e le fa dei corrivi[43].
Questa mattina il mio dolce Gesù voleva continuare a farmi dei corrivi ed a voler scherzare. Veniva, metteva le sue manine al [mio] volto nell’atto di volermi fare una carezza, ma nell’atto di farla scompariva. Di nuovo veniva, stendeva le sue braccia al mio collo in atto di volermi abbracciare, ma mentre stendevo le mie per abbracciarlo mi sfuggiva come un lampo, senza poterlo trovare. Chi può dire le pene del mio cuore? Mentre il mio povero cuore nuotava in questo mare di dolore immenso, fino a sentirmi venir meno la vita, è venuta la Mamma Regina, portandolo da bambino fra le sue braccia, e così ci siamo abbracciati tutti e tre insieme, la Mamma, il Figlio ed io. Onde ho potuto aver tempo di dirgli: “Mio Signore Gesù, mi pare che hai sottratto la tua grazia da me”.
Ed egli: “Sciocca, scioccherella che sei! Come dici che ti ho sottratta la mia grazia mentre sono in te? E che cosa è la mia grazia se non me stesso?”
Son restata più confusa di prima, vedendomi che non sapevo parlare e che in quelle due parole che avevo detto non avevo detto altro che spropositi. Dopo, la Regina Madre è scomparsa e Gesù pareva che si chiudesse dentro il mio interno e lì vi rimaneva.
Oggi poi, alla meditazione, si faceva veder che dormiva dentro di me. Io lo stavo guardando, beandomi nel suo bel volto, ma senza destarlo, contenta di vederlo almeno, quando in un istante è venuta di nuovo la bella Mamma Regina, lo ha preso da dentro il mio cuore, tutto smuovendolo in fretta per destarlo; dopo destato me l’ha messo di nuovo in braccio, dicendomi: “Figlia mia, non farlo dormire, che se dorme vedrai che succederà”.
Era un temporale che si preparava; così il bambino, mezzo dormendo, ha steso le sue manine al mio collo, e stringendomi mi ha detto: “Mamma mia, mamma mia, lasciami dormire”. Ed io: “Ninno, mio bello, non sono io che non voglio farti dormire, è la nostra Signora Mamma che non vuole, ed io ti prego di contentarla. È certo che niente si nega alla Mamma, e poi a quella Madre!”
Dopo averlo tenuto un poco in veglia, è scomparso; e così è finito.
Giugno 23, 1899  (42)
Vede il confessore insieme con Gesù e prega per lui.
Avendo ascoltato la santa messa e fatto la comunione, il mio Gesù si faceva vedere da dentro il mio cuore; poi mi son sentita uscir fuori di me stessa, ma senza Gesù. Ho visto il mio confessore; siccome lui mi aveva detto che: “Dopo la comunione verrà Nostro Signore e lo pregherai per me”, quindi appena visto il mio confessore gli ho detto: “Padre, mi avete detto che Gesù doveva venire e non è venuto”. Egli mi ha risposto: “Perché non lo sai trovare perciò dici che non è venuto; guarda bene che nel tuo interno ci sta”.
Ho fatto per guardare in me ed ho visto i piedi di Gesù usciti da dentro il mio interno. Subito li ho presi in mano e ho tirato fuori Gesù; me lo son tutto abbracciato, e vedendolo con la corona di spine in testa gliel’ho tolta e l’ho data in mano al confessore dicendogli che me la conficcasse sulla mia testa; e così ha fatto. Macché? Per quanta forza facesse, non gli riusciva di far penetrare una sola spina. Io gli ho detto: “Fate più forte, non temete che io abbia a soffrire assai che, come voi vedete, [ci] sta Gesù che mi dà la forza”.
Per quanto ci provasse, il tutto riusciva impossibile. Allora mi ha detto: “Non è forza mia di poter far questo, e perché essendo[44] ossa [ciò] che devono penetrare queste spine, non è forza mia di poterlo fare”.
Allora mi son rivolta al mio dolce Gesù dicendo: “Tu vedi che il padre non sa metterla, mettila un poco tu stesso”. E così Gesù ha disteso le sue mani ed in un istante ha fatto penetrare dentro la mia testa tutte quelle spine con indicibile dolore e contento.
Dopo ciò insieme col confessore abbiamo pregato Gesù che versasse le sue amarezze, per risparmiare la gente da tanti flagelli che sta versando sopra di loro, come pareva quest’oggi, che stava preparata una grandine un poco lontana da noi; onde il Signore per condiscendere alle nostre preghiere ha versato un poco. Oltre di ciò, siccome continuavo a vedere il confessore, ho incominciato a pregare Gesù per lui, dicendogli: “Buono e caro Gesù, ti prego a far grazia al mio confessore di farlo tutto tuo, secondo il tuo cuore, ed insieme dagli la salute corporale. Tu hai visto come ha cooperato insieme a sollevarvi, tanto la testa dalle spine, quanto il[45] farti versare. Se non è riuscito a conficcarmi le spine in testa, non è stato per non sollevarti né [per] la sua volontà, ma perché non era forza la sua; quindi anche per questo lo devi esaudire. Onde dimmi, o mio solo ed unico Bene, lo farai star bene sia nell’anima come nel corpo?”
Ma Gesù mi sentiva, ma non mi rispondeva; io più mi sollecitavo a pregarlo dicendo: “Questa mattina non ti lascerò né cesserò di pregare, se non mi dai la parola che mi esaudirai per quello che ti domando per lui”.
Ma Gesù non diceva parola, quando nel meglio ci siamo trovati circondati da persone; questi tali pareva che sedessero intorno ad una tavola mangiando, e ci stava pure la mia porzione. Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ho fame”.
Ed io: “La porzione mia la do a te, non ne sei contento?”
E Gesù: “Sì, ma non voglio essere visto che ci sto”.
Ed io: “Ebbene, farò vedere che la prendo per me, e senza farmi avvertire la darò a te”. E così abbiamo fatto. Poco dopo Gesù, alzandosi in piedi ed avvicinando le sue labbra al mio volto ha cominciato a suonare dalla sua bocca come un suono di tromba. Tutte quelle genti impallidivano e tremavano, dicendo tra loro: “Che c’è, che c’è? Adesso moriamo!”
Io gli ho detto: “Signore mio Gesù, che fai? Come, fino adesso non volevi essere visto e poi ti sei messo a suonare? Statti quieto, statti quieto, non far prendere paura alle genti; non vedi come tutti si spaventano?”
E Gesù: “Adesso è niente; che sarà quando tutto all’improvviso suonerò più forte? Sarà tale il timore onde[46] verranno presi, che molti e molti lasceranno la vita”.
Ed io: “Adorabile mio Gesù, che dici? Sempre là andate, che vuoi far giustizia; ma no! Misericordia! Misericordia ti prego per il tuo popolo”.
Onde prendendo il suo aspetto dolce e benigno, e continuando [io] a vedere il confessore, di nuovo ho cominciato ad importunarlo, e Gesù mi ha detto: “Farò del tuo confessore come quell’albero innestato, che più non si riconosce l’albero vecchio, sia nell’anima quanto nel corpo; ed in pegno di ciò ho dato te nelle sue mani, come vittima, come[47] fare che se ne avvalga”.
Giugno 25, 1899  (43)
Continua a vedere il confessore con Gesù che gli parla della fede.
Continua Gesù a farsi vedere questa mattina, di tanto in tanto, partecipandomi qualche poco delle sue sofferenze, e qualche volta si vedeva anche il confessore unito [a lui]. Siccome egli mi aveva detto di pregare per certi suoi bisogni, vedendolo insieme con Nostro Signore ho cominciato a pregare Gesù che lo esaudisse in ciò che egli voleva. Mentre io lo pregavo, Gesù tutto bontà si è voltato al confessore e gli ha detto:
“La fede voglio che t’inondi dappertutto, come quelle barche che sono tutte nel mare, circondate dalle acque; e siccome la fede sono io stesso, essendo [tu] inondato da me che tutto posseggo, posso e do liberamente a chi in me confida, senza che tu ci pensi a quel che verrà, al quando, ed il come che[48] farai, io stesso secondo i tuoi bisogni mi presterò a soccorrerti”.
Poi ha soggiunto: “Se ti eserciterai in questa fede, quasi nuotando in essa, in ricompensa t’infonderò nel cuore tre gaudi spirituali. Il primo, che penetrerai le cose di Dio con chiarezza, e nel fare le cose sante ti sentirai inondato da una gioia, da un gaudio tale che ti sentirai come inzuppato, e questo è l’unzione della mia grazia. Il secondo è una noia delle cose terrene, e sentirai nel tuo cuore una gioia delle cose celesti. Il terzo è un distacco totale di tutto, e dove prima sentivi inclinazione sentirai un fastidio, come da qualche tempo lo sto infondendo nel tuo cuore, e tu già lo stai esperimentando. E per questo il tuo cuore sarà inondato dalla gioia che godono le anime nude, che hanno il loro cuore tanto inondato dell’amore mio, che dalle cose che le circondano esternamente non ne ricevono nessuna impressione”.
Luglio 4, 1899  (44)
Gesù le parla della sua celeste Mamma e poi della turbazione e agitazione spirituale.
Questa mattina, avendomi Gesù rinnovato le pene della crocifissione, si trovava insieme la nostra Mamma Regina, e Gesù parlando di lei ha detto: “Il mio proprio regno fu nel cuore della mia Madre, e questo perché il suo cuore non fu mai menomamente disturbato, tanto che nel mare immenso della passione soffrì pene immense, il suo cuore fu passato [d]a parte a parte dalla spada del dolore, ma non ricevette un minimo alito di turbazione. Quindi essendo il mio regno, regno di pace, perciò potetti in lei stendere il mio regno, senza ricevere nessun ostacolo, [e] liberamente regnare”.
Avendo Gesù seguitato altre volte a venire, e vedendomi io tutta piena di peccati, gli ho detto: “Mio Signore Gesù, mi sento tutta coperta di piaghe e peccati gravi. Deh, ti prego, abbi pietà di questa miserabile!”
E Gesù: “Non temere che non ci sono colpe gravi; e poi si deve avere orrore della colpa, ma non disturbarsi, perché l’agitazione da dovunque venga non fa mai bene all’anima”. Poi ha soggiunto: “Figlia mia, tu sei vittima come io lo sono; fa che tutte le tue opere risplendano con le stesse mie intenzioni pure e sante, acciocché ritrovando in te la mia stessa immagine possa liberamente versar l’influenza delle mie grazie, e così ornata, potrò offrirti come vittima odorosa innanzi alla divina giustizia”.
Luglio 9, 1899  (45)
Gesù la crocifigge per placare la divina giustizia.
Questa mattina Gesù ha voluto rinnovare le pene della crocifissione. Prima mi ha trasportata fuori di me stessa, sopra un monte, e mi ha domandato se volessi crocifiggermi[49]; ed io: “Sì, Gesù mio, non altro bramo che la croce”. Mentre ciò dicevo, si è presentata una croce grandissima, e sopra di essa mi ha distesa e con le sue proprie mani mi inchiodava. Che pene atroci soffrivo nel sentirmi trapassare le mani ed i piedi da quei chiodi, che per giunta erano spuntati, e che per farli penetrare si stentava e si soffriva molto. Ma con Gesù tutto riusciva tollerabile. Dopo che ha compiuto di crocifiggermi, mi ha detto:
“Figlia mia, me ne servo di te per poter continuare la mia passione. Siccome il mio corpo glorificato non può più essere capace di soffrire, onde venendo in te me ne avvalgo del tuo corpo come me ne avvalsi del mio nel corso della mia vita mortale, per poter continuare a soffrire la mia passione e così poterti offrire vittima vivente innanzi alla divina giustizia, di riparazione e di propiziazione”.
Dopo ciò pareva che si aprisse il cielo e scendeva una moltitudine di santi, tutti armati di spade. Una voce come di tuono è uscita da dentro quella moltitudine a difendere la giustizia di Dio ed a fare vendetta degli uomini che tanto hanno abusato della sua misericordia. Chi può dire ciò che succedeva sulla terra a questa discesa dei santi? Solo so dire che, chi guerreggiava da un punto e chi dall’altro, chi fuggiva, chi si nascondeva; pareva che tutti erano in costernazione.
Luglio 14, 1899  (46)
Gesù l’assicura che non l’ha lasciata né può lasciarla.
Il mio adorabile Gesù continua [in] questi giorni a farsi vedere scarsissime volte. La sua visita è come un lampo, che mentre vuoi seguitare a guardare già sfugge, e se qualche volta si ferma un poco è quasi sempre in silenzio; altre volte dice qualche cosa, ma nell’atto che se ne va via, mi pare che si tira[50] quella parola insieme con quella luce che mi vien dalla sua parola, tanto che dopo non ricordo niente di ciò che ha detto; la mia mente resta nella stessa confusione di prima. Che stato miserabile! Mio caro Gesù, abbi pietà di questa misera, continua a fare uso della tua misericordia.
Quindi per non fare lunghezze, e dire giorno per giorno ciò che ho passato, dirò qui tutt’insieme qualche parola che mi ha detto in questi scorsi giorni. Ricordo che dopo aver versato lacrime amarissime, Gesù facendosi vedere, ed io lamentandomi con lui che mi aveva lasciato, Gesù chiamò a sé molti angeli e santi, e rivolto a loro disse: “Sentite che dice, che io l’ho lasciata; ditele un poco, posso io lasciare quelli che mi amano? Essa mi ha amato, come posso lasciarla?” Ed i santi furono  col Signore d’accordo, ed io restai più umiliata e confusa di prima.
Un’altra volta, dicendogli: “Fino all’ultimo[51] finirai col lasciarmi del tutto”, Gesù mi disse: “Figlia, non posso lasciarti, e per pegno di ciò ho messo in te le mie sofferenze”.
Trovandomi occupata dal pensiero: “Come, o Signore, hai permesso che venisse il sacerdote? Poteva passare il fatto tra me e te”. In un istante mi son trovata fuori di me stessa, distesa sopra una croce, ma non vi era nessuno che mi potesse inchiodare. Io ho cominciato a pregare il Signore che venisse a crocifiggermi, e Gesù è venuto e mi ha detto: “Vedi quanto è necessario che il sacerdote stia in mezzo alle opere mie, e questo aiuta ancora per compire la crocifissione; è certo che senza nessuno, da te sola non puoi crocifiggerti; sempre c’è bisogno dell’aiuto degli altri”.
Luglio 18, 1899  (47)
Attira e costringe a stare nel suo cuore Gesù sacramentato.
Continua quasi sempre lo stesso. Questa volta mi pareva che nel mio cuore stesse Gesù sacramentato, e dall’ostia santa spandeva tanti raggi nel mio interno, e dal mio cuore uscivano tanti fili cui s’intrecciavano tutti quei raggi di luce. Mi pareva che Gesù col suo amore si attirava tutto il mio cuore, ed il mio cuore con quei fili si[52] attirava e legava tutto Gesù a starsi con me.
Luglio 22, 1899  (48)
Gesù le mostra come la croce rende l’anima trasparente.
Il mio adorabile Gesù questa mattina si faceva vedere con una croce d’oro pendente al collo, tutta risplendente, e che guardandola se ne compiaceva immensamente. In un istante si è trovato il confessore presente; Gesù gli ha detto:
“Le sofferenze dei giorni passati hanno accresciuto lo splendore alla croce, tanto che guardandola prendo molto piacere”. Poi si è voltato a me e mi ha detto: “La croce comunica tale uno splendore all’anima da renderla trasparente; e siccome quando un oggetto è trasparente [gli] si possono dare tutti quei colori che si vogliono, così la croce con la sua luce dà tutti i lineamenti e le forme più belle, che mai si possa immaginare, non solo dagli altri, ma anche dall’anima stessa che la prova. Oltre di ciò, in un oggetto trasparente subito si scopre la polvere, le piccole macchie ed anche l’adombramento. Tale è la croce; siccome rende l’anima trasparente, subito fa scovare all’anima i piccoli difetti, le minime imperfezioni, tanto che non c’è mano maestra più abile della croce a fare che tenga l’anima preparata, per renderla degna abitazione del Dio del cielo”. Chi può dire ciò che ho compreso della croce e quanto è da invidiare l’anima che la possiede?
Dopo ciò mi ha trasportato fuori di me stessa e mi son trovata sopra una scala altissima, che sotto [di sé] metteva ad un precipizio, e per giunta i gradini di questa scala erano movibili e tanto stretti che appena si poteva poggiare la punta dei piedi. Quello che più metteva terrore era il precipizio e il non poter trovare appoggio di sorta, e volendosi afferrare ai gradini [questi] se ne venivano appresso. Nel[53] vedere le altre persone, che quasi tutti precipitavano, metteva il brivido nelle ossa; eppure non si poteva fare a meno di passare per quella scala. Quindi mi son provata, ma appena ho fatto due o tre gradini, vedendo il pericolo grande che correvo di cadere nell’abisso, ho incominciato a chiamare Gesù, che venisse in mio aiuto. Onde senza sapere come ho trovato Gesù presso di me, e mi ha detto:
“Figlia mia, questa che tu hai visto è la via che battono tutti gli uomini in questa terra; i gradini movibili, che neppure potevano appoggiarsi per avere un sostegno, sono gli appoggi umani, le cose terrene, che volendosi appoggiare, invece di dar loro aiuto, danno loro una spinta per precipitare più presto nell’inferno. Il mezzo più sicuro è il camminare quasi volando, senza appoggiarsi sulla terra, a forza di proprie braccia, con gli occhi tutti a sé, senza guardare gli altri, e con l’averli anche tutti intenti a me per avere aiuto e forza; e così si potrà facilmente evitare il precipizio”.
