Per avere invece le rivelazioni del Padre ad Eugenia Ravasio
dovete scrivere ad : "Associazione Dio è Padre" Casa Pater cap 135-67100 - Aquila - . email: avemaria@armatabianca.org
sito:www.armatabianca.org
vi faccio sapere inoltre che chi vuole i libri di Luisa Piccarreta in forma cartacea ed in offerta libera può richiederlo chiamando a questo numero 3881934654(wind)
2) IL GESU' MISERICORDIOSO DI VILNUS CON LA PREGHIERA SOTTO :"GESU' INFINITAMENTE MISERICORDIOSO, CONFIDO E SPERO IN TE,DONAMI LA TUA VOLONTA' IN TUTTI I MIEI ATTI E PRENDITI SEMPRE LA MIA , NELLA DIVINA VOLONTA'. POI SOTTO SCRIVERE IL MIO BLOG:
http://acquamiracolosa33.blogspot.it/
DIETRO IL QUADRO DI GESU' MISERICORDIOSO METTETE A META' BUSTO LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA ANCHE A META BUSTO ED IN FORMATO PICCOLO 15 CM PER 15CM I VEGGENTI MARIJA PAVLOVIC E IVANKA IVANKOVIC , SANTA RITA CHE MI HA FATTO CONOSCERE I LIBRI DI LUISA PICCARRETA ,PADRE PIO CHE MI HA CONVERTITO, SAN MICHELE ARC. CHE MI ASSISTE E MI LIBERA SEMPRE DAL NEMICO, PADRE JOZO PARROCO DELLA CHIESA DI MEDJUGORJE NEL PERIODO DELLE PRIME APPARIZIONI, SAN PADRE ANNIBALE MARIA DI FRANCIA DI MESSINA CHE MI HA FATTO AVERE I LIBRI DIFATTI HO LETTO I LIBRI QUANDO LUI E' STATO FATTO BEATO E LUI E' STATO QUELLO CHE HA CREDUTO IN LUISA E HA PUBLICATO I SUOI LIBRI . SOTTO ANCORA IL MIO BLOG : ACQUAMIRACOLOSA33.BLOGSPOT.IT METTETE LA SCRITTA:" IN QUESTO BLOG TROVERETE TUTTI I LIBRI DI LUISA PICCARRETA LA SANTA DEL DIVINO VOLERE CHE HA RICEVUTO DA GESU' LE VERITA' ETERNE SUL DIVINO VOLERE IN CIRCA 40 VOLUMI. ATTRAVERSO QUESTI SCRITTI GESU' DICE A LUISA CHE L'UOMO RITORNERA' ALLO STATO D'ORIGINE PRIMA DEL PECCATO CIOE' SEMPRE UNITO AL DIVINO VOLERE VIVRA' COME UN ANGELO SULLA TERRA, LA SUA SANTITA' SARA' SIMILE A QUELLA DI MARIA E OTTERRA' GRAZIE INFINITE, OGNI COSA CHE VORRA' TUTTO SARA' DATO IN EREDITA' AI FIGLI DEL DIVINO VOLERE CHE NASCERANNO DAGLI INSEGNAMENTI DI QUESTI SCRITTI SULLA DIVINA VOLONTA', UNO SOLO DI QUESTI SANTI SARA' PIU' SANTO DI TUTTI I SANTI MESSI INSIEME , SARA' COME UN SOLE CHE ILLUMINA TUTTI IN TUTTI I TEMPI,GESU' DICE A LUISA DI ENTRARE SEMPRE NELLA SUA UMANITA' E DI UNIRSI ALL'ATTO UNICO DELLA DIVINA VOLONTA', DI PREGARE SEMPRE :GESU' TI DO LA MIA VOLONTA' TU DONAMI LA TUA E DESIDERARE SEMPRE CHE SIA GESU' A FARE TUTTE LE NOSTRE AZIONI."