Luglio 28, 1899  (49)
La vita umana è un giuoco;  anche Gesù scherza.
Questa mattina il mio adorabile Gesù è venuto con un aspetto tutto ammirabile e misterioso. Portava una catena al collo, pendente su tutto il petto; da una parte si vedeva come un arco, dall’altra parte della catena come un turcasso, pieno di pietre preziose e di gemme, che dava un ornamento dei più belli al petto del mio dolce Gesù, e con una lancia in mano. Mentre stava in questo aspetto mi ha detto:
“La vita umana è un giuoco; chi gioca [con] il piacere, chi [con] il denaro e chi [con] la propria vita, e tanti altri giuochi che fanno. Anch’io mi diletto di giocare con le anime; ma quali sono questi scherzi che faccio? Sono le croci che invio; se le ricevono con rassegnazione e me ne ringraziano io mi ricreo e scherzo con loro, compiacendomi immensamente, ricevendone grande onore e gloria, ed a loro faccio fare dei più grandi acquisti”.
Nell’atto di dire ciò ha cominciato a toccarmi con la lancia; dall’arco e dal turcasso, già tutte quelle pietre preziose che dentro conteneva uscivano fuori e si cambiavano in tante croci e saette che ferivano le creature. Certune, ma in numero scarsissimo, ne gioivano, se le baciavano e le ringraziavano e venivano a formare un giuoco con Gesù; altri poi le prendevano e le gettavano in faccia a Gesù. Oh, come ne restava afflitto Gesù e che gran perdita facevano quelle anime!
Poi Gesù ha soggiunto: “Questa è la sete che gridai sulla croce, che non potendo dissetarla allora interamente, mi compiaccio di continuare a dissetarla nelle anime dei miei cari che soffrono. Quindi soffrendo, vieni a dare un ristoro alla mia sete”.
Ritornando altre volte a pregarlo che liberasse il confessore che soffriva, mi ha detto: “Figlia mia, non sai tu che il marchio più nobile che posso imprimere nei miei cari figli è la croce?”
Luglio 30, 1899  (50)
Gesù le parla della carità verso il prossimo e della stima che bisogna avere delle sue parole.
Si continua quasi sempre lo stesso. Questa mattina, trasportandomi Gesù secondo il suo solito fuori di me stessa, siamo passati in mezzo [a] molta gente, e la maggior parte di questi, erano intenti a giudicare le azioni altrui senza guardare le proprie. Il mio diletto Gesù mi ha detto:
“Il mezzo più sicuro per essere retto col prossimo è non guardare affatto ciò che essi fanno, ché guardare, pensare e giudicare è tutto lo stesso. Poi guardando il prossimo, [l’uomo] viene a defraudare l’anima propria; quindi ne avviene che non è retto né per sé né per il prossimo né per Dio”.
Dopo ciò gli ho detto: “Mio unico Bene, è da qualche tempo che non mi avete dato neppure un bacio”; e così ci siamo ambedue baciati, e volendomi quasi correggere ha soggiunto:
“Figlia mia, quel che ti raccomando è di conservare e di fare stima delle mie parole, perché la mia parola è eterna e santa come me stesso, e conservandola nel tuo cuore, e profittando, avrai la tua santificazione e ne riceverai in ricompensa uno splendore eterno prodottoti dalla mia parola. Facendo diversamente, l’anima tua riceverà un vuoto e ne resterai a me debitrice”.
Luglio 31, 1899  (51)
Gesù le compare silenzioso.
Continuando Gesù a venire, questa mattina, ma però sempre in silenzio; ma[54] io ne ero contentissima, purché avessi il mio tesoro Gesù, perché avendo lui avevo tutti i miei contenti. Molte cose comprendevo nel vederlo, della sua bellezza, della sua bontà ed altro; ma siccome era tutto per mezzo d’intelligenza e per via di comunicazione intellettuale, perciò la bocca non sa esprimere niente; onde le passo in silenzio.
Agosto 1, 1899  (52)
Lamenti di Gesù per le impurità degli uomini.
Questa mattina il mio soavissimo Gesù, trasportandomi fuori di me stessa, mi faceva vedere la corruzione in cui è decaduto il genere umano. Fa orrore a pensarlo! Mentre mi trovavo in mezzo a questa gente, Gesù diceva quasi piangendo:
“Oh, uomo, come ti sei deturpato, deformato, snobilitato! Oh, uomo, io ti ho fatto perché fossi mio vivo tempio e tu invece ti sei fatto abitazione del demonio! Guarda, anche le piante con l’essere coperte di foglie, di fiori e frutti, t’insegnano l’onestà, il pudore che tu devi avere del tuo corpo; e tu avendo perduto ogni pudore ed anche soggezione naturale che dovresti avere ti sei reso peggiore delle bestie, tanto che non ho più a chi rassomigliarti. Immagine mia tu eri, ma ora non più ti riconosco; anzi mi fai tanto orrore delle[55] tue impurità, che mi fai nausea a vederti, e tu stesso mi costringi a fuggire da te”.
Mentre così diceva Gesù, io mi sentivo straziare dal dolore nel vederlo così amareggiato il mio diletto Gesù, perciò gli ho detto: “Signore, avete ragione che non trovate più niente di bene nell’uomo, e che è giunto a tale cecità che non sa neppure più tenersi alle leggi della natura, onde se volete guardare l’uomo non farete altro che mandare castighi; perciò vi prego ad avere di mira la vostra misericordia, e così sarà rimediato tutto”.
Mentre così dicevo, Gesù mi ha detto: “Figlia, dammi tu un ristoro alle mie pene”. Nell’atto di dire così si è tolto la corona di spine, che pareva incarnata nella sua adorabile testa, e me l’ha conficcata nella mia. Vi sentivo dolori acerbissimi, ma ero contenta che si ristorava Gesù. Dopo ciò mi ha detto:
“Figlia mia, io amo grandemente le anime pure e, come dagli impuri sono costretto a fuggire, da queste[56] invece come da calamita son tirato a fare soggiorno con loro. Alle anime pure volentieri impresto la mia bocca per farle parlare con la stessa mia lingua; sicché non hanno da durare fatica per[57] convertire le anime. In dette anime io mi compiaccio, non solo di continuare in loro la mia passione, e così continuare ancora la redenzione, ma quello che è più mi compiaccio sommamente di glorificare in loro le mie stesse virtù”.
Agosto 2, 1899  (53)
Gesù fa minacce di castighi e le mostra la necessità di corrispondere alle sue grazie.
Questa mattina il mio adorabile Gesù si faceva vedere tutto afflitto e quasi adirato cogli uomini, minacciando i soliti castighi e di far morire gente all’improvviso sotto i fulmini, grandine e fuoco. Io l’ho pregato assai che si placasse, e Gesù mi ha detto:
“Son tante le iniquità che si innalzano dalla terra al cielo che, se mancasse per un quarto d’ora la preghiera delle anime che stanno vittime innanzi a me, io farei uscire fuoco dalla terra e brucerei le genti”. Poi ha soggiunto: “Vedi quante grazie dovrei versare sulle creature, ma perché non trovo corrispondenza son costretto a ritenerle in me, anzi me le fanno cambiare in castighi. Bada tu, figlia mia, a corrispondermi alle tante grazie che sto versando in te, che la corrispondenza è la porta aperta per farmi entrare nel cuore ed ivi formare la mia abitazione. La corrispondenza è come quella buona accoglienza, quella stima che si usa a quelle persone quando vengono a far visite, in modo che, attirate da quel rispetto, da quelle maniere [e] affabilità che si usa[no] con loro, sono costrette a venire altre volte e giungono a non sapersene distaccare. Il tutto sta nel corrispondermi, ed a misura che[58] mi corrispondono e [mi] trattano loro in terra, io mi [com]porterò con loro in cielo, facendo loro trovare le porte aperte; inviterò tutta la corte celeste ad accoglierli e li collocherò nel più sublime trono, ma sarà tutto al contrario per chi non mi corrisponde”.
Agosto 7, 1899  (54)
Gesù mi parla sul nulla di noi stessi.
Questa mattina l’amabile mio Gesù non ci veniva. Dopo tanto aspettare e riaspettare finalmente è venuto. Era tanta la mia confusione ed annichilazione che non sapevo dirgli niente. Gesù mi ha detto: “Quanto più ti annienterai e conoscerai il tuo nulla, tanto più la mia umanità, spiccando raggi di luce, ti comunicherà le mie virtù”.
Io gli ho detto: “Signore, sono tanto cattiva e brutta che faccio orrore a me stessa; che sarò innanzi a voi?”
E Gesù: “Se tu sei brutta, sono io che ti posso rendere bella”.
E nell’atto di così dire ha mandato una luce da sé all’anima mia, e pareva che le comunicasse la sua bellezza. E poi abbracciandomi ha incominciato a dire: “Quanto sei bella, ma bella della mia stessa bellezza! Perciò sono tirato ad amarti”.
Chi può dire quanto son restata più che mai confusa? Ma il tutto sia a sua gloria.
Agosto 8, 1899  (55)
Gesù le parla della rassegnazione.
Continua a farsi vedere quando appena[59] e quasi adirato con gli uomini, e per quanto l’ho pregato che versasse in me le sue amarezze è stato impossibile; e senza darmi retta a ciò che gli dicevo, mi ha detto:
“La rassegnazione assorbisce tutto ciò che può essere di pena e di disgustoso alla natura e lo converte in dolce; ed essendo l’essere mio pacifico, tranquillo, in modo che qualunque cosa potrà succedere in cielo e in terra non può ricevere il minimo alito di turbazione, quindi la rassegnazione ha la virtù d’innestare nell’anima queste stesse mie virtù. L’anima rassegnata sta sempre in riposo, non solo essa, ma fa riposare tranquillamente anche me in lei”.
Agosto 10, 1899  (56)
Gesù le parla della giustizia e della semplicità.
Mentre questa mattina il mio dolce Gesù è venuto, mi ha trasportato fuori di me stessa ed è scomparso. Ed avendomi lasciata sola, ho visto che dal cielo scendevano come due candelabri di fuoco, e che poi, dividendosi in tanti pezzi, si formavano tanti fulmini e grandine che scendevano in terra e faceva[no] uno strazio grandissimo sulle piante e sugli uomini. Era tanto l’orrore e la cattività del temporale che non si poteva neppure pregare, e le persone non potevano giungere a ritirarsi alle proprie case. Chi può dire quanto sono restata spaven­tata? Onde mi son messa a pregare per placare il Signore. Ritornando [Gesù], ho visto che in mano portava come una bacchetta di ferro ed alla punta una palla di fuoco, e mi ha detto:
“La mia giustizia è lungamente trattenuta, per questa ragione vuole vendicarsi contro le creature, mentre loro hanno ardito di distruggere in loro ogni giustizia. Ah! Sì, niente di giusto trovo nell’uomo; si è pur tutto contraffatto nelle parole, nelle opere e nei passi; tutto è inganno, tutto è frode, tutto è ingiusto; sicché penetrando nel cuore, [l’]interno e [l’]esterno non è altro che una sentina di vizi. Povero uomo, come ti sei ridotto!”
Mentre così diceva, la bacchetta che teneva in mano la dimenava in atto di ferire l’uomo. Io gli ho detto: “Signore, che fai?”
E lui: “Non temere; vedi questa palla di fuoco che farà fuoco e non colpirà che i cattivi, che[60] i buoni non ne riceveranno nocumento”.
Ed io ho soggiunto: “Ah, Signore! Chi è buono? Tutti siamo cattivi; ti prego di non guardare a noi, ma alla tua infinita misericordia e così resterai placato per tutti”.
Dopo ciò ha soggiunto: “Figlia, della giustizia è la verità. Come sono io verità eterna che non inganna, così l’anima che possiede la giustizia fa rilucere in tutte le sue azioni la verità; quindi conoscendo per esperienza la vera luce della verità, se qualcuno vuole ingannarla con la luce che avverte in sé, subito conosce l’inganno; onde avviene che con questa luce della verità non inganna sé stessa né il prossimo, né può ricevere inganno. Frutto che produce questa giustizia e questa verità è la semplicità, ch’è un’altra qualità dell’essere mio, e che penetra ovunque. Non c’è cosa che può opporsi a farmi penetrare dentro: penetra nel cielo e negli abissi, nel bene e nel male; ma l’essere mio, semplicissimo, penetrando anche nel male non s’imbratta, anzi non ne riceve il minimo adombramento. Così l’anima con la giustizia e con la verità va raccogliendo in sé questo bel frutto della semplicità; penetra nel cielo, s’introduce nei cuori per condurli a me, penetra in tutto ciò ch’è bene e, trovandosi coi peccatori a vedere il male che fanno, non resta imbrattata, perché essendo semplice subito si sbriga, senza ricevere nocumento alcuno. È tanto bella la semplicità che il mio cuore resta ferito ad un solo [suo] sguardo. Un’anima semplice è d’ammirazione agli angeli ed agli uomini”.
Agosto 12, 1899  (57)
Gesù la trasforma tutta in sé e le dà ammaestramenti di carità verso il prossimo.
Questa mattina il mio adorabile Gesù, dopo che mi ha fatto per qualche tempo aspettare, è venuto dicendomi: “Figlia mia, questa mattina voglio uniformarti tutta a me; voglio che pensi con la mia stessa mente, che guardi coi miei stessi occhi, che ascolti con le mie stesse orecchie, che parli con la mia stessa lingua, che operi con le mie stesse mani, che cammini con i miei stessi piedi e che mi ami col mio stesso cuore”.
Dopo ciò Gesù univa i suoi sensi nominati di sopra ai miei, e vedevo che mi dava la sua stessa forma, non solo, ma mi dava la grazia di farne quell’uso che fece egli stesso; e poi ha seguitato a dire: “Grazie grandi io verso in te, ti raccomando di saperle conservare”.
Ed io: “Temo assai, o mio diletto Gesù, nel conoscermi tutta piena di miserie, e che invece di far bene faccio cattivo uso delle grazie tue. Ma quel che più mi fa temere è la lingua che spesso mi [fa] sdrucciolare nella carità del[61] prossimo”.
E Gesù: “Non temere, t’insegnerò io stesso il modo che devi tenere a[62] parlare col prossimo. La prima cosa, quando ti si dice qualche cosa che riguarda il prossimo, getta uno sguardo sopra te stessa ed osserva se tu sei colpevole di quello stesso difetto, ed allora il voler correggere è un volere indignare me e scandalizzare il prossimo. La seconda, se tu ti vedi libera di[63] quel difetto, allora sollevati, e cercherai di parlare come avrei parlato io; così parlerai con la mia stessa lingua. Facendo così non difetterai sulla carità del prossimo, anzi coi tuoi discorsi farai bene a te e al prossimo, ed a me darai onore e gloria”.
Agosto 13, 1899  (58)
Minacce di castighi. Trasformazione di Gesù [in Luisa e di Luisa in Gesù].
Continuava a farsi vedere questa mattina, quando appena, minacciando sempre castighi; e mentre io facevo per pregare che si placasse, come un lampo mi sfuggiva davanti. L’ultima volta ch’è venuto, si faceva vedere crocifisso; mi son messa vicino a baciare le sue santissime piaghe, facendo varie adorazioni; ma mentre ciò facevo, invece di Gesù Cristo ho visto la mia stessa immagine. Sono [re]stata sorpresa ed ho lasciato [di fare ciò], dicendo: “Signore, che sto facendo? A me stessa sto facendo le adorazioni? Questo non si può fare”.
E nell’atto stesso [la mia immagine] si è cambiata nella persona di Gesù Cristo, e [Gesù] mi ha detto: “Non ti meravigliare che ho preso la tua stessa immagine. Se io soffro in te continuamente, qual maraviglia c’è che ho preso la tua stessa forma? E poi non è per farti una mia stessa immagine che ti faccio soffrire?”
Io sono rimasta tutta confusa e Gesù è scomparso. Sia tutto a gloria sua, sia benedetto sempre il suo santo nome!
Agosto 15, 1899  (59)
Gesù vuole che la carità ordini tutto nel suo cuore; la fa assistere alla festa che si fa in cielo alla Mamma celeste, e le dà l’ufficio di mamma in terra.
Il mio dolcissimo Gesù questa mattina è venuto tutto festoso, portando un nembo di graziosissimi fiori fra le mani; e mettendosi nel mio cuore, con quei fiori, ora si circondava la testa, ora se li teneva tra le mani, tutto ricreandosi e compiacendosi. Mentre festeggiava con que­sti fiori, parendo di aver fatto grande acquisto, si è voltato a me e mi ha detto:
“Diletta mia, questa mattina sono venuto per mettere nel tuo cuore in ordine tutte le virtù. Le altre virtù possono stare separate l’una dall’altra, ma la carità lega e ordina tutto. Ecco quello che voglio fare in te, se non[64] che ordinare la carità”.
Io gli ho detto: “Mio solo ed unico Bene, come puoi far ciò essendo io tanto cattiva e piena di difetti ed imperfezioni? Se la carità è ordine, questi difetti e peccati non sono disordine che tengono tutto in scompiglio e rivoltato l’animo mio?”
E Gesù: “Io purificherò tutto e la carità metterà tutto in ordine. E poi quando un’anima la faccio partecipe delle pene della mia passione, non [ci] possono essere colpe gravi, al più qualche difetto veniale involontario; ma il mio amore, essendo fuoco, consumerà tutto ciò che è imperfetto nell’animo tuo”.
Così Gesù pareva che mi purificasse, ed ordinasse tutto; poi versava come un rivolo di miele dal suo cuore nel mio e con quel miele innaffiava tutto il mio interno, in modo che tutto ciò che stava in me restava ordinato, unito e con l’impronta della carità. Dopo ciò mi son sentita uscire fuori di me stessa nella volta dei cieli insieme col mio amante Gesù. Pareva che tutto era in festa, cielo, terra e purgatorio; tutti erano inondati d’un nuovo gaudio e giubilo; molte anime uscivano dal purgatorio e come folgori giungevano in cielo per assistere alla festa della nostra Regina Mamma. Anch’io mi spingevo in mezzo a quella folla immensa di gente, cioè angeli e santi e [anime del] purgatorio, che occupavano quel nuovo cielo ch’era tanto immenso che quello nostro che vediamo, confrontato con quello, mi pareva un piccolo buco; molto più che ne avevo l’ubbidienza del confessore. Ma nel mentre facevo per guardare, non vedevo altro che un sole luminosissimo che spandeva raggi che tutta mi penetravano da parte a parte, da [farmi] diventare come cristallo, tanto che si scorgeva[no] benissimo i piccoli nei e l’infinita distanza che passa tra il Creatore e la creatura; tanto più che quei raggi, ognuno aveva la sua impronta, chi dimostrava la santità di Dio, chi la purità, chi la potenza, chi la sapienza e tutte le altre virtù ed attributi di Dio. Sicché l’anima, vedendo il suo nulla, le sue miserie e la sua povertà, si sentiva annichilita, ed invece di guardare sprofondava boccone a terra, innanzi a quel sole eterno, innanzi a cui non c’è nessuno che può stargli di fronte.
Il più era che per vedere la festa della nostra Mamma Regina si doveva guardare da dentro quel sole; tanto pareva immersa in Dio la Vergine Santissima, che guardando da altri punti non si vedeva niente. Ora mentre mi trovavo in queste condizioni d’annichilazione innanzi a quel sole divino, la Mamma Regina tenendo in braccio il bambinello, Gesù mi ha detto:
“[È] la nostra Mamma che sta in cielo; do a te l’ufficio di farmi da mamma sulla terra. E siccome la mia vita va continuamente soggetta ai disprezzi, alla povertà, alle pene, agli abbandoni degli uomini, e mia Madre stando in terra fu la mia compagna di[65] tutte queste pene, non solo, ma cercava di sollevarmi in tutto per quanto le sue forze potevano, anche tu facendomi da madre mi terrai fedele compagnia in tutte le mie pene, soffrendo tu in vece mia per quanto puoi, e dove non puoi cercherai di darmi almeno un ristoro. Sappi però che ti voglio tutta intenta a me; sarò geloso anche del tuo respiro se non lo farai per me, e quando vedrò che tu non starai tutta intenta a contentarmi non ti darò né pace né riposo”.
Dopo ciò ho incominciato a fargli l’ufficio della Mamma sua; ma, oh, quanta attenzione ci voleva per contentarlo! Non si poteva dare neppure uno sguardo altrove, per vederlo contentato; ora voleva dormire, ora voleva bere, ora voleva ricrearsi con le carezze, ed io dovevo trovarmi pronta a tutto ciò che voleva; ora diceva: “Mamma mia, mi duole la testa, deh, sollevami!” Ed io subito gli vedevo la testa, e trovando delle spine le toglievo, e mettendogli il mio braccio sotto la testa lo facevo riposare. Mentre facevo che riposasse, nel meglio si alzava e diceva: “Mi sento un peso ed una sofferenza al cuore da sentirmi morire; vedi un poco che ci sta”. Ed osservando nell’interno del cuore ho trovato tutti gli strumenti della passione; ad uno ad uno li ho tolti e li ho messi nel mio cuore.
Onde vedendolo sollevato ho cominciato a carezzarlo ed a baciarlo e gli ho detto: “Solo ed unico mio tesoro, neppure mi avete fatto vedere la festa della nostra Regina Madre né sentire i primi cantici che fecero gli angeli e santi nell’ingresso che fece nel paradiso”.
E Gesù: “Il primo cantico che fecero alla mia Mamma fu l’Ave Maria, perché nell’Ave Maria si contengono le lodi più belle, gli onori più grandi, e si rinnova il gaudio che [essa] ebbe nell’essere fatta Madre di Dio; perciò recitiamola insieme per onorarla, e quando verrai tu in paradiso te la farò trovare come se l’avessi recitata insieme cogli angeli la prima volta nel cielo”. E così abbiamo recitato la prima parte dell’Ave Maria insieme con Gesù. Oh, come era tenero e commovente salutare la nostra Mamma Santissima insieme col suo diletto Figlio! Ogni parola che le diceva portava una luce immensa in cui si comprendevano molte cose sul conto della Vergine Santissima; ma chi può dirle tutte, molto più per la mia incapacità? Perciò le passo in silenzio.
Agosto 16, 1899  (60)
Continua a funzionare da mamma a Gesù. La signora obbedienza.
Gesù continua a volere che [io] gli faccia da madre; onde facendosi vedere da graziosissimo bambinello, piangeva, e per quietarlo dal pianto, tenendolo fra le mie braccia l’ho incominciato[66] a cantare. Quindi avveniva che quando lo cantavo cessava dal piangere, e quando no riprendeva il suo pianto. Io avrei voluto passare in silenzio ciò che cantavo, perché, primo non ricordo tutto, che essendo fuori di me stessa difficilmente si ritengono tutte le cose che passano, ed anche perché credo che siano spropositi. Ma la signora ubbidienza, essendo troppo impertinente, non me la vuol cedere, e basta che si faccia come lei vuole, si contenta anche di spropositi. Io non so, si dice ch’è cieca questa signora obbedienza, ed a me mi pare piuttosto tutt’occhi, perché guarda le minime cose; e quando non si fa come lei dice si rende tanto impertinente che non ti dà pace. Ecco che ci vuole per avere quiete da questa bella signora obbedienza; perché poi è tanto buona quando si fa come lei dice, che tutto ciò che si vuole per mezzo suo tutto si ottiene. Perciò mi accingo a dire quel che mi ricordo che cantavo:
“Bambinello sei piccolo e forte,
da te aspetto ogni conforto.
Bambinello grazioso e bello,
tu innamori anche le stelle.
Bambinello rubami il cuore,
per riempirlo del tuo amore.
Bambinello tenerello,
rendi anche me bambinella.
Bambinello sei un paradiso,
deh, fammi venire a giocare
nell’eterno riso!”
Agosto 17, 1899  (61)
Gesù le parla dell’ubbidienza.
Questa mattina avendo fatto la comunione, stavo a dire al mio amabile Gesù: ”Come va che questa virtù dell’obbedienza è tanto impertinente, e delle volte è tanto forte, che giunge a rendersi capricciosa?”
Ed egli: “Sai perché questa nobile signora obbedienza è come tu dici? Perché dà la morte a tutti i vizi, e naturalmente uno che deve far subire la morte ad un altro dev’essere forte e coraggioso, e se non [vi] giunge con questo, se ne avvale delle impertinenze e dei capricci. Se questo è necessario per uccidere il corpo ch’è tanto fragile, molto più per dar morte ai vizi ed alle proprie passioni, ch’è tanto difficile, che delle volte, mentre compariscono morte, incominciano a rivivere di nuovo. Ecco che questa diligente signora sta sempre in movimento e continuamente sta a spiare se vede che l’anima fa la minima difficoltà a ciò che le viene comandato; quindi temendo che qualche vizio possa incominciare a rivivere nel suo cuore, le fa tanta guerra e non le dà pace fino a tanto che l’anima non si prostri ai suoi piedi e adori in muto silenzio ciò che lei vuole. Ecco perché è tanto impertinente e quasi capricciosa come tu dici.
Ah, sì! Non c’è vera pace senza obbedienza, e se pare che si gode pace è pace falsa, perché va d’accordo con le proprie passioni, ma giammai con le virtù, e si finisce col rovinare, perché discostandosi dall’ubbidienza [le creature] si discostano da me che fui il re di questa nobile virtù. Poi l’ubbidienza uccide la propria volontà ed a torrenti riversa la divina, tanto che si può dire che l’anima ubbidiente non vive della volontà sua, ma della divina. E si può dare vita più bella, più santa del vivere della Volontà di Dio medesimo? Onde con le altre virtù, anche la più sublime, ci può stare l’amor proprio, ma con l’ubbidienza non mai”.
Agosto 18, 1899  (62)
Gesù le mostra come la sua parola non solo è verità, ma anche luce.
Venendo questa mattina l’amantissimo Gesù, gli ho detto: “Diletto mio Gesù, io credo che tutto ciò che scrivo siano tanti spropositi”.
E Gesù: “La mia parola non solo è verità, ma è luce ancora, e quando la luce entra in una stanza oscura, che fa? Snebbia le tenebre e fa scovrire gli oggetti che ci sono, brutti o belli, se ci sta ordine o disordine, e dal modo come trova si giudica la persona che occupa quella stanza. Or la vita umana è la stanza oscura, e quando la luce della verità entra in un’anima snebbia le tenebre, cioè fa scovrire il vero dal falso, il temporale dall’eterno; onde caccia da sé i vizi e si mette[67] l’ordine delle virtù, perché essendo la mia luce santa, che è la stessa Divinità, non potrà comunicare altro che santità ed ordine. Quindi l’anima si sente uscire da sé luce di pazienza, d’umiltà, di carità ed altro. Se la mia parola produce in te questi segni, a che pro temere?”
Dopo ciò Gesù mi ha fatto sentire che pregava il Padre suo per me, dicendo: “Padre Santo, vi prego per quest’anima, fate che adempisca in tutto perfettamente la nostra Santissima Volontà. Fate, o Padre adorabile, che le sue azioni siano tanto conformate con le mie, da non potersi discernere le une dalle altre, e così poter compiere sopra di essa ciò che ho disegnato”.
Ma chi può dire la forza che mi sentivo infondere nell’animo da questa preghiera di Gesù? Mi sentivo vestire l’anima di una fortezza tale, che per adempire la Volontà Santissima di Dio non mi sarei curata di soffrire mille martìri, se così fosse il suo beneplacito. Sia sempre ringraziato il Signore che tanta misericordia usa con questa povera peccatrice.
Agosto 21, 1899  (63)
Gesù le mostra come si sente attratto dalle anime che agiscono solo per piacere a lui.
Dopo aver passato due giorni di sofferenze, il mio benigno Gesù si mostrava tutto affabilità e dolcezza; nel mio interno andavo dicendo: “Quanto è buono con me il Signore! Eppure non trovo in me niente di bene che possa gradirlo[68]”.
E Gesù rispondendomi mi ha detto: “Diletta mia, siccome tu non altro piacere e contento trovi che trattenerti e conversare e darmi gusto solo a me, in modo che tutte le altre cose che non sono mie ti sono disgustevoli, così io, il mio piacere e la mia consolazione è il venire a trattenermi e parlare con te. Tu non puoi capire la forza che ha sul mio cuore di attirarmi a sé un’anima[69] che ha il solo fine di piacere a me solo; mi sento tanto legato con essa, che sono costretto a fare ciò che lei vuole”.
Mentre Gesù così diceva, compresi che parlava in quel modo, [per]ché nei giorni passati, mentre soffrivo acerbi dolori, nel mio interno andavo dicendo: “Gesù mio, tutto per amore tuo, questi dolori siano tanti atti di lode, di onore, di omaggio che ti offro; questi dolori siano tante voci che ti glorifichino e tanti attestati che dicano che ti amo”.
Agosto 22, 1899  (64)
Gesù le comunica le virtù.
Continua il mio caro Gesù a venire tutto amabile e maestoso. Mentre stava in questo aspetto mi ha detto: “La purità dei miei sguardi risplende in tutte le tue operazioni, in modo che risalendo di nuovo nei miei occhi mi produce uno splendore e mi ricrea dalle sofferenze che mi fanno[70] le creature”.
Io sono restata tutta confusa a queste parole, tanto che non ardivo dirgli niente; ma Gesù rincorandomi ha incominciato a dirmi: “Dimmi, che vuoi?”
Ed io: “Quando ho te, c’è altra cosa che potrei desiderare di più?” Ma Gesù ha replicato più d’una volta che gli dicessi ciò che volessi; ed io dandogli uno sguardo ho visto la bellezza delle sue virtù e gli ho detto: “Mio dolcissimo Gesù, dammi le tue virtù”.
Ed egli, aprendo il suo cuore faceva uscire tanti raggi distinti delle sue virtù, che entrando nel mio [cuore], mi sentivo tutta rafforzare nelle virtù. Poi ha soggiunto: “Che altro vuoi?”
Ed io, ricordandomi che nei giorni passati un dolore che soffrivo m’impediva che i miei sensi si perdessero in Dio, gli ho detto: “Benigno mio Gesù, fa che il dolore non m’impedisca di potermi perdere in te”.
E Gesù, toccandomi con la sua mano la parte sofferente, ha mitigato l’acerbità dello spasimo, in modo che posso raccogliermi e perdermi in lui.
Agosto 27, 1899  (65)
Effetti che sperimenta l’anima quando viene Gesù.
Questa mattina, mentre vedevo il mio dolce Gesù, mi sentivo un timore che non fosse lui, ma il demonio per illudermi. E Gesù rispondendomi al timore mi ha detto:
“Quando sono io che mi presento all’anima, tutte le interiori potenze si annichiliscono e conoscono il loro nulla, ed io vedendo l’anima umiliata, faccio sovrabbon­dare il mio amore come tanti ruscelli, in modo da inondarla tutta e fortificarla nel bene. Tutto al contrario succede quando è il demonio”.
Agosto 30, 1899  (66)
Gesù le mostra lo stato lacrimevole del mondo e le predice futuri castighi.
Questa mattina il mio diletto Gesù mi ha trasportato fuori di me stessa e mi ha fatto vedere il decadimento della religione negli uomini ed un preparativo di guerra. Io gli ho detto: “Oh, Signore, in che stato lacrimevole si trova il mondo in questi tempi in fatto di religione! Pare che nel mondo non più si riconosce colui che nobilita l’uomo e lo fa aspirare ad un fine eterno, ma quello che più fa piangere è che si ignora la religione da parte di quegli stessi che si dicono religiosi, che dovrebbero metter la propria vita per difenderla e fare che rivivesse”.
E Gesù prendendo un aspetto afflittissimo mi ha detto: “Figlia mia, questa è la causa che l’uomo vive da bestia, perché ha perduto la religione; ma tempi più tristi verranno per l’uomo in[71] pena della cecità in cui egli stesso si è immerso, tanto che mi [si] stringe il cuore a vederlo. Ma il sangue farà rivivere questa santa religione; il sangue che farò spargere da ogni specie di gente, da secolari e da religiosi, innaffierà il resto delle genti inselvatichite che rimarranno, ed ingentilendole di nuovo restituirà loro la loro nobiltà. Ecco la necessità che il sangue si sparga e che le stesse chiese restino quasi abbattute, per fare che ritornassero di nuovo ed esistessero col loro primiero lustro e splendore”.
Ma chi può dire lo strazio crudele che ne faranno nei tempi avvenire? Ma lo passo in silenzio, perché non ricordo tanto bene e non lo veggo tanto chiaro; se il Signore vuole che ne faccio parola mi darà più chiarezza, ed allora prenderò di nuovo la penna in questo argomento. Perciò per ora faccio punto.
Agosto 31, 1899  (67)
Riceve dal confessore l’ubbidienza di respingere Gesù.
Avendo il confessore data l’ubbidienza che quando veniva Gesù dovevo dire: “Non posso parlare, allonta­natevi”, io l’ho preso per uno scherzo e non come obbedienza formale. Perciò quando Gesù è venuto, quasi non badando all’ordine ricevuto, ho ardito di dirgli: “Mio buon Gesù, vedi un po’ che cosa vuol fare il padre”.
Ed egli mi ha detto: “Figlia, abnegazione”.
Ed io: “Neh, Signore, ma la cosa è seria, si tratta che non devo voler te; come lo posso?”
Ed egli, per la seconda volta: “Abnegazione”.
Ed io: “Neh, Signore, che dici? Conosci tu che posso stare senza di te?”
Ed egli, per la terza volta: “Ma, figlia mia, abnegazione”, ed è scomparso.
Chi può dire come son rimasta nel vedere che Gesù voleva che mi disponessi all’ubbidienza?
Settembre 1, 1899  (68)
Respinge ripetutamente Gesù; suo martirio. Gesù le dice cose mirabili sull’ubbidienza.