dovete scrivere ad : "Associazione Dio è Padre" Casa Pater cap 135-67100 - Aquila - . email: avemaria@armatabianca.org
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IMPORTANTISSIMO
"CREDO CHE GESU' VOGLIA DARE ANCHE IN ALTRI PUNTI DEL MONDO LA STESSA ACQUA MIRACOLOSA DEL DIVINO VOLERE E DELL' INFINITA MISERICORDIA DI GESU' ,PERO' SOLO A QUEI FIGLI DEL DIVINO VOLERE CHE CON FEDE INDEFETTIBILE PORRANNO NEL LUOGO CHE LE INDICHERA' NEL CUORE LA DIVINA VOLONTA' :
1) L'IMMAGINE DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE DI PORTO EMPEDOCLE ( LA FOTO CHE C'E' NEL MIO BLOG CON LA MADONNINA DI LOURDES ED IL PORTO DI PORTO EMPEDOCLE),
1) L'IMMAGINE DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE DI PORTO EMPEDOCLE ( LA FOTO CHE C'E' NEL MIO BLOG CON LA MADONNINA DI LOURDES ED IL PORTO DI PORTO EMPEDOCLE),
http://acquamiracolosa33.blogspot.it/
DIETRO IL QUADRO DI GESU' MISERICORDIOSO METTETE A META' BUSTO LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA ANCHE A META BUSTO ED IN FORMATO PICCOLO 15 CM PER 15CM I VEGGENTI MARIJA PAVLOVIC E IVANKA IVANKOVIC , SANTA RITA CHE MI HA FATTO CONOSCERE I LIBRI DI LUISA PICCARRETA ,PADRE PIO CHE MI HA CONVERTITO, SAN MICHELE ARC. CHE MI ASSISTE E MI LIBERA SEMPRE DAL NEMICO, PADRE JOZO PARROCO DELLA CHIESA DI MEDJUGORJE NEL PERIODO DELLE PRIME APPARIZIONI, SAN PADRE ANNIBALE MARIA DI FRANCIA DI MESSINA CHE MI HA FATTO AVERE I LIBRI DIFATTI HO LETTO I LIBRI QUANDO LUI E' STATO FATTO BEATO E LUI E' STATO QUELLO CHE HA CREDUTO IN LUISA E HA PUBLICATO I SUOI LIBRI . SOTTO ANCORA IL MIO BLOG : ACQUAMIRACOLOSA33.BLOGSPOT.IT METTETE LA SCRITTA:" IN QUESTO BLOG TROVERETE TUTTI I LIBRI DI LUISA PICCARRETA LA SANTA DEL DIVINO VOLERE CHE HA RICEVUTO DA GESU' LE VERITA' ETERNE SUL DIVINO VOLERE IN CIRCA 40 VOLUMI. ATTRAVERSO QUESTI SCRITTI GESU' DICE A LUISA CHE L'UOMO RITORNERA' ALLO STATO D'ORIGINE PRIMA DEL PECCATO CIOE' SEMPRE UNITO AL DIVINO VOLERE VIVRA' COME UN ANGELO SULLA TERRA, LA SUA SANTITA' SARA' SIMILE A QUELLA DI MARIA E OTTERRA' GRAZIE INFINITE, OGNI COSA CHE VORRA' TUTTO SARA' DATO IN EREDITA' AI FIGLI DEL DIVINO VOLERE CHE NASCERANNO DAGLI INSEGNAMENTI DI QUESTI SCRITTI SULLA DIVINA VOLONTA', UNO SOLO DI QUESTI SANTI SARA' PIU' SANTO DI TUTTI I SANTI MESSI INSIEME , SARA' COME UN SOLE CHE ILLUMINA TUTTI IN TUTTI I TEMPI,GESU' DICE A LUISA DI ENTRARE SEMPRE NELLA SUA UMANITA' E DI UNIRSI ALL'ATTO UNICO DELLA DIVINA VOLONTA', DI PREGARE SEMPRE :GESU' TI DO LA MIA VOLONTA' TU DONAMI LA TUA E DESIDERARE SEMPRE CHE SIA GESU' A FARE TUTTE LE NOSTRE AZIONI."
3) UNA SCRITTA PER TERRA NEL GIARDINO CON LE PIETRE COLORATE :"DIVINA VOLONTA'"
4) IL QUADRETTO DELLA SACRA FAMIGLIA DI NAZARET COME L'HO MESSO IO NEL GIARDINO VICINO LA MADONNINA DI LOURDES PER TERRA , UN PO RIALZATO DALLA PARTE SUPERIORE E DECORATO AI LATI CON PIETRE COLORATE .