Essendo venuto il confessore mi ha domandato se avessi fatto l’ubbidienza, ed avendogli detto la cosa come era andata, ha rinnovato l’ubbidienza che assolutamente non dovessi discorrere con Gesù, mio solo ed unico conforto, e che dovevo cacciarlo se venisse. Ed ecco che avendo capito che l’ubbidienza che mi si dava era vera, nel mio interno ho detto il Fiat Voluntas Tua, anche in questo. Ma, oh, quanto mi costa, e che crudele martirio! Mi sento come un chiodo fitto nel cuore, che me lo trapassa da parte a parte; e siccome il cuore è abituato a chiedere e desiderare Gesù continuamente, tanto che come è continuo il respirare ed il palpitare, così mi pare che è continuo il desiderare e volere il solo mio Bene, quindi volere impedire questo, sarebbe lo stesso che volere impedire ad un altro il respirare ed il palpitare del cuore; come si potrebbe vivere? Eppure bisogna far prevalere l’ubbidienza. Oh, Dio, che pena, che strazio atroce! Come impedire al cuore che chieda la sua stessa vita? Come frenarlo? La volontà si metteva con tutta la sua forza a frenarlo, ma siccome ci voleva continuamente gran vigilanza, di tanto in tanto si stancava e si avviliva, il cuore faceva la sua scappata e chiedeva Gesù. La volontà, avvertendosi di questo, si metteva con maggior forza a frenarlo; ma che, ci perdeva spesso spesso, quindi mi pareva che facessi continui atti di disubbidienza. Oh, in quali contrasti, che guerra sanguinolenta, che agonie mortali soffriva il mio povero cuore! Mi trovavo in tali strettezze ed in tali sofferenze che sentivo che[72] se ne andasse la vita. Eppure era questo un conforto per me, se potessi morire. Ma no, quello ch’era più, che si sentiva[no] pene di morte, ma senza poterne morire!
Onde dopo aver versato lacrime amarissime tutto il giorno, la notte, trovandomi nel mio solito stato, il mio sempre benigno Gesù è venuto, ed io costretta dall’ub­bidienza gli ho detto: “Signore, non ci venite, che l’ub­bidienza non vuole!”
E lui, compatendomi e volendomi fortificare nelle sofferenze che mi trovavo, con la sua mano creatrice ha segnato la mia persona con [un] segno grande di croce, e mi ha lasciato. Ma chi può dire il purgatorio in cui mi trovavo? Ed il più era che non potevo slanciarmi verso il mio sommo ed unico Bene. Ah, sì! Mi era negato di chiedere e desiderare Gesù. A quelle anime benedette del purgatorio viene permesso di chiedere, di slanciarsi, di sfogarsi verso il sommo Bene, solo viene loro vietato il prenderne possesso; a me no, m’era negato anche questo conforto. Quindi tutta la notte non ho fatto altro che piangere. Quando la mia debole natura non ne poteva più, l’amabile Gesù è ritornato in atto di volere parlare con me, ed io subito ricordandomi dell’ubbidienza che vuole soprattutto regnare, gli ho detto: “Cara mia vita, non posso parlare, e non venite, che l’ubbidienza non vuole; se vuoi far capire la tua Volontà, vai da loro[73]”.
Mentre così dicevo ho visto il confessore, e Gesù avvicinatosi a lui gli ha detto: “Questo è impossibile alle anime mie; le tengo tanto immerse in me da formare una stessa sostanza, tanto che non si discerne più l’una dall’altra; è come quando si uniscono due sostanze insieme, una si trasmette nell’altra, e dopo anche a volerle separare riesce inutile anche il pensarlo. Così è impossibile che le anime mie possano stare separate da me”. E detto questo si è partito, ed io son rimasta in più [grande] afflizione di prima. Il cuore mi batteva tanto forte che mi sentivo crepare il petto.
Dopo ciò, non so dire come, mi son trovata fuori di me stessa, e dimenticandomi, non so come, dell’ub­bidienza ricevuta, ho girato la volta dei cieli piangendo, gridando e cercando il mio dolce Gesù. Quando al meglio me lo sono visto venire, gettandosi fra le mie braccia tutto acceso, e languendo, subito mi son ricordata del comando ricevuto e gli ho detto: “Signore non volermi tentare questa mattina; non sapete che l’ubbi­dienza non vuole?”
Ed egli: “Mi ha mandato il confessore, perciò son venuto”.
Ed io: “Non è vero, sei forse qualche demonio, che vuoi ingannarmi e farmi mancare all’ubbidienza?”
E Gesù: “Non sono demonio”.
Ed io: “Se non sei demonio, facciamoci a vicenda il segno di croce”. E così ci siamo segnati tutti e due con la croce, poi ho seguitato a dirgli: “Se è vero che ti ha mandato il confessore, andiamo da lui, affinché egli stesso possa vedere se sei Gesù Cristo oppure demonio, allora posso essere sicura”. Così siamo andati dal confessore, e siccome [Gesù] era da bambino, l’ho dato in braccio a lui dicendogli: “Padre, vedete voi stesso, è il mio dolce Gesù o no?” Ora mentre Gesù benedetto stava col padre, gli ho detto: “Se sei veramente Gesù, bacia la mano al confessore”.
Nella mia mente pensavo che se fosse il Signore avrebbe fatto quell’umiliazione di baciare la mano, ma se fosse demonio, no. E Gesù la baciò, ma non all’uomo, ma alla potestà sacerdotale; così l’ha baciata. Dopo ciò il confessore pareva che lo scongiurasse per vedere se fosse demonio, e non trovandolo tale l’ha restituito a me. Ma con tutto ciò, il mio povero cuore non poteva godere gli amplessi del mio diletto Gesù, perché l’ubbi­dienza lo teneva come legato, inceppato; tanto più che non ci stava nessun ordine in contrario ancora, quindi non ardivo di sfogarmi, neppure di dire una parola di amore.
Oh, santa ubbidienza! Quanto tu sei forte e potente! Io ti veggo in questi giorni di martirio innanzi a me come un guerriero potentissimo, armato dalla testa ai piedi, di spade, di saette, di frecce, ripieno di tutti quegli strumenti atti a ferire; e quando vedi che il mio povero cuore stanco e lasso vuole sollevarsi cercando il suo refrigerio, la sua vita, il centro cui, come da calamita si sente tirare, tu, guardandomi con mille occhi, da tutte le parti mi ferisci con ferite mortali. Deh, abbi pietà di me e non essere meco crudele!
Ma mentre ciò dicevo, la voce del mio adorabile Gesù mi si fece sentire al mio orecchio, che diceva: “L’ubbi­dienza fu tutto per me, l’ubbidienza voglio che sia tutto per te. L’ubbidienza mi fece nascere, l’ubbidienza mi fece morire; le piaghe che tengo nel mio corpo sono tutte ferite e segni che mi fece l’ubbidienza. Con ragione hai tu detto ch’è un guerriero potentissimo armato d’ogni specie di armi atte a ferire, perché in me non mi lasciò neppure una goccia di sangue, mi svelse a brani le carni, mi slogò le ossa, ed il mio povero cuore, affranto, sanguinolento, andava cercando un sollievo da chi avesse di me compassione. L’ubbidienza facendosi con me più che crudel tiranno, allora si contentò, quando mi sacrificò sulla croce, e vittima mi vide spirare per suo amore. E perché ciò? Perché l’ufficio di questo potentissimo guerriero è di sacrificare le anime; quindi non fa altro che muovere guerra accanita a chi tutto non si sacrifica per lei; onde non ha nessun riguardo se l’anima soffra o goda, se viva o muoia; i suoi occhi sono intenti a vedere se lei vince, che delle altre cose, non si briga affatto.
Onde il nome di questo guerriero è vittoria, perché tutte le vittorie concede all’anima obbediente; e quando pare che questa muore, allora incomincia la vera vita. E che cosa non mi concesse l’ubbidienza di più grande? Per suo mezzo vinsi la morte, sconfissi l’inferno, sciolsi l’uomo incatenato, aprii il cielo e come re vittorioso presi possesso del mio regno, non solo per me, ma per tutti i miei figli che avrebbero profittato della mia redenzione. Ah, sì! È vero che mi fece costare la vita, ma il nome ubbidienza mi risuona dolce al mio udito, e perciò tanto amore prendo a[74] quelle anime che sono obbedienti”.
Riprendo a dire da dove ho lasciato.
Dopo poco è venuto il confessore, ed avendogli detto tutto ciò che ho detto di sopra, mi ha rinnovato l’obbe­dienza che avessi continuato lo stesso[75]. Ed avendogli detto: “Padre, permettete almeno di darmi la libertà al cuore di chiedere Gesù; che l’ubbidienza di dire, quando viene: ‘Non ci venite’ e ‘non posso discorrere’, la faccio”; egli [mi ha risposto]: “Fa quanto puoi a frenarlo, e quando non puoi, allora dagli la libertà”.
Settembre 2, 1899  (69)
Continua a respingere Gesù, ma finalmente il confessore la libera dall’ubbidienza.
Onde, [con] questa ubbidienza un po’ più mite, il mio povero cuore pareva [che] da morto incominciasse un po’ a vivere; ma con tutto ciò non mi lasciava d’essere straziato[76] in mille guise, perché l’ubbidienza, quando vedeva che il cuore si fermava un po’ di più in cerca del suo autore, quasi che si volesse in lui riposare, perché sfinito di forze, mi dava sopra[77] e coi suoi artigli tutta mi feriva. E poi quel dover ripetere quel ritornello, quando il benedetto Gesù si faceva vedere: “Non ci venite, non posso discorrere, che l’ubbidienza non vuole”, era per me il più atroce e crudel martirio.
Onde il mio dolce Gesù, trovandomi nel mio solito stato, è venuto, ed io gli ho manifestato il comando ricevuto; e lui se n’è andato. Una sol volta, mentre io gli stavo dicendo: “Non ci venite, che l’ubbidienza non vuole”, mi ha detto:
“Figlia mia, abbi sempre innanzi alla tua mente la luce della mia passione, che nel vedere le mie pene acerbissime, le tue ti parranno piccole, e nel considerare la causa per cui soffrii tanti dolori immensi, che fu il peccato, i più piccoli difetti ti parranno gravi; invece se non ti specchierai in me, le più piccole pene ti sembreranno pesanti ed i difetti gravi li reputerai cosa da niente”. Ed è scomparso.
Dopo poco è venuto il confessore, ed avendogli domandato se ancora dovessi continuare questa obbedienza, mi ha detto: “No, puoi dirgli ciò che vuoi, e tienilo quanto vuoi”.
Pare che sono lasciata libera e non ho tanto a che fare con questo guerriero sì potente, altrimenti questa volta si sarebbe reso tanto forte che mi dava la morte; ma però mi avrebbe fatto fare un gran guadagno, perché mi sarei unita per sempre al sommo Bene, non ad intervalli, e lo avrei ringraziato, non solo, ma gli avrei cantato il cantico dell’ubbidienza, cioè il cantico delle vittorie; quindi me ne sarei risa di tutta la sua fortezza. Ma mentre ciò dicevo innanzi a me è comparso un occhio risplendente e bello, ed una voce che diceva: “Ed io mi sarei unito insieme con te e mi sarei compiaciuto di ridere, ma purché fosse stata mia la vittoria”.
Ed io: “O cara obbedienza, che dopo aver fatto una risata insieme, ti avrei lasciata alla porta del paradiso per dirti addio, e non più rivederci, per non aver a che fare con te, e me ne sarei ben guardata di lasciarti entrare!”
Settembre 5, 1899  (70)
Gesù le dice che egli opera la perfezione a passo a passo.
Questa mattina mi trovavo in tale abbattimento d’ani­mo, e mi vedevo tanto cattiva, che io stessa mi rendevo insopportabile. Essendo venuto Gesù, gli ho detto le mie pene e lo stato miserabile in cui mi trovavo, ed egli mi ha detto: “Figlia mia, non volere perderti di coraggio; questo è mio solito, di operare la perfezione a passo a passo e non tutto in un istante, affinché l’anima, vedendosi sempre in qualche cosa manchevole, si spinga, faccia tutti gli sforzi per raggiungere ciò che le manca, affine di più piacermi e di maggiormente santificarsi. Onde io, tirato da quegli atti, mi sento sforzato a darle nuove grazie e favori celesti, e con ciò si viene a formare un commercio tutto divino tra l’anima e Dio. Diversamente, possedendo l’anima in sé la pienezza della perfezione e quindi tutte le virtù, non troverebbe modi come sforzarsi come più piacergli[78], onde verrebbe a mancare l’esca come accendere il fuoco tra la creatura e il Creatore”.
Sia sempre benedetto il Signore!
Settembre 9, 1899  (71)
Gesù le parla del nulla delle anime e dell’amore che porta a lei.
Continua Gesù a venire, ma in un aspetto tutto nuovo. Pareva che dal suo cuore benedetto uscisse un tronco d’albero che conteneva tre radici distinte; e questo tronco, dal suo [cuore si] sporgeva nel mio, ed uscendo dal mio cuore, il tronco formava tanti bei rami carichi di fiori e di frutti, di perle e di pietre preziose risplendenti come stelle fulgidissime. Ora il mio amante Gesù, vedendosi all’ombra di quest’albero, tutto si ricreava; molto più che dall’albero cadevano tante perle che formavano un bell’ornamento all’umanità sua santissima.
Mentre stava in questa posizione mi ha detto: “Figlia mia carissima, le tre radici che vedi che contiene que­st’albero sono la fede, la speranza e la carità. E siccome tu vedi [che] questo tronco esce da me e s’introduce nel tuo cuore, ciò significa che non c’è bene che posseggano le anime che non venga da me. Sicché dopo la fede, la speranza e la carità, il primo sviluppo che fa questo tronco è il far conoscere che tutto il bene viene da Dio, che [le anime], di loro[79] non hanno altro che il proprio nulla, e che questo nulla non fa altro che darmi la libertà di farmi entrare in loro e farmi operare ciò che voglio; mentre vi sono altri ‘nulli’, cioè altre anime che con la loro libera volontà si oppongono; onde mancando questa conoscenza il tronco non produce né rami né frutti e nessun’altra cosa di buono.
I rami che contiene quest’albero, con tutto l’apparato dei fiori, frutti, perle e pietre preziose, sono tutte le diverse virtù che può possedere l’anima. Ora chi ha dato la vita a quest’albero così bello? Certo le radici; ciò significa che la fede, la speranza e la carità, tutto abbracciano, tutte le virtù contengono, tanto che sono messe come base e fondamento dell’albero, e senza di loro non si può produrre nessun’altra virtù”.
Onde ho compreso pure che i fiori significano le virtù, i frutti i patimenti, le pietre e le perle preziose il patire puramente per il solo amore di Dio. Ecco perciò quelle perle che cadevano, formavano quel bell’ornamento a Nostro Signore. Or mentre Gesù sedeva all’ombra di quest’albero, mi guardava con tenerezza tutta paterna, onde preso da un trasporto amoroso, che non ha potuto contenere in sé, e strettamente abbracciandomi, ha incominciato a dire:
“Quanto sei bella! Tu sei la mia semplice colomba, la mia diletta dimora, il mio vivo tempio in cui unito col Padre e lo Spirito Santo mi compiaccio di deliziarmi. Il tuo continuo languire per me, mi solleva e ristora dalle continue offese che mi fanno le creature. Sappi ch’è tanto l’amore che ti porto, che son costretto a nasconderlo in parte, per fare che tu non impazzisca, e non potessi vivere, ché se te lo facessi vedere, non solo impazziresti, ma non potresti continuare a vivere; la tua debole natura resterebbe consumata dalle fiamme del mio amore”.
Mentre ciò diceva io mi sentivo tutta confondere ed annichilire e mi sentivo sprofondare nell’abisso del mio nulla, perché mi vedevo tutta imperfetta; specialmente notavo la mia ingratitudine e freddezze alle tante grazie che il Signore mi fa. Ma spero che tutto vuole ridondare a sua gloria ed onore, sperando con ferma fiducia che uno sforzo del suo amore voglia vincere la mia durezza.
Settembre 16, 1899  (72)
Gesù le mostra i mirabili effetti del patire solo per Dio.
Questa mattina il mio adorabile Gesù è venuto, e temendo che fosse il demonio gli ho detto: “Permettetemi che vi segni la fronte con la croce”; e nell’atto stesso l’ho segnato e così sono restata più sicura e tranquilla. Ora Gesù benedetto pareva stanco e si voleva riposare in me; e siccome anch’io mi sentivo stanca per le sofferenze dei giorni passati, specialmente per le sue pochissime venute, onde mi sentivo la necessità di riposarmi in lui. Quindi dopo aver contrastato un poco insieme, mi ha detto:
“La vita del cuore è l’amore. Io sono come un infermo che brucia di febbre, che va trovando[80] un rinfresco, un sollievo nel fuoco che lo divora. La mia febbre è l’amore; ma dove estraggo i rinfreschi, i sollievi più adatti al fuoco che mi consuma? Dalle pene e dagli affanni sofferti dalle anime mie predilette, per solo mio amore. Molte volte sto aspettando e riaspettando quando l’anima deve volgersi a me per dirmi: ‘Signore, solo per amor vostro voglio soffrire questa pena’. Ah, sì, questi sono i miei refrigeri ed i rinfreschi più adatti che mi sollevano e mi smorzano il fuoco che mi consuma!”
Dopo ciò si è gettato nelle mie braccia languendo, per riposarsi. Mentre Gesù riposava, io comprendevo molte cose sulle parole dette da Gesù, specialmente sul patire per amor suo. Oh, che moneta d’inestimabile valore! Se tutti la conoscessimo, faremmo a gara a chi più potesse patire; ma io credo che siamo tutti corti di vista per conoscere questa moneta sì preziosa, perciò non si giunge ad averne conoscenza.
Settembre 19, 1899  (73)
Gesù torna a parlarle della fede, della speranza e della carità.
Trovandomi questa mattina un poco turbata, specialmente sul timore che non è Gesù che viene, ma il demonio, e che non fosse Volontà di Dio il mio stato, mentre mi trovavo in questa agitazione, è venuto il mio adorabile Gesù e mi ha detto:
“Figlia mia, non voglio che ci perdi il tempo col pensare a questo; tu ti distrai da me e vieni a farmi mancare il cibo come nutrirmi, ma quello che voglio, [è] che pensi ad amarmi soltanto ed a starti tutta abbandonata in me; così mi appresterai un cibo a me molto gradito, e non di tanto in tanto come faresti se continuassi a fare così, ma continuamente. E non sarebbe questo tuo contento grandissimo, che la tua volontà, con lo stare abbandonata in me e con l’amarmi, fosse cibo di me, tuo Dio?”
Dopo ciò mi ha fatto vedere il suo cuore, e dentro vi conteneva tre globi di luce distinti, e che poi [ne] formava[no] uno solo; e Gesù riprendendo il suo dire mi ha detto: “I globi di luce che vedi nel mio cuore sono la fede, la speranza e la carità, che portai sulla terra per felicitare l’uomo sofferente, offrendogli[eli] in dono; onde anche a te ne voglio fare un dono più speciale”. E mentre così diceva, da quei globi di luce uscivano come tanti fili di luce che inondavano l’anima mia, come una specie di rete, ed io vi rimanevo dentro.
E Gesù: “Eccoti dove voglio che occupi l’anima tua. Prima vola sulle ali della fede, ed in quella luce, tuffandoti, conoscerai ed acquisterai sempre nuove notizie di me tuo Dio; ma col più conoscermi, il tuo nulla si sentirà quasi disperso e non avrai dove appoggiarti; ma tu sollevati di più, e gettandoti nel mare immenso della speranza, quali sono tutti i miei meriti che acquistai nel corso della mia vita mortale, tutte le pene della mia passione, che pure ne feci dono all’uomo, e che solo per mezzo di questo puoi sperare i beni immensi della fede, perché non c’è altro mezzo come poterli ottenere. Quindi tu avvalendoti di questi miei meriti come se fossero tuoi, il tuo nulla non si sentirà più disperso e sprofondato nell’abisso del niente, ma acquistando nuova vita, [la tua anima] resterà abbellita, arricchita in modo tale, d’attirarsi gli stessi sguardi divini. Ed allora, non più timidità, ma la speranza le somministrerà il coraggio, la fortezza, in modo da rendere l’anima stabile come colonna esposta a tutte le intemperie dell’aria, quali sono le varie tribolazioni della vita, che non la smuovono un tantino. E la speranza farà che, non solo l’anima senza timore s’immergerà nelle immense ricchezze della fede, ma se ne renderà padrona; e giungerà a tanto con la speranza, da rendere suo lo stesso Dio. Ah, sì! La speranza fa giungere l’anima dove vuole, la speranza è la porta del cielo, sicché solo per suo mezzo si apre, perché chi tutto spera tutto ottiene.
Onde l’anima, giunta che sarà a fare suo lo stesso Dio, subito, senza nessun ostacolo, si troverà nell’ocea­no immenso della carità; ed ivi portando con sé la fede e la speranza, s’immergerà dentro e farà una sola cosa con me, suo Dio”.
L’amantissimo Gesù continua a dire: “Se la fede è il re, la carità è la regina, la speranza è qual madre paciera che mette pace a tutto; perché con la fede, con la carità, ci possono stare le tribolazioni, ma la speranza essendo vincolo di pace converte tutto in pace. La speranza è sostegno, la speranza è ristoro; e quando l’anima sollevandosi con la fede, vede la bellezza, la santità, l’amore con cui da Dio viene amata, l’anima si sente attirata ad amarlo, ma vedendo la sua insufficienza, il poco che fa per Dio, il come dovrebbe amarlo e non l’ama, si sente sconfortata, turbata e quasi non ardisce d’avvicinarsi a Dio; subito esce questa madre paciera della speranza, e mettendosi in mezzo alla fede e alla carità incomincia a fare il suo uffizio di paciera; quindi mette in pace di nuovo l’anima, la spinge, la solleva, le dà nuove forze, e portandola innanzi al re della fede ed alla regina della carità, fa le sue scuse per l’anima, mette innanzi all’ani­ma nuova effusione dei suoi meriti e li prega di volerla[81] ricevere. E la fede e la carità, avendo di mira solo questa madre paciera sì tenera e compassionevole, ricevono l’anima, e Dio forma la delizia dell’anima e l’anima la delizia di Dio”.
Oh, santa speranza, quanto tu sei ammirabile! Io m’immagino di vedere l’anima ch’è posseduta da questa bella speranza, come un nobile viandante che cammina per andare a prendere possesso d’un podere che formerà tutta la sua fortuna, ma siccome è sconosciuto e viaggiante tra terre che non sono sue, chi lo deride, chi l’insulta, chi lo spoglia delle sue vesti e chi giunge a bastonarlo e a minacciarlo di togliergli anche la pelle; ed il nobile viandante, che fa in tutti questi cimenti? Si turberà egli? Ah, non mai! Anzi deriderà coloro che gli faranno tutto questo; e conoscendo certo che quanto più soffrirà tanto più sarà onorato e glorificato quando giungerà a prendere possesso del suo podere, quindi lui stesso stuzzica la gente a fare che più lo potessero tormentare. Ma lui è sempre tranquillo, gode la più perfetta pace, ma quello ch’è più, mentre si trova in mezzo a que­st’insulti egli se ne sta tanto calmo, che mentre gli altri sono tutti desti intorno a lui, egli se ne sta dormendo nel seno del suo sospirato Iddio. Chi somministra a questo viandante tanta pace e tanta pazienza nel seguitare l’intrapreso cammino? Certo la speranza dei beni eterni che saranno suoi; ed essendo suoi supererà tutto per prenderne possesso. Poi, pensando che sono suoi viene ad amarli ed ecco che la speranza fa nascere la carità.
Chi può dire poi secondo la luce che Gesù benedetto mi fa vedere? Avrei voluto passarla in silenzio, ma veggo che la signora ubbidienza, deponendo la veste amichevole di amicizia, prende aspetto di guerriero e sta armando le sue armi per farmi guerra e ferirmi. Deh, non vi armiate così subito, deponete i vostri artigli! State quieta, che per quanto posso, farò come tu dici e così resteremo sempre amici.
Ora, portata l’anima nell’estesissimo mare della carità, prova delizie ineffabili, gode gioie inenarrabili ad anima mortale; tutto è amore, i suoi pensieri sono tante voci sonore che [essa] fa risuonare intorno al suo amantissimo Iddio, tutte [voci] d’amore che lo chiamano a sé, di modo che Iddio benedetto, tirato, ferito da queste voci amorose, ne fa il contraccambio, e ne avviene che i sospiri, i palpiti e tutto l’Essere Divino chiamano continuamente l’anima a Dio.
Chi può dire poi come resta ferita l’anima da queste voci? Come incomincia a delirare, come se fosse presa da febbre cocentissima? Come corre, quasi impazzita, e va a tuffarsi nell’amoroso cuore del suo diletto per trovare refrigerio, ed a torrenti succhia le delizie divine? Ella vi resta ebbra d’amore, e nella sua ebbrezza fa dei cantici tutti amorosi al suo sposo dolcissimo. Ma chi può dire tutto ciò che passa tra l’anima e Dio? Chi può dire su questa carità, qual è Dio medesimo?
In questo istante mi veggo una luce grandissima, e la mia mente ora rimane stupita; si applica ora ad un punto, ora ad un altro, e faccio per dettarlo[82] sulla carta e mi sento balbuziente nell’esprimerlo. Onde non sapendo che fare, per ora faccio silenzio; e credo che la signora obbedienza per questa volta voglia perdonarmi, che se essa vuole corrucciarsi meco, questa volta non ha tanta ragione, perché il torto è suo perché non mi dà una lingua spedita a saperlo dire. Avete inteso, reverendissima obbedienza? Restiamo in pace, non è vero?
Settembre 21, 1899  (74)
Contrasti con l’ubbidienza; Gesù le mostra il perché del suo stato.
Eppure chi doveva dirlo[83]: tutto il torto è suo, che non mi dà la capacità di saperlo manifestare; la signora obbedienza se l’è presa a male ed ha cominciato a farla da tiranno crudele, ed è giunta a tale crudeltà che mi ha tolto la vista dell’amante mio Bene, solo ed unico mio conforto. Si vede proprio che delle volte la fa anche da bambina, che quando vuole vincere un capriccio, se non lo vince con le buone assorda la casa con grida e con pianti, tanto che si è costretti a contentarla per forza. Non ci sono ragioni, non c’è via di mezzo come persuaderla; così fa la signora obbedienza; e brava, non ti avrei creduto tale, siccome vuole vincere lei, vuole che anche balbuziente scriva sulla carità.
Oh, Dio santo, rendetela voi stesso più ragionevole! Si vede proprio che non si può tirare innanzi in questo modo. E tu, o obbedienza, rendimi il mio dolce Gesù, non mi toccare più al vivo, e ti prego di non togliermi più la vista del mio sommo Bene, ed io ti prometto che anche balbuziente scriverò come tu vuoi. Solo vi chieggo in grazia di farmi rinfrancare per qualche giorno, perché la mia mente troppo piccola non si regge più a stare immersa in quel vasto oceano della carità divina, specialmente che là vi scorge di più le mie miserie e la mia bruttezza, e nel vedere l’amore che Dio mi porta, mi sento quasi impazzire, onde la mia debole natura si sente venir meno e non ne può più. Ma nello stesso tempo mi occuperò a scrivere altre cose, per poi riprendere sulla carità.
Riprendo il mio povero dire. Trovandosi la mia mente occupata delle cose già dette, andavo pensando tra me: “A che pro scrivere questo se io stessa non praticassi ciò che scrivo? Questo scritto sarebbe certo una mia condanna”.
Mentre ciò pensavo, è venuto il benedetto Gesù e mi ha detto: “Questo scritto servirà a far conoscere chi è colui che ti parla e occupa la tua persona; e poi se non serve a te, la mia luce servirà ad altri che leggeranno ciò che ti faccio scrivere”.
Chi può dire quanto son rimasta mortificata nel pensare che altri profitteranno delle grazie che mi fa, se leggeranno questi scritti, ed io che li ricevo, no? Non mi condanneranno essi? E poi solo al pensar che giungeranno in mano d’altri mi si stringe il cuore per la pena e pel rossore di me stessa. Ora, rimanendo in grandissima afflizione, andavo ripetendo: “A che pro il mio stato, se [mi] servirà di condanna?”
E l’amorosissimo mio Gesù ritornando mi ha detto: “La mia vita fu necessaria per la salvezza dei popoli, e siccome la mia non la potei continuare sulla terra, perciò eleggo chi mi piace per continuarla in loro, per poter continuare la salvezza dei popoli; ecco il pro del tuo stato”.
Settembre 22, 1899  (75)
Gesù le mostra i fini dei suoi scritti; contrasti con l’ubbidienza.
Sentendomi un chiodo fitto nel cuore per le parole dette ieri dal dolce Gesù, essendo egli sempre benigno con questa miserabile peccatrice, per sollevare le mie pene è venuto e tutto compatendomi mi ha detto: “Figlia mia, non volere più affliggerti; sappi che tutto ciò che ti faccio scrivere, o sulle virtù o sotto qualche similitudine, non è altro che un farti dipingere te stessa ed a quale perfezione ho fatto giungere l’anima tua”.
Oh, Dio, che gran ripugnanza provo nel descrivere queste parole, perché non parmi vero quello che dice! Mi sento che non capisco ancora che cosa sia virtù e perfezione, ma l’ubbidienza così vuole, ed è meglio crepare che avere [a] che fare con lei; molto più perché ha due facce: se si fa come lei dice, prende l’aspetto di signora e ti accarezza come amica fedelissima, di più ti promette tutti i beni che ci sono in cielo ed in terra; poi appena scorge un’ombra di difficoltà in contrario, subito, senza farsi avvertire, si fa guardare e [la] si trova guerriero e sta armato delle sue armi per ferirti e distruggerti. Oh, mio Gesù, che razza di virtù è questa obbedienza? Essa fa tremare al solo pensarla!
Onde mentre Gesù mi diceva quelle parole, io gli ho detto: “Mio buon Gesù, che giova all’anima mia l’aver tante grazie, mentre dopo mi amareggiano tutta la vita mia, specialmente per le ore di tua privazione? Perché il comprendere chi tu sei e di chi son priva, è un continuo martirio per me, quindi non mi servono ad altro che a farmi vivere continuamente amareggiata”.
Ed egli ha soggiunto: “Quando una persona ha gustato il dolce d’un cibo e poi è costretta a prendere l’amaro, per toglierle quell’amarezza si accresce al doppio il desiderio di gustare il dolce; e questo giova molto a quella persona, perché se gustasse sempre il dolce senza gustare mai l’amaro, non ne terrebbe gran conto del dolce; se gustasse sempre l’amaro ma senza conoscere il dolce, non conoscendolo non ne verrebbe neppure a desiderarlo; quindi l’uno e l’altro giova, così giova anche a te”.
Ed io: “Pazientissimo mio Gesù nel sopportare un’anima così misera ed ingrata, perdonami; mi pare che questa volta voglio troppo investigare”.
E Gesù: “Non ti turbare, sono io stesso che muovo le difficoltà nel tuo interno per avere occasione di conversare con te, ed insieme per ammaestrarti in tutto”.
Settembre 25, 1899  (76)
Timori che i suoi scritti possano andare fra le mani altrui.
Nella mia mente stavo pensando: “Se questi scritti andassero in mano di qualcuno, forse diranno: ‘Sarà una buona cristiana, ma il Signore le fa tante grazie’, senza sapere che con tutto ciò sono ancora tanto cattiva. Ecco come le persone si possono ingannare, tanto nel bene quanto nel male. Ah, Signore, tu solo conosci la verità ed il fondo dei cuori!”
Mentre ciò pensavo, è venuto il benedetto Gesù e mi ha detto: “Diletta mia, se le genti sapessero che tu sei la mia difenditrice e la loro…!”
Ed io: “Mio Gesù, che dici?”
Ed egli: “Come, non è vero che tu mi difendi dalle pene che essi mi fanno, col metterti in mezzo fra me e loro, e prendi sopra di te, ed il colpo che stavo per ricevere sopra di me e quello che io dovevo versare sopra di loro? Se qualche volta non lo ricevi sopra di te è perché non te lo permetto, e questo con tuo grande rammarico, fino a lamentarti con me; puoi tu forse negarlo?”
No, Signore, non posso negarlo, ma veggo che è una cosa che tu stesso hai infuso in me, perciò dico che il fatto non è che io son buona, e mi sento tutta confusa nel sentirmi dire da te queste parole.
Settembre 26, 1899  (77)
Gesù le mostra i motivi perché non fa nessun conto delle sue opposizioni.
Questa mattina, essendo venuto il mio adorabile Gesù, mi ha trasportato fuori di me stessa; ma con mio sommo rammarico lo vedevo di spalle, e per quanto l’ho pregato di farmi vedere il suo santissimo volto mi riusciva impossibile. Nel mio interno andavo dicendo: “Chi sa che non siano le mie opposizioni sull’ubbidien­za nello scrivere, che non si benigna di far vedere il suo volto adorabile!” E mentre ciò dicevo, piangevo.
Dopo che mi ha fatto piangere, si è voltato e mi ha detto: “Io non faccio nessun conto delle tue opposizioni, perché la tua volontà è tanto immedesimata con la mia che non puoi volere se non quello che voglio io; onde mentre ripugni, nell’atto stesso ti senti tirata come da una calamita a farlo; quindi le tue ripugnanze non servono ad altro che a rendere più abbellita e splendente la virtù dell’ubbidienza, perciò non le curo”.
Dopo ho guardato il suo bellissimo volto e nel mio interno sentivo un contento indescrivibile; ed a lui rivolta gli ho detto: “Dolcissimo amor mio, e sono io, e prendo[84] tanto diletto nel rimirarti, che dovette essere della nostra Mamma Regina quando ti rinchiudesti nelle sue viscere purissime? Quali contenti, quante grazie non le conferisti?”
E lui: “Figlia mia, furono tali e tante le delizie e le grazie che versai in lei, che basta dirti che ciò che io sono per natura, la nostra Madre lo divenne per grazia; molto più che, non avendo colpa, la mia grazia potè signoreggiare in lei liberamente; sicché non c’è cosa dell’essere mio che non lo conferii a lei”.
In quell’istante mi pareva di vedere la nostra Regina Madre come se fosse un altro Dio, con questa sola differenza: che in Dio è natura sua propria, in Maria Santissima grazia conseguita. Chi può dire come son rimasta stupita? Come la mia mente si perdeva nel vedere un portento di grazia sì prodigioso? Onde a lui rivolta, gli ho detto: “Caro mio Bene, la nostra Madre ebbe tanto bene perché vi facevate vedere intimamente; io vorrei sapere: ed a me come vi mostrate, con la vista astrattiva o intuitiva? Chi sa se pure è astrattiva”.
E lui: “Voglio farti capire la differenza che vi è tra l’una e l’altra: nell’astrattiva l’anima rimira Dio, nell’in­tuitiva vi entra dentro e conseguisce le grazie, cioè riceve in sé la partecipazione dell’Essere Divino. E tu, quante volte non hai partecipato all’Essere mio? Quel patire che pare in te come se fosse connaturale, quella purità che giunge fino a sentire come se non avessi corpo, e tante altre cose, non te l’ho conferito quando ti ho tirato a me intuitivamente?”