5) LA STESSA POESIA (INNO AL DIVINO VOLERE )AFFIANCO ALLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE DI PORTO EMPEDOCLE BEN ESPOSTA APPESA A 2 CATENE SOTTO 2 TRONCHETTI D'ALBERO DI ARANCIO O LIMONE A FORMA DI U LARGA CAPOVOLTA .
POESIA: INNO AL DIVINO VOLERE
"Nel Voler Divin solea alzar ineffabili canti nei monti e valli
L’eco risuonar di rumor di carri
Guerre dei funesti eventi riecheggiar come bombe nei nostri cuor
Alzatevi o eroi combattenti come negli antichi tempi per il Signor,
unitevi nell’Amor e prendete le vostri armi, nella Santità per distruggere l’eterno nemico infernale
il serpente tentator che avanza nel fuoco delle campagne di Armagheddon
ove l’ira di Dio lo farà tremar e lo invaderà il terror per la disfatta che lo coglierà ,
il grido dei bimbi che giocano in festa si ode già nelle piazze per il nostro trionfar"
LA POESIA , I QUADRI DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE , DELLA SACRA FAMIGLIA DI NAZARET, DI GESU' MISERICORDIOSO DI VILNUS, ED IL QUADRO CON LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA , POTETE PROCURARVELO IN UN NEGOZIO DI STAMPA DIGITALE CHE USANO MATERIALI E TECNICHE STAMPANTI CHE NON SI SCOLORANO SE LE IMMAGINI SACRE SONO ESPOSTI AL SOLE ED ALLA PIOGGIA .
"Nel Voler Divin solea alzar ineffabili canti nei monti e valli
L’eco risuonar di rumor di carri
Guerre dei funesti eventi riecheggiar come bombe nei nostri cuor
Alzatevi o eroi combattenti come negli antichi tempi per il Signor,
unitevi nell’Amor e prendete le vostri armi, nella Santità per distruggere l’eterno nemico infernale
il serpente tentator che avanza nel fuoco delle campagne di Armagheddon
ove l’ira di Dio lo farà tremar e lo invaderà il terror per la disfatta che lo coglierà ,
il grido dei bimbi che giocano in festa si ode già nelle piazze per il nostro trionfar"
LA POESIA , I QUADRI DELLA MADONNA DEL DIVINO VOLERE , DELLA SACRA FAMIGLIA DI NAZARET, DI GESU' MISERICORDIOSO DI VILNUS, ED IL QUADRO CON LA MADONNA DI THIALJINA E LUISA PICCARRETA , POTETE PROCURARVELO IN UN NEGOZIO DI STAMPA DIGITALE CHE USANO MATERIALI E TECNICHE STAMPANTI CHE NON SI SCOLORANO SE LE IMMAGINI SACRE SONO ESPOSTI AL SOLE ED ALLA PIOGGIA .
Quaderno di “Memorie dell’infanzia”
e
Volume 1
Luisa Piccarreta
“La Piccola Figlia della Divina Volontà”
Luglio 15-1926
Mio Gesù, amor mio, mia Mamma
celeste e sovrana Regina, venite in mio aiuto, prendete fra le vostre mani il povero
mio cuore; non vedete come mi sanguina per il duro combattimento di dover cominciare
da capo, per dire la mia povera esistenza, della mia infanzia? A qualunque
costo vorrei sfuggire questo dolorosissimo e duro sacrificio, e tanto più duro
perché inaspettato; ma una novella ubbidienza esce in campo per martoriare la
mia povera ed insignificante esistenza. Gesù, Mamma, venite in mio aiuto, altrimenti
mi sento che la mia volontà vorrebbe uscire in campo di nuovo, per avere vita e
poter dire un ‘no’ reciso a chi mi comanda. Ah, Gesù, permetterai tu forse che
io abbia che ci fare[1]
col mio volere, dopo tanto tempo che tu con tanta gelosia lo tieni legato ai
tuoi piedi come dono e trionfo della piccola figlia tua? Mi hanno imposto di pregare
per sapere da te se debbo o no farla, e tu invece di essere con me, mi hai
detto: “Ciò servirà a far conoscere la terra che doveva illuminare il sole
della mia Volontà[2],
per formare il regno suo”. Ah, Gesù, che importa a me far conoscere la mia piccola
terra! E a te deve importare che si conosca il tuo Volere, non è vero o Gesù?
Ma Gesù ha fatto silenzio ed è scomparso, ed io pronunzio con tutta l’intensa
amarezza dell’anima : “Fiat! Fiat!”,
ed incomincio.
Onde dico in principio ciò che mi
hanno detto, la stessa mia famiglia.
Nacqui il 1865, 23 aprile, la domenica
in albis, di mattina; la sera stessa mi battezzarono. Diceva mia madre che io
nacqui a rovescio, ma lei non soffrì nulla nel parto, tanto che io, negli
incontri e circostanze della mia povera vita, son solita di dire: “Nacqui al
rovescio! È giusto che la mia vita sia al rovescio della vita delle altre
creature”. Onde ricordo che nella mia tenera età di tre o quattro anni, fino
all’età di circa dieci, ero di temperamento pauroso, ed era tanta la paura che,
né sapevo star sola, né dare un passo da sola; ma ciò era causato che fin
dall’età di tre anni, nella notte facevo quasi sempre sogni di paura. Sognavo
il demonio, che mi metteva spavento tale da farmi tremare; molte volte lo
sognavo che mi voleva portare con sé e mi tirava forte, ed io facevo tutti gli
sforzi per fuggire; ed io nello stesso sogno sudavo freddo, mi nascondevo,
fuggivo in braccio alla mamma mia; quindi il giorno mi restava l’impressione
dei sogni, e tale paura come se da tutte le parti il demonio volesse uscire.
Ora credo che ciò mi fece bene, perché sin da quella tenera età io recitavo
molte Ave Maria e Pater Noster a tutti i santi [di cui] io
conoscevo il nome, per avere la grazia di non farmi sognare il demonio; e se mi
veniva nominato un altro santo che io non conoscevo, subito aggiungevo un Pater, se era santo maschio, un’Ave se era donna, perché dicevo che se
non li onoravo tutti, mi facevano sognare il demonio. Ricordo che le sette Ave alla Mamma addolorata, fin da quell’età
le recitavo sempre, sicché tenevo una lungaggine di Pater ed Ave Maria; e
perciò mentre le altre bambine e mie sorelline giocavano, io restavo un po’
discosta da loro, oppure insieme con loro perché avevo paura, ma non prendevo
parte ai loro giuochi innocenti, per recitare le mie lunghe Ave e Pater Noster… Ricordo pure che qualche volta sognavo la Vergine,
che mi cacciava il demonio, ed una volta mi disse: “Figlia mia, piangi, che è
morto mio Figlio”. Io restai scossa e la compativo; ma ciò mi rendeva infelice.
Quando giunsi all’età più capace in cui potevo fare la meditazione, leggere,
non potevo appartarmi per la paura, e quindi non potevo fare ciò che volevo.
Ora, avendomi fatta all’età di
undici anni figlia di Maria, un giorno, mentre volevo pregare e meditare, la paura
mi sorprese e stavo per fuggire in mezzo alla famiglia, mi intesi una forza nel
mio interno che mi tratteneva, e sentii nel fondo dell’anima mia una voce che
mi diceva: “Perché temi? C’è l’angelo tuo vicino al tuo fianco, c’è Gesù nel
tuo cuore, c’è la Mamma celeste che ti tiene sotto il suo manto; perché dunque
prendi paura? Chi è più forte: l’angelo tuo custode, il tuo Gesù, la tua Mamma
celeste, o il nemico infernale? Perciò non fuggire, ma restati e prega, e non
aver paura”.
Questo sentire nel mio interno mi
recò tanta forza, coraggio e fermezza, che si allontanò la paura, ed ogni qual
volta mi sentivo sorprendere dalla paura, mi sentivo ripetere la stessa voce
nel mio interno, ed io mi sentivo portare come con mano dal mio angelo, dalla sovrana
Regina e dal dolce Gesù; mi sentivo trionfante in mezzo a loro, in modo che
acquistai tale coraggio che mi allontanò tutta la paura; molto più che i sogni
paurosi cessarono del tutto. Così potetti restare sola, camminare sola, andare
sola in giardino quando si stava alla masseria, mentre prima, se ci andavo,
solo che vedevo muoversi un ramo d’albero, fuggivo, perché pensavo che lì sopra
c’era il demonio.