Ah, Signore, troppo è vero! Ed io quali grazie ti ho reso per tutto questo? Qual è stata la mia corrispondenza? Sento rossore al solo pensarlo, ma deh, perdonatemi e fate che di me si possa conoscere e dal cielo e dalla terra come un soggetto delle tue infinite misericordie.
Settembre 30, 1899  (78)
È tentata di odiare il Signore, che le mostra come la pazienza nelle tentazioni è per lui pane sostanzioso.
Prima ho passato più d’un’ora d’inferno; alla sfuggita ho fatto per guardare l’immagine del bambino Gesù, ed un pensiero, come fulmine, ha detto al bambino: “Come sei brutto”. Ho cercato di non curarlo né turbarmi per fare di evitare qualche giuoco col demonio; eppure con tutto ciò quel fulmine diabolico mi è penetrato nel cuore e mi sentivo che il mio povero cuore odiava Gesù. Ah, sì, mi sentivo nell’inferno a fare compagnia ai dannati, mi sentivo l’amore cambiato in odio! Oh, Dio, che pena il non poterti amare! Dicevo: “Signore, è vero che non son degna di amarti, ma almeno accetta questa pena, che vorrei amarti e non posso”.
Così, dopo aver passato nell’inferno più d’un’ora, pare che ne sono uscita, grazie a Dio; ma chi può dire quanto il mio povero cuore [è] restato afflitto, debole per la guerra sostenuta tra l’odio e l’amore? Sentivo tale prostrazione di forze che mi pareva che non avessi più vita, onde sono stata sorpresa dal solito mio stato, ma oh, quanto decaduta di peso[85]! Il mio cuore e tutte le interiori potenze, che con ansia inenarrabile desiderano e vanno in cerca del loro sommo ed unico Bene, ed allora si fermano quando l’hanno già trovato, e con sommo loro contento se lo godono, questa volta non ardivano di muoversi, se ne stavano tanto annichilite, confuse e inabissate nel proprio nulla, che non si facevano sentire. Oh, Dio, che mazzata crudele ha dovuto subire il povero mio cuore!
Con tutto ciò il mio sempre benigno Gesù è venuto e la sua vista consolatrice mi ha fatto dimenticare subito d’essere stata nell’inferno, tanto che neppure ho chiesto perdono a Gesù. Le interiori potenze, umiliate, stanche come stavano, pareva che si riposavano in lui; tutto era silenzio; d’ambo le parti non c’era altro che qualche sguardo amoroso e ci ferivamo i cuori a vicenda. Dopo essere stata qualche tempo in questo profondo silenzio, Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ho fame, dammi qualche cosa”.
Ed io: “Non ho niente che darvi”.
Ma nell’atto stesso ho visto un pane e gliel’ho dato, e lui pareva che con tutto gusto se lo mangiasse. Ora nel mio interno dicevo: “È da qualche giorno che non mi dice niente”.
E Gesù ha risposto al mio pensiero: “Delle volte lo sposo si compiace di trattare con la sua sposa, di affidarle i più intimi segreti; altre volte poi si diletta con più gusto di riposarsi e contemplarsi a vicenda la loro bellezza, mentre il parlare impedisce di riposarsi, ed il solo pensiero di ciò che deve dire e di qualche cosa che si deve trattare, non fa badare a guardare la beltà dello sposo e della sposa; ma però questo serve che, dopo essersi riposati e [aver] compreso di più la loro bellezza, vengono più ad amarsi, e con maggior forza escono in campo per lavorare, trattare e difendere i loro interessi. Così sto facendo con te; non ne sei tu contenta?”
Dopo ciò un pensiero mi è balenato nella mente del­l’ora passata nell’inferno, e subito ho detto: “Signore, perdonami, quante offese vi ho fatto”.
E lui: “Non volerti affliggere né turbare, sono io che conduco l’anima, fin nel profondo dell’abisso, per poter poi condurla più spedita nel cielo”.
Di poi mi ha fatto comprendere che quel pane trovatomi[86] non era altro che la pazienza con cui avevo sopportato quell’ora di sanguinosa battaglia. Quindi la pazienza, l’umiliazione, l’offerta a Dio di ciò che si sof­fre in tempo di tentazione, è un pane sostanzioso che si dà a Nostro Signore e che lui accetta con molto gusto.
Ottobre 1, 1899  (79)
Gesù le parla con amarezza degli abusi dei sacramenti.
Questa mattina seguitava a farsi vedere in silenzio, ma in aspetto afflittissimo. L’amabile Gesù teneva sulla testa conficcata una folta corona di spine. Le mie interiori potenze me le sentivo in silenzio e non ardivano di dire una sola parola, solo che, vedendo che soffriva assai nella testa, ho steso le mani e pian piano gli ho tolto la corona; ma che acerbo spasimo soffriva! Come si allargavano le ferite ed il sangue scorreva a ruscelli! A dire il vero era cosa che strappava l’anima. Dopo l’ho messa sulla mia testa e lui stesso aiutava a fare sì che vi penetrasse dentro; ma tutto era silenzio d’ambo le parti. Ma qual è stata la mia meraviglia, che dopo poco ho fatto per guardarlo di nuovo ed un’altra [corona], con le offese che facevano, stavano mettendo sulla testa di Gesù.
Oh perfidia umana! Oh pazienza incomparabile di Gesù, quanto sei tu grande! E Gesù taceva e quasi non li guardava per non conoscere chi erano i suoi offensori. Quindi di nuovo gliel’ho tolta e, tutte le interiori potenze risvegliandosi di tenera compassione, gli ho detto: “Caro mio Bene, dolce mia vita, dimmi un po’: perché non mi dici più niente? Non è stato mai tuo solito nascondermi i tuoi segreti; deh, parliamo un poco insieme, che così sfogheremo un poco il dolore e l’amore che ci opprime”.
E lui: “Figlia mia, sei tu il sollievo nelle mie pene. Sappi però che non ti dico niente perché tu mi costringi sempre a far sì che non castighi le genti; vuoi opporti alla mia giustizia e, se non faccio come tu vuoi, ne resti dispiaciuta ed io più ne sento una pena che non ti tengo contenta. Quindi, per evitare dispiaceri d’ambo le parti, faccio silenzio”.
Ed io: “Mio buon Gesù, avete forse dimenticato quanto voi stesso venite a soffrire dopo che avete adoperato la giustizia? Quel vedervi soffrire nelle stesse creature, è [ciò] che mi rende più che mai circospetta a costringervi che non castighiate le genti. E poi, quel vedere le stesse creature rivolgersi contro di voi come tante vipere avvelenate, quasi che se fosse in loro potere già vi toglierebbero la vita, perché si veggono sotto i vostri flagelli, e di più vengono ad irritare la vostra giustizia, non mi dà l’animo di dire il Fiat Voluntas tua”.
E lui: “La mia giustizia non può passare più oltre, mi sento da tutti ferito; da sacerdoti, da devoti, da secolari, specialmente per l’abuso dei sacramenti. Chi non li cura affatto, aggiungendo i disprezzi, e chi frequentandoli ne formano conversazione di piacere, e chi non essendo soddisfatti nei loro capricci, giungono per questo ad offendermi. Oh, quanto resta straziato il mio cuore nel vedere ridotti i sacramenti come quelle pitture dipinte oppure quelle statue di pietre, che compariscono vive, operanti, da lontano, ma si fa per avvicinarle e si incomincia a scovrire l’inganno; onde si fa per toccarle, e che cosa si trova? Carta, pietre, legno, oggetti inanimati, ed ecco, [si resta] del tutto disingannati. Tale sono i sacramenti ridotti, per la maggior parte; non c’è altro che la sola apparenza.
Che dire poi di quelli che restano più lordi che netti? E poi, lo spirito d’interesse che regna nei religiosi, è cosa da piangere. Non ti pare che sono tutt’occhi dove c’è un vilissimo soldo, fino ad avvilire la loro dignità? Ma dove non c’è l’interesse non hanno mani né piedi per muoversi un tantino. Questo spirito d’interesse riempie loro tanto l’interno, che trabocca nell’esterno, fino a sentirne la puzza gli stessi secolari; e di ciò scandalizzati formansi la causa che non prestano fede alle loro parole. Ah, sì, nessuno mi risparmia! Vi è chi mi offende direttamente, e chi potendo impedire un tanto male non si cura di farlo; onde non ho a chi rivolgermi. Ma io li castigherò in modo da renderli inabili, e chi[87] distruggerò perfettamente; giungeranno a tanto che resteranno le chiese deserte, senza avere chi amministri i sacramenti”.
Interrompendo il suo dire, tutta spaventata ho detto: “Signore, che dite? Se ci sono quelli che abusano dei sacramenti, vi sono tante buone figlie che li ricevono con le dovute disposizioni, e ci soffrono molto se non li frequentano”.
E lui: “Troppo scarso è il loro numero; e poi la loro pena perché non possono riceverli riuscirà a mia riparazione e ad essere vittime per quelli che ne abusano”.
Chi può dire quanto sono restata straziata da questo parlare di Gesù benedetto? Ma spero che voglia placarsi per la sua infinita misericordia.
Ottobre 3, 1899  (80)
Si mette d’accordo con l’ubbidienza e Gesù ne spiega il valore.
Questa mattina continuava a farsi vedere Gesù afflitto. Al mio pazientissimo Gesù non avevo coraggio di dirgli nessuna parola per timore che riprendesse il suo dire lamentevole sullo stato religioso. V’è questo, perché l’ubbidienza vuole che scriva tutto, ed anche quello che riguarda la carità del prossimo; è questo per me tanto penoso che ho dovuto lottare a forze di braccia con la signora obbedienza, molto più che cambiandosi[88] in aspetto di guerriero potentissimo, armato sì delle sue armi per darmi la morte. In verità mi son trovata a tali strettezze, che io stessa non sapevo che fare. Scrivere secondo la luce che Gesù mi faceva vedere sulla carità del prossimo, mi pareva impossibile, mi sentivo ferire il cuore da mille punture, la bocca me la sentivo ammutolire e venir meno il coraggio, e le dicevo: “Cara obbedienza, tu sai quanto ti amo e che volentieri per amor tuo darei la vita; ma veggo che qui non posso e tu stessa vedi lo strazio dell’animo mio. Deh, non farti nemica, non essere meco spietata, sii più indulgente verso chi tanto ti ama! Deh, vieni meco tu stessa e discorriamo insieme quello che più ci conviene dire”.
Così pare che ha deposto il suo furore e lei stessa dettava quello che più era necessario, rinchiudendo in poche parole tutto il senso delle diverse cose che riguardavano la carità, sebbene delle volte voleva essere più minuta ed io le dicevo: “Basta che per un poco di riflessione capiscano ciò che significa; non è meglio rinchiudere in una parola tutto il significato, che in tante parole?”
Delle volte cedeva l’ubbidienza, delle volte io, e così pare che siamo andate d’accordo. Quanta pazienza ci vuole con questa benedetta signora obbedienza, veramente signora, che basta che [le] si dà il diritto di signoreggiare, cambiandosi[89] in aspetto di mansuetissima agnella; lei stessa ne fa il sacrificio della fatica e, l’ani­ma, la fa riposare col suo Signore, mettendosi intorno lei con occhio vigilante per fare che nessuno ardisca di molestarla ed interromperle il sonno. E mentre l’anima dorme, questa nobile signora che fa? Oh, sta gocciolando sudore dalla sua fronte, affrettando la fatica che toccava all’anima! Cosa veramente che fa stupire ogni mente umana più intelligente, e che scuote ogni cuore ad amarla.
Ora mentre ciò dico, nel mio interno vado dicendo: “Ma che cosa è quest’obbedienza? Di che è formata? Qual è l’alimento che la sostiene?”
E Gesù che mi fa sentire la sua armoniosa voce al mio udito, che dice: “Vuoi sapere che cosa è l’ubbidien­za? L’ubbidienza è la quint’essenza dell’amore; l’ubbi­dienza è l’amore più fino, più puro, più perfetto, estratto dal sacrifizio più doloroso, qual è il distruggere sé medesimo per rivivere di Dio. L’ubbidienza, essendo nobilissima e divina, non ammette nell’anima niente d’uma­no, che non fosse suo. Perciò tutta la sua attenzione è distruggere nell’anima tutto ciò che non appartiene alla sua nobiltà divina, qual è l’amor proprio; e fatto questo, poco si cura che essa sola stenti fatica in ciò che appartiene all’anima, e l’anima la fa tranquillamente riposare. Finalmente l’ubbidienza sono io medesimo”.
Chi può dire come sono restata meravigliata e rimasta estatica nel sentire questo parlare di Gesù benedetto? Oh santa obbedienza, quanto tu sei incomprensibile! Io mi prostro ai tuoi piedi e ti adoro, ti prego d’essermi guida, maestra, luce nel disastroso cammino della vita, ché guidata, ammaestrata, scortata dalla tua luce purissima, posso con sicurezza prendere possesso del porto eterno.
Finisco, quasi sforzandomi d’uscire da questa virtù dell’ubbidienza, altrimenti non la finirei mai di parlare; è tanta la luce che veggo di questa virtù, che potrei scrivere sempre su di essa; ma altre cose mi chiamano, perciò faccio silenzio e ritorno dove lasciai.
Onde vedevo il mio Gesù afflitto, e ricordandomi che l’ubbidienza mi aveva detto di pregare per una persona, quindi con tutto il cuore l’ho raccomandato, e Gesù mi ha detto: “Figlia, [egli] faccia che tutte le sue opere risplendano, però di sole virtù; ma specialmente gli raccomando di non imbrogliarsi nelle cose d’interesse di famiglia. Se tiene qualche cosa la desse pure, se non tiene non voglio che lui s’impicci d’altro. Lasciasse che le cose le facesse chi ne è dovuto, e lui se ne rimanga spedito, libero, senza infangarsi nelle cose terrene; altrimenti verrebbe ad incorrere nella sventura degli altri, che da principio, avendo voluto impicciarsi di qualche cosa di famiglia, poi tutto il peso è gravato sulle loro spalle, ed io per sola mia misericordia, ho dovuto permettere di non prosperarli, ma piuttosto d’ammiserirli, e così fare toccare con mano quanto è disdicevole ad un mio ministro l’infangarsi nelle cose terrene; mentre è parola uscita dalla mia bocca che ai ministri del mio santuario, sempre che non toccassero affatto le cose terrene, mai sarebbe mancato il cibo quotidiano.
Ora questi tali, se io li avessi solamente prosperati, avrebbero infangato il loro cuore e non avrebbero badato né a Dio né alle cose appartenenti al loro ministero. Ora tediati, stanchi del loro stato, vorrebbero sbrigarsi, ma non possono, e questo è in pena di ciò che non dovrebbero fare”.
Dopo gli raccomandai un infermo, e Gesù mi mostrava le sue piaghe fattegli da quell’infermo, ed io ho cercato di pregarlo, placarlo e ripararlo, e pareva che quelle piaghe si saldavano. E Gesù tutto benignità mi ha detto: “Figlia mia, tu oggi mi hai fatto l’uffizio d’un peritissimo medico, che non solo hai cercato di medicarle, fasciarle, ma anche di guarirle le mie piaghe fattemi da quell’infermo, perciò mi sento molto ristorato e placato”.
Onde ho compreso che pregando per gli infermi si viene a fare l’uffizio di medico a Nostro Signore, che soffre nelle stesse sue immagini.
Ottobre 7, 1899  (81)
Vede Gesù sdegnato contro le genti.
Questa mattina il benedetto Gesù non ci veniva ed ho dovuto molto pazientare per aspettarlo; nel mio interno andavo dicendo: “Mio caro Gesù, vieni, non farmi tanto aspettare! È da ieri sera che non vi ho visto e l’ora si fa troppo tarda; e voi non ci venite ancora? Vedete quanto ho pazientato ad aspettarvi. Deh, non fate che giunga ad impazientirmi, perché indugiate lungamente a venire! Perché poi la causa ne siete voi, coi vostri indugi. Perciò venite, che più non posso”.
Or mentre andavo dicendo questi ed altri spropositi, il mio unico Bene è venuto; ma con sommo mio rammarico l’ho visto quasi sdegnato con le genti. Subito gli ho detto: “Mio buon Gesù, vi prego a far pace col mondo”.
E lui: “Figlia non posso; io sono come un re che vuole andare dentro una casa, ma quella casa è piena di cose immonde, di marciume e di tant’altre sporcizie. Il re, come re, ha il potere d’entrarvi; non c’è nessuno che [glie]lo possa impedire; ed anche con le sue proprie mani può pulire quell’abitazione, ma non vuol farlo perché non è decente alla sua reale persona scendere a tante bassezze, e fino a tanto che quell’abitazione non verrà pulita da altri, con tutto ciò che ne tiene il potere, il volere ed un gran desiderio, fino a soffrire, mai si benignerà a mettervi il piede. Tale sono io, sono Re che posso e voglio, ma voglio la loro volontà; voglio che tolgano il marciume delle colpe, per entrarvi e far pace con loro. No, non è decente alla mia regalità l’entrarvi e rappacificarmi con loro, anzi non farò altro che mandare castighi. Il fuoco della tribolazione l’inonderà dappertutto, fino ad atterrarli, acciocché si ricordino che esiste un Dio, che solo che può aiutarli e liberarli”.