Ricordo che un giorno, ricordando
la paura della mia piccola età, i tanti sogni del nemico, che mi rendevano
infelice la mia fanciullezza, dicevo a Gesù: “A che pro, amor mio, aver passata
la mia infantile età con tanta paura, con tanti sogni cattivi, che mi facevano
tremare, sudare ed amareggiare un’età così tenera? Io non ne capivo nulla, né
credo che il nemico avesse nessuno scopo, stante un’età così piccola”; e Gesù
mi disse: “Figlia mia, il nemico intravedeva qualche cosa su di te: che mi potresti[3]
servire a qualche cosa della mia grande gloria, e che lui doveva ricevere una
grande sconfitta, non mai ricevuta; molto più che vedeva che, per quanto si
sforzava, non poteva far penetrare in te nessuno affetto o pensiero meno puro,
perché io gli tenevo chiuse le porte, e lui non sapeva da dove entrare; vedendo
ciò si arrabbiava e cercava di atterrirti, non potendo altro, con sogni paurosi
e di spavento. Molto più che non sapendone la cagione dei miei grandi disegni
su di te, che dovevano servire alla distruzione del suo regno, si metteva sull’attenti
per indagare la causa, con la speranza di poterti nuocere in tutti i modi”.
Nostro Signore è stato tanto
buono con me, dandomi genitori buoni, e [in] più stavano attenti a non farci sentire
neppure una parola di bestemmia o meno onesta. Mi amavano, ma con amore
dignitoso e serio. Ricordo che mai mio padre, essendo bambina, mi pigliò in braccio,
né di avergli dato, né ricevuti baci; neppure a mia madre ricordo d’averla
baciata, e quando fui grande e mi misi a letto, la mamma, dovendo andare alla
masseria e mancare lunghi mesi, nel licenziarsi da me faceva atto di volermi
baciare, ed io, vedendo ciò, prima che lo facesse le baciavo la mano, ed essa
si asteneva di fare quello sfogo tutto materno.
Il babbo e la mamma erano angeli
di purità e di modestia. Sono stati larghi coi loro dipendenti: la frode, l’inganno,
non tenevano luogo in casa nostra. Era tanta la custodia che mai ci affidarono
a persone estranee, ma sempre con loro. Io mi auguro che il benedetto Gesù abbia
premiato tanta virtù, dando loro per soggiorno la patria celeste. Ricordo pure
che io ero di temperamento vergognoso, e se venivano parenti o altri a farci
visita, io me ne fuggivo sopra, per non farmi trovare, oppure mi nascondevo
dietro d’un letto e pregavo, ed allora uscivo, quando mi chiamavano e mi
dicevano che se ne erano andati; e quando la mamma mia andava a far visita ai parenti
e voleva portarmi insieme, piangevo, perché non volevo andare; ed io ed
un’altra mia sorellina, quasi dello stesso temperamento, ci contentavamo di restarci
sole chiuse a chiave, anziché d’uscire. Questa vergogna non mi faceva prendere
parte a nulla, né a feste, né a divertimenti, anche innocenti, che si usano nelle
famiglie; ero la sacrificata della vergogna, e se i miei mi costringevano,
stavo in croce, perché la vergogna, tutte le cose me le rendeva estranee.
Onde ricordando tutto ciò, che in
qualche modo rendeva infelice la mia fanciullezza, il dolce Gesù mi disse:
“Figlia mia, anche la vergogna con cui ti circondai nella tua tenera età fu una
delle più grandi gelosie d’amore per te; non volevo che in te entrasse nessuno,
né il mondo, né le persone; volevo renderti estranea a tutti. A nessuna cosa
volevo che tu prendessi parte e che ti facesse piacere, perché avendo stabilito
fin d’allora che dovevo formare in te il regno del Fiat supremo, e dovendo tu prendere parte alle sue feste ed alle
gioie che in Esso ci sono, era giusto che nessun’altra festa tu godessi, e che
dei piaceri e divertimenti che ci sono sulla terra ne dovresti[4]
restare digiuna. Non ne sei contenta?”. Ma ad onta che ero vergognosa e paurosa,
ero di temperamento vivace, allegra; saltavo, correvo e facevo anche delle impertinenze.
Ora, dopo, all’età di dodici anni
circa, incominciò un altro periodo della mia vita: incominciai a sentire la
voce interna di Gesù, specie nella comunione. La prima la feci a nove anni, e
nel medesimo giorno ricevetti il sacramento della santa cresima. Quindi non di
rado [la voce di Gesù] si faceva sentire