Ed io interrompendo il suo dire, gli ho detto: “Signore se volete mettere mani ai castighi, io me ne voglio venire, non voglio più stare in questa terra. Come potrà resistere il mio cuore a vedere soffrire le tue creature?”
E Gesù, prendendo un aspetto benigno, mi ha detto: “Se tu te ne vieni, io dove andrò a dimorare su questa terra? Per ora pensiamo a starci insieme di qua, che nel cielo avremo a starci a lungo, quant’è tutta l’eternità. E poi, troppo presto hai dimenticato l’uffizio di farmi da madre sulla terra. Quindi, mentre castigherò le genti, io verrò a rifugiarmi e dimorerò con te”.
Ed io: “Ah Signore, a che pro il mio stato di vittima, per tanti anni? Qual bene è venuto ai popoli? Mentre voi mi dicevate che mi volevate vittima per risparmiare le genti, ed ora fate vedere che questi castighi, invece di succedere tanti anni prima, succedono dopo, né più né meno di questo”.
E lui: “Figlia mia, non dire così; la mia longanimità è stata per amor tuo, ed il bene che ne è venuto da questo è stato che terribili castighi dovevano infierire per lunghissimo tempo, mentre con ciò sarà più breve. E non è questo un bene, che uno invece di stare per lunghi anni sotto il peso d’un castigo vi stia per pochi? Poi, in questi scorsi anni passati, guerre, morti improvvise, che non dovevano aver[90] tempo di convertirsi, ed invece l’hanno avuto, e si son salvati; non è questo un gran bene? Diletta mia, per ora non è necessario il farti capire il pro del tuo stato per te e per i popoli; ma te lo mostrerò quando verrai nel cielo, ed il giorno del giudizio lo mostrerò a tutte le nazioni. Perciò non parlare più in questo modo”.
Ottobre 14, 1899  (82)
Gesù le mostra la necessità dei castighi e le parla in modo commovente della speranza.
Questa mattina mi sentivo un po’ turbata e tutta annientata in me stessa; mi vedevo come se il Signore mi volesse discacciare da sé. Oh, Dio, che pena straziante è mai questa! Mentre mi trovavo in tale stato, il benedetto Gesù è venuto con una cordicella in mano, e percuotendo il mio cuore tre volte mi ha detto: “Pace, pace, pace. Non sai tu che il regno della speranza è regno di pace ed il diritto di questa speranza è la giustizia? Tu, quando vedi che la mia giustizia si arma contro le genti, entra nel regno della speranza e, investendoti delle qualità più potenti che lei possiede, sali fin sul mio trono e fai quanto puoi per disarmare il mio braccio armato; e questo lo farai con le voci più eloquenti, più tenere, più pietose, con le ragioni più possenti, con le preghiere più calde che la stessa speranza ti detterà. Ma quando vedi che la stessa speranza sta per sostenere certi diritti di giustizia che sono assolutamente necessari, e che volerli cedere sarebbe un voler fare affronto a sé stessa, ciò che non può mai essere, allora conformati a me e cedi alla giustizia”.
Ed io, più che mai atterrita, che dovevo cedere alla giustizia, gli ho detto: “Ah, Signore, come posso far ciò? Ah, mi pare impossibile! Il solo pensiero che dovete castigare le genti, perché tue immagini non posso tollerarlo; almeno fossero creature che non appartenessero a voi! Eppure questo è niente; ma quello che più mi strazia è che debba vedere voi stesso, quasi sto per dire, colpito da voi stesso, schiaffeggiato, addolorato da voi stesso, perché i castighi scenderanno sopra le tue stesse membra, non sopra le altre, e quindi voi stesso verrete a soffrire. Dimmi, mio solo ed unico Bene, come potrà resistere il mio cuore a vedervi soffrire, colpito da voi stesso? Che vi fanno soffrire le creature, sono sempre creature ed è più tollerabile, ma questo è tanto duro che non posso ingoiarlo; perciò non posso conformarmi teco, né cedere”.
E lui, impietosendosi e tutto intenerendosi di questo mio dire, prendendo un aspetto afflitto e benigno mi ha detto: “Figlia mia, tu hai ragione che resterò colpito nelle mie stesse membra, tanto che nel sentirti parlare tutte le mie viscere me le sento e commosse e muovere a misericordia, ed il cuore me lo sento spezzare per tenerezza. Ma credi a me, che sono necessari i castighi, e se tu non vuoi vedermi colpito adesso un poco, mi vedrai colpito poi più terribilmente, perché più assai mi offenderanno; e questo non ti dispiacerebbe di più? Perciò conformati meco, altrimenti mi costringerai, per non vederti dispiaciuta, a non dirti più niente, e con questo mi verrai a negare il sollievo che prendo nel conversare con te. Ah, sì, mi ridurrai al silenzio, senza avere [io] con chi sfogare le mie pene!”
Chi può dire quanto sono restata amareggiata da questo suo dire? E Gesù, volendomi quasi distrarre dalla mia afflizione, ha ripreso il suo dire sulla speranza dicendomi: “Figlia mia, non ti turbare; la speranza è pace, e siccome io, nell’atto stesso che faccio giustizia sto nella più perfetta pace, così tu immergendoti nella speranza statti nella pace. L’anima che sta nella speranza, col volersi affliggere, turbare, sconfidare, incorrerebbe nella sventura di colei che mentre possiede milioni e milioni di monete, ed anche è regina di vari regni, va fantasticando e menando lamenti, dicendo: ‘Di che debbo vivere? Come devo vestirmi? Ahi, muoio dalla fame! Sono ben infelice! Mi condurrò alla più stretta miseria, finirò col perire!’
E mentre ciò dice, piange, sospira e passa i suoi giorni, triste, squallida, immersa nella più grande mestizia. E questo non è tutto, quel ch’è peggio di costei, [è] che se vede i suoi tesori, se cammina nei suoi poderi, invece di gioire, più si affligge, pensando alla sua fine ventura, e vedendo il cibo non lo vuole toccare per sostentarsi, e se qualcuno vuole persuaderla col farle toccare con mano, mostrando[glie]le, le sue ricchezze, e che non può essere che si ridurrà alla più stretta miseria, non si convince, rimane sbalordita, e più piange la sua triste sorte. Or che si direbbe di costei, dalle genti? Che è pazza, si vede che non ha ragione, ha perduto il cervello; la ragione è chiara, non può essere diversamente.
Eppure può darsi che questa tale può incorrere nella sventura che va fantasticando; ma in che modo? Col­l’uscire dai suoi regni, abbandonando tutte le sue ricchezze, andasse[91] in terre straniere, in mezzo a gente barbara, che[92] nessuno si benignerà di darle una briciola di pane. Ed ecco che la fantasia si è verificata; ciò che era falso ora è verità; e chi n’è stata la causa? Chi incolparne d’un cambiamento di stato sì triste? La sua perfidia, ed ostinata volontà. Tale è appunto un’anima che si trova in possesso della speranza; il volersi turbare, scoraggiare, già è la più grande pazzia”.
Ed io: “Ah, Signore, come può essere che l’anima possa stare sempre in pace, vivendo nella speranza? E se l’anima commette qualche peccato come può stare in pace?”
E Gesù: “Nell’atto che l’anima pecca già esce dal regno della speranza, giacché peccato e speranza non possono stare insieme. Ogni ragione ritiene che ognuno è obbligato a rispettare, coltivare ciò che è suo. Chi è quel­l’uomo che va nei suoi terreni e vi brucia ciò che possiede? Chi è che non tiene gelosamente custodita la sua roba? Credo nessuno. Ora l’anima che vive nella speranza, col peccato offenderebbe la speranza, e se stesse in suo potere brucerebbe tutti i beni che possiede la speranza. Ed allora si troverebbe nella sventura di quella tale che, abbandonando i suoi beni, va a vivere in terre straniere; così l’anima, col peccato, uscendo da questa madre paciera della speranza, sì tenera e pietosa che giunge ad alimentarla con le stesse sue carni, qual è Gesù in sacramento, oggetto primario di nostra speranza, se ne va a vivere in mezzo a gente barbara, quali sono i demoni, che negandole ogni minimo ristoro non l’ali­mentano d’altro che di veleno, qual è il peccato. Eppure questa madre pietosa della speranza che fa? Mentre l’anima s’allontana da lei, se ne starà forse indifferente? Ah, no! Piange, prega, la chiama con le voci più tenere, più commoventi, le va appresso, ed allora si contenta quando la riconduce nel suo regno”.
Il mio dolce Gesù continua a dirmi: “La natura della speranza è pace, e ciò che lei è per natura, l’anima che vive nel seno di questa madre paciera conseguisce per grazia”.
E nell’atto stesso che Gesù benedetto dice queste parole, con una luce intellettuale mi fa vedere, sotto una similitudine d’una madre, ciò che ha fatto questa speranza per l’uomo. Oh, che scena commovente e tenerissima, che se tutti la potessero vedere piangerebbero di compunzione anche i cuori più duri, e tutti si affezionerebbero tanto che riuscirebbe loro impossibile distaccarsi per un sol momento dalle sue ginocchia materne. Ed ecco, che mi provo a dire ciò che comprendo e posso.
L’uomo viveva incatenato, schiavo del demonio, con­dannato alla morte eterna, senza speranza di poter rivivere all’eterna vita; tutto era perduto, ed andata in rovina la sua sorte. Questa madre viveva nell’empireo, unita col Padre e lo Spirito Santo, beata, felice con loro. Ma pareva che non fosse contenta, voleva i suoi figli, le sue care immagini intorno a lei, l’opera più bella uscita dalle sue mani. Ora mentre stava nel cielo, il suo occhio era intento all’uomo, che va perduto sulla terra. Ella tutta s’occupa per il modo come salvare questi amati figli, e vedendo che questi figli non possono assolutamente soddisfare la Divinità, anche a costo di qualunque sacrifizio, perché molto inferiori a loro[93], che cosa fa questa madre pietosa? Vede che non c’è altro mezzo per salvare questi figli che dare la propria vita per salvare la loro e prendere sopra di sé le loro pene e miserie e fare tutto ciò che loro dovevano fare per loro stessi.
Onde che pensa di fare? Si presenta innanzi alla divina giustizia questa madre amorosa, con le lacrime agli occhi, con le voci più tenere, con le ragioni più potenti, che il suo magnanimo cuore le detta, e dice: “Grazie vi chiedo per i miei perduti figli; non mi regge l’animo di vederli da me separati, ed a qualunque costo voglio salvarli; sebbene veggo non altro mezzo che mettere la mia propria vita, la voglio mettere pure, purché riacquisti la loro. Che cosa volete da loro? Riparazione? Vi riparo io per loro. Gloria, onore? Vi glorifico ed onoro io per loro. Ringraziamento? Vi ringrazio io. Tutto ciò che volete da loro, ve lo faccio io, purché li possa avere insieme con me a regnare”.
La Divinità ne resta commossa nel vedere le lacrime, l’amore di questa madre pietosa, e convinta dalle sue ragioni potenti si sente inclinata ad amare questi figli, e ne piangono insieme la loro sventura, e concordemente concludono che accettano il sacrifizio della vita di questa madre, restandone pienamente soddisfatti, per riacquistare questi figli. Non appena è firmato il decreto, scende immantinente dal cielo e viene sulla terra, e deponendo le sue vesti regali che aveva nel cielo, si veste delle miserie umane come se fosse la più vilissima schiava, e vive nella povertà più estrema, nelle sofferenze più inaudite, nei disprezzi più insopportabili all’umana natura; non fa altro che piangere coll’intercedere per i suoi amati figli. Ma quel che più fa stupire, e di questa madre e di questi figli, è che mentre lei ama tanto questi figli, questi, invece di riceverla questa madre a braccia aperte, che veniva per salvarli, fanno il contra­rio. Nessuno la vuole ricevere né riconoscere, anzi la fanno andare raminga, la disprezzano, ed incominciano a macchinare come uccidere questa madre sì tenera, e sviscerata amante di loro.
Che farà questa madre così tenera nel vedersi sì malamente corrisposta dai suoi ingrati figli? Si arresterà ella? Ah, no, anzi più si accende di amore per loro e corre da un punto all’altro per riunirli in grembo! Oh, come fatica, come stenta fino a gocciolare sudore, non solo d’acqua, ma ancora di sangue! Non si dà un momento di tregua, sta sempre in attitudine per operare la loro salvezza, provvede a tutti i loro bisogni, rimedia a tutti i loro mali passati, presenti e futuri; insomma non c’è cosa che non ordina e dispone per loro bene.
Ma che cosa fanno questi figli? Si son forse pentiti dell’ingratitudine? Che fecero nel riceverla? Hanno mutato i loro pensieri in favore di questa madre? Ah, no! La guardano di malocchio, la disonorano con le calunnie più nere, le procurano obbrobri, disprezzi, confusioni; la battono con ogni sorta di flagelli, riducendola tutta una piaga, e finiscono col farla morire con una morte, la più infame che trovar si potesse, in mezzo a crudeli spasimi e dolori. Ma che cosa fa questa madre in mezzo a tante pene? Odierà forse questi figli sì discoli e protervi? Ah, no, mai! Allora più che mai li ama svisceratamente, offre le sue pene per la stessa loro salvezza e spira con la parola della pace e del perdono. O madre mia bella! O cara speranza, quanto sei in te stessa amabile; io ti amo! Deh, tienimi sempre in grembo a te e sarò la più felice del mondo!
Mentre son determinata a cessare di parlare della speranza, una voce mi risuona dappertutto, che dice: “La speranza contiene tutto il bene presente e futuro, e chi vive in grembo a lei ed è allevata sulle sue ginocchia, tutto ciò che vuole ottiene. Che cosa vuole l’anima? Gloria, onore? La speranza le darà tutto l’onore e la gloria più grande in terra presso tutte le genti, ed in cielo la glorificherà eternamente. Vorrà forse ricchezza? Oh! Questa madre che è la speranza è ricchissima e, quello ch’è più, [è] che dando i suoi beni ai suoi figli, non restano punto scemate le sue ricchezze, poi queste ricchezze non sono fugaci e passeggere, ma sempiterne. Vorrà piaceri, contenti? Ah, sì! Questa speranza contiene in sé tutti i piaceri e gusti possibili che trovar si possono in cielo ed in terra, e che nessun altro potrà mai pareggiarla, e chi al suo seno si nutrisce, a sazietà ne gusta; ed oh, come è felice e contenta! Vorrà essere dotta, sapiente? Questa madre speranza contiene in sé le scienze più sublimi, è la maestra di tutti i maestri, e chi da lei si fa insegnare apprende la scienza della vera santità”.
Insomma, la speranza ci somministra tutto, di modo che, se uno è debole gli darà la fortezza, se un altro è macchiato, la speranza istituì i sacramenti, ed ivi ha preparato il lavacro alle sue macchie; se vi sente fame e sete, questa madre pietosa ci dà il cibo più bello, più gustoso, quali sono le sue delicatissime carni, e per bevanda il suo preziosissimo sangue. Che altro può fare di più questa madre paciera della speranza? E chi altro mai è simile a lei? Ah, solo lei ha rappacificato cielo e terra, la speranza ha congiunto con sé la fede e la carità ed ha formato quell’anello indissolubile tra l’umana natura e la divina. Ma chi è questa madre? Chi è questa speranza? È Gesù Cristo, che operò la nostra redenzione e formò la speranza dell’uomo fuorviato.
Ottobre 16, 1899  (83)
Gesù le parla dei castighi.
Questa mattina il mio dolce Gesù non ci veniva. È da ieri sera che non l’ho visto, [quando] si fece vedere in un aspetto che faceva pietà e terrore insieme; si voleva nascondere per non vedere i castighi che lui stesso stava mandando sulle genti ed il modo come doveva distruggerle. Oh Dio, che spettacolo straziante, non mai visto!
Mentre aspettavo e riaspettavo, nel mio interno andavo dicendo: “Com’è che non viene? Chi sa che non venga perché io non mi conformo alla sua giustizia? Ma come posso far ciò? Mi pare quasi impossibile dire Fiat Voluntas Tua. Poi dicevo ancora: “Forse non viene perché il confessore non lo manda”. Ora mentre [ciò] pen­savo, l’ho visto appena, e quasi l’ombra, e mi ha detto: “Non temere, la potestà ai sacerdoti è limitata; solo che a misura che si prestano a pregarmi di farmi venire a te, e [ad] offrirti a farti soffrire per fare che risparmiassi le genti, così nell’atto che io manderò i castighi li guarirò e li risparmierò. Se poi non si daranno nessun pensiero, neppure io avrò nessun riguardo per loro”.
E detto ciò è scomparso, lasciandomi in un mare d’af­flizione e di lacrime.
Ottobre 21, 1899  (84)
Gesù le parla ancora dei castighi.
Dopo aver passato giorni amarissimi di privazione, mi sentivo stanca e sfinita di forze, sebbene andavo offrendo quelle stesse pene dicendo: “Signore, tu sai quanto mi costa l’esser priva di te, ma però mi rassegno alla tua santa Volontà offrendo questa pena acerbissima come mezzo per attestare il mio amore e placarvi. Queste noie, fastidi, fiacchezze, freddezze che sento, intendo mandarveli come messaggeri di lodi e di riparazione per me e per tutte le creature. Questo ho e questo offro; è certo che voi accettate il sacrifizio della buona volontà, quando vi si offre ciò che si può senza riserva alcuna, ma venite, che più non posso!”
Molte volte mi veniva la tentazione di conformarmi alla giustizia e pensavo che la causa che [Gesù] non ci veniva ero io stessa, perché Gesù nei giorni passati mi aveva detto che, se non mi conformassi, [lo] avrei costretto a non farlo venire ed a non dirmi più niente per non tenermi dispiaciuta; ma non mi dava l’animo di farlo, molto più perché l’ubbidienza neppure vi consentiva. Mentre mi trovavo in queste amarezze, prima è venuta una luce con una voce che diceva: “A misura che l’anima s’intromette nelle cose terrene, così si allontana e perde la stima dei beni eterni. Io ho dato le ricchezze perché se ne servissero per la loro santificazione, essi se ne son serviti per offendermi e formare un idolo per il loro cuore, ed io distruggerò loro e le ricchezze insieme con loro”.
Dopo ciò ho visto il mio carissimo Gesù, ma tanto sofferente, offeso e sdegnato con le genti, che metteva terrore. Io subito ho cominciato a dirgli: “Signore, ti offro le tue piaghe, il tuo sangue, l’uso santissimo dei tuoi santissimi sensi, che ne facesti nel corso della tua vita mortale, per ripararvi le offese ed il cattivo uso dei sensi, che ne fanno le creature”.
E Gesù, prendendo un aspetto serio e quasi tuonante, ha detto: “Sai tu come son divenuti i sensi delle creature? Come quelle grida delle bestie feroci che coi loro ruggiti allontanano gli uomini invece di farli avvicinare. È tanto il marciume e la molteplicità delle colpe che scaturiscono dai loro sensi, che mi costringono a fuggire”.
Ed io: “Oh, Signore, come vi veggo sdegnato! Se voi volete continuare a mandare i castighi, io me ne voglio venire oppure voglio uscire da questo stato. A che pro starvi, una volta che non posso più offrirmi vittima per risparmiare le genti?”
E lui, parlandomi serio, tanto che mi sentivo atterrire, mi ha detto: “Tu vuoi toccare i due estremi: o che vuoi che non faccio niente o che te ne vuoi venire; non ti contenti che le genti siano risparmiate in parte? Credi tu che Corato sia il migliore, od il minore nell’offendermi? Che l’abbia risparmiato a confronto degli altri paesi è cosa da niente? Perciò contentati e quietati, e mentre io mi occuperò a castigare le genti, tu accompagnami coi tuoi sospiri e con le tue sofferenze, pregandomi che gli stessi castighi riescano per la conversione dei popoli”.
Ottobre 22, 1899  (85)
Gesù le mostra i pregi della croce.
Continua Gesù a farsi vedere afflitto; nell’atto ch’è venuto si è gettato nelle mie braccia tutto sfinito di forze, quasi volendo un ristoro, mi ha partecipato qualche poco delle sue sofferenze e dopo mi ha detto: “Figlia mia, la via della croce è una via battuta di stelle, e conforme[94] si cammina quelle stelle si cambiano in soli lu­minosissimi. Quale felicità sarà dell’anima per tutta l’eter­nità, l’essere circondata da quei soli? Poi il premio gran­de che do alla croce è tanto, che non c’è misura, né di larghezza né di lunghezza; è quasi incomprensibile alle menti umane, e questo perché nel sopportare le croci non ci può essere niente d’umano, ma tutto divino”.
Ottobre 24, 1899  (86)
Gesù le mostra il suo dispiacere e la necessità di castigare l’uomo, riprodotto dell’Essere Divino.
Questa mattina il mio adorabile Gesù è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa, in mezzo alle genti, e Gesù pareva che guardava con occhio di compassione le creature, e gli stessi castighi comparivano sue infinite misericordie uscite dal più intimo del suo cuore amorosissimo. Onde, rivolto a me, mi ha detto:
“Figlia mia, l’uomo è un riprodotto dell’Essere Divino, e siccome il nostro cibo è l’amore sempre reciproco, conforme e costante tra le Divine Persone, quindi [l’uo­mo] essendo uscito dalle nostre mani e dall’amor puro disinteressato, è come una particella del nostro cibo. Ora questa particella ci è divenuta amara, non solo, ma la maggior parte, discostandosi da noi, si è fatta pascolo delle fiamme infernali e cibo dell’odio implacabile dei demoni, nostri e loro capitali nemici. Eccoti la causa principale del nostro dispiacere della perdita delle anime, è questa, perché son nostre, è cosa che ci appartiene. Come pure la causa che mi spinge a castigarli è l’amor grande che nutro per loro e per poter mettere in salvo le loro anime”.
Ed io: “Signore, pare che questa volta non avete altre parole da dire che di castighi. La vostra potenza tiene tant’altri mezzi come salvare queste anime, e poi se fossi certa che tutta la pena cadesse sopra di loro, col restare voi libero senza soffrire in loro, pure mi contenterei; ma veggo che già state soffrendo molto per quei castighi che avete mandato; che sarà se continuate a mandare altri castighi?”
E Gesù: “Con tutto ciò che soffro, l’amore mi spinge a mandare più pesanti flagelli, e questo perché non c’è mezzo più potente di far entrare in sé stesso l’uomo e fargli conoscere che cosa è il suo essere, col far[gli] vedere disfatto sé stesso; gli altri mezzi pare che lo ingagliardiscono di più, onde conformati alla mia giustizia. Veggo bene che l’amore che tu mi vuoi ti spinge tanto a non conformarti meco, e non hai cuore di vedermi soffrire; ma anche mia Madre mi amò più di tutte le creature, che nessun’altra può mai pareggiarla, eppure per salvare queste anime si conformò alla giustizia e si contentò di vedermi tanto soffrire. Se ciò fece mia Madre, come non lo potresti tu?”
E nell’atto che Gesù parlava, mi sentivo tirare la mia volontà talmente alla sua, che quasi non sapevo più resistere di non conformarmi alla sua giustizia. Non sapevo che dire tanto mi sentivo convinta, ma però non ancora ho manifestato la mia volontà. Gesù è scomparso ed io son rimasta in questo dubbio, se devo o no conformarmi.
Ottobre 25, 1899  (87)
Gesù le parla del suo grande amore per le creature anche quando le castiga.
Continua il mio dolcissimo Gesù a manifestarsi quasi sempre lo stesso; questa mattina ha soggiunto: “Figlia mia, è tanto l’amore verso le creature, che come un eco risuona nella regione celeste, riempie l’atmosfera e si diffonde sopra tutta quanta la terra. Ma qual è la corrispondenza che fanno le creature a quest’eco amoroso? Ahi! Corrispondono con un eco d’ingratitudine, velenoso, ripieno d’ogni sorta d’amarezza e peccato; con un eco quasi micidiale, atti solo a ferirmi. Ma io spopolerò la faccia della terra, acciocché quest’eco risuonante di veleno più non assordisca le mie orecchie”.
Ed io: “Ah, Signore, che dite?”
E Gesù: “Io non faccio altro che come un medico pietoso, che ha gli estremi rimedi verso i suoi figli, e questi figli sono ripieni di piaghe. Che fa questo padre e medico che ama i suoi figli più che la propria vita? Lascia incancrenire queste piaghe? Li farà perire per timore che applicando il fuoco e i ferri verranno essi a soffrire? No, mai; sebbene sentirà come se sopra di sé si applicassero tali strumenti, con tutto ciò mette mano ai ferri, squarcia e taglia le carni, vi applica il veleno, il fuoco, per impedire che più s’inoltri la corruzione. Sebbene molte volte succede che in queste operazioni i poveri figli muoiono, non era questa la volontà del padre medico, ma la sua volontà è di vederli risanati. Tale sono io, ferisco per risanarli, li distruggo per risuscitarli; che molti ne periscono, non è questa la mia Volontà, questo è effetto solo della loro malvagia ed ostinata volontà, è effetto di que­st’eco velenoso che, fino a vedersi distrutti, vogliono inviarmelo”.
Ed io: “Dimmi, mio unico Bene, come potrei raddolcirvi quest’eco velenoso che tanto vi affligge?”
E lui: “L’unico mezzo è che tu faccia sempre tutte le tue operazioni per solo fine di piacermi, e che impieghi tutti i sensi e le potenze tue per il fine d’amarmi e di glorificarmi. Siccome ogni tuo pensiero, parola e tutto il resto, non vorrà altro che l’amore che hai verso di me, così il tuo eco salirà gradito al mio trono e raddolcirà il mio udito”.
Ottobre 28, 1899  (88)
Gesù l’ammaestra mostrandole il suo Tutto ed il niente di lei.
Questa mattina il mio amabile Gesù è venuto in mezzo ad una luce, e guardandomi come se mi penetrasse da per tutto, tanto che mi sentivo annichilita, mi ha detto: “Chi sono io e chi sei tu?”
Queste parole mi penetravano fino alle midolla delle ossa, scorgevo l’infinita distanza che passa tra l’infinito e il finito, tra il Tutto e il niente; non solo, ma vi scorgevo la malizia di questo nulla, ed il modo come si era infangato. Mi pareva come un pesce che nuota nelle acque; così l’anima mia nuotava nel marciume, nei vermi e in tante altre cose, atte solo a mettere orrore alla vista. O Dio, che vista abominevole! L’anima mia avrebbe voluto fuggire dinnanzi alla vista di Dio tre volte Santo; ma con altre due parole mi lega, e cioè: “Qual è l’amor mio verso di te? E qual è il tuo contraccambio verso di me?”
Ora mentre alla prima parola avrei voluto fuggire, spaventata dalla sua presenza, alle seconde parole: “Qual è l’amor mio verso di te?”, mi son trovata legata, inabissata e legata da tutte le parti dal suo amore, sicché la mia esistenza è un prodotto dell’amore suo; onde se quest’amore cessava, io più non esistevo. Quindi mi pareva che i palpiti del cuore, [l’]intelligenza e fino il respiro, d’essere[95] un riprodotto del suo amore. Io nuotavo in lui, ed anche a voler fuggire mi parrebbe impossibile farlo, perché il suo amore da per tutto mi circonda. Il mio amore poi mi pareva come una gocciolina d’acqua gettata nel mare, che scomparisce, non si sa più discernere.
Quante cose ho compreso, ma il volerle dire, andrei troppo per le lunghe. Quindi Gesù è scomparso ed io son rimasta tutta confusa; mi vedevo tutta peccati, e nel mio interno imploravo perdono e misericordia. Dopo poco il mio unico Bene è ritornato, ed io mi sentivo tutta inzuppata dall’amarezza e dal dolore dei miei peccati, e lui mi ha detto:
“Figlia mia, quando un’anima è convinta d’aver fatto male nell’offendermi, già fa l’uffizio della Maddalena che bagnò i miei piedi con le sue lacrime, li unse col balsamo e li asciugò coi suoi capelli. L’anima, quando incomincia a rimirare in sé il male che ha fatto, mi prepara un bagno alle mie piaghe; vedendo il male, ne riceve un’amarezza e ne prova un dolore, e con questo viene ad ungere le mie piaghe con un balsamo squisitissimo. Da questa conoscenza l’anima vorrebbe fare una riparazione, e vedendo l’ingratitudine passata si sente nascere in sé l’amore verso un Dio tanto buono, e vorrebbe mettere la sua vita per attestare l’amore suo, e questo sono i capelli che,[96] come tante catene d’oro, si lega al­l’amore mio”.
Ottobre 29, 1899  (89)
Gesù la porta nelle sue braccia e l’ammaestra.
Continua il mio adorabile Gesù a venire, ma questa mattina, appena venuto mi ha preso fra le sue braccia e mi ha trasportata fuori di me stessa; ed io trovandomi in quelle braccia comprendevo molte cose, specialmente che per poter stare liberamente nelle braccia di Nostro Signore, ed anche entrare a bell’agio nel suo cuore ed uscirne come [al]l’anima più piacerebbe, e per non essere di peso e di fastidio al benedetto Gesù, era assolutamente necessario spogliarsi di tutto. Quindi con tutto il cuore gli ho detto:
“Mio caro ed unico Bene, quello che vi chiedo per me è che mi spogliate di tutto, perché veggo bene che per essere rivestita da voi e vivere in voi, e voi rivivere in me, è necessario che neppure l’ombra io abbia di ciò che a voi non appartiene”.
E lui, tutto benignità mi ha detto: “Figlia mia, la cosa principale per entrare io in un’anima e formare la mia abitazione è il distacco totale da ogni cosa. Senza di questo, non solo non posso io dimorarvi, ma neppure nessuna virtù può prendere abitazione nell’anima. Dopo, poi che l’anima ha fatto uscire tutto da sé, allora vi entro io, ed unito con la volontà dell’anima fabbrichiamo una casa. Le fondamenta di questa si basa[no] sull’umiltà, e quanto più profonde tanto più alte e forti riescono le mura. Le dette mura saranno fabbricate da pietre di mortificazione, incalcinate d’oro purissimo di carità. Dopo che si son costruite le mura, io come eccellentissimo pittore, non con calce ed acqua, ma coi meriti della mia passione, indicato per la[97] calce, e coi dolori del mio sangue, indicato per l’acqua, le intonaco e vi formo le più eccellentissime pitture, e questo servirà [per] ben munirla dalle piogge, dalle nevi e da qualunque scossa. Appresso ne vengono le porte. Queste, per far sì che fossero solide come legno, non soggette al tarlo, è necessario il silenzio che forma la morte dei sensi esteriori.
Per custodire questa casa è necessario un guardiano che vigili da per tutto, entro e fuori, e questo è il timor santo di Dio che la guarda da qualunque inconveniente, vento ed altro che potrà sovrastarla. Questo timore sarà la salvaguardia di questa casa, che farà operare non con timore della pena, ma per timore d’offendere Dio ch’è il padrone di questa casa; questo timore santo non deve fare altro che far tutto per piacere a Dio, senza nessun’altra intenzione. In seguito si deve ornare questa casa ed empirla di tesori; questi tesori non devono essere altro che desideri santi, che lacrime; questi erano i tesori dell’Antico Testamento, ed in essi [gli uomini] trovarono la loro salvezza; nell’adempimento dei loro voti, la loro consolazione, la fortezza nelle sofferenze; insomma tutta la loro fortuna [la] riponevano nel desiderio del futuro Redentore, ed in questo desiderio operavano da a-
tleti.
L’anima senza desiderio opera quasi da morta, anche le stesse virtù; tutto è noia, fastidio, rancore, nessuna cosa le piace, cammina quasi strisciando per la via del bene. Tutto all’opposto l’anima che desidera; nessuna cosa le dà peso, tutto è allegria, vola, nelle stesse pene trova i suoi gusti, e questo perché v’era un anticipato desiderio, e le cose che prima si desiderano poi vengono ad amarsi, ed amandosi si trovano i più graditi piaceri. Perciò questo desiderio va accompagnato da prima che si fabbricasse questa casa. Gli ornamenti di questa casa saranno le pietre più preziose, le perle, le gemme più costose di questa mia vita, basata sempre sul patire, ed il puro patire. E siccome colui che l’abita è il datore d’ogni bene, vi mette il corredo di tutte le virtù, la profuma coi più soavi odori, fa olezzare i più leggiadri fiori, fa risuonare una musica celestiale delle più gradite, fa respirare un’aria di paradiso”.
Ho dimenticato di dire che bisogna vedere se c’è la pace domestica, e questa non deve essere altro che il raccoglimento ed il silenzio dei sensi interiori.
Dopo ciò io continuavo a stare nelle braccia di Nostro Signore e mi trovavo tutta spogliata, ed in questo mentre vedevo il confessore presente; Gesù mi ha detto, ma mi pareva che voleva fare uno scherzo per vedere che cosa io dicessi:
“Figlia mia, tu ti sei spogliata di tutto, e tu sai che quando uno si spoglia ci vuole un altro che pensi a vestirla, a nutrirla e che le dia un luogo dove farla dimorare. Tu dove vuoi stare, nelle braccia del confessore o nelle mie?”
E mentre così diceva faceva l’atto di mettermi nelle braccia del confessore. Io ho incominciato ad insistere che non ci volevo andare; lui, che voleva. Dopo un po’ di contesa mi ha detto: “Non temere, ti tengo nelle mie braccia”, e così siamo restati in pace.
Ottobre 30, 1899  (90)
Gesù le parla dei castighi.
Questa mattina il benigno mio Gesù è venuto tutto afflitto, e le prime parole che mi ha detto sono state: “Povera Roma, come sarai distrutta! Nel rimirarti io ti compiango!” Ma lo diceva con tal tenerezza che faceva compassione; ma non ho capito se siano persone sole o uniti gli edifici.
Io, siccome avevo l’ubbidienza di non conformarmi alla giustizia, ma di pregare, perciò gli ho detto: “Mio diletto Gesù, quando si parla di castighi non bisogna più contendere, ma pregare solamente”. E così ho incominciato a pregare, a baciare le sue piaghe ed a fare atti di riparazione. E mentre ciò facevo, lui di tanto in tanto mi diceva:
“Figlia mia, non farmi violenza; facendo così tu vuoi violentarmi per forza, perciò statti quieta”.
Ed io: “Signore, è l’ubbidienza che così vuole, non sono io che ciò faccio”.
Lui ha soggiunto: “Il fiume dell’iniquità è tanto che giunge ad impedire la redenzione delle anime, e la sola preghiera e queste mie piaghe impediscono che questo fiume impetuoso non si l’assorbisca[98] tutto in sé”.
Deo gratias!


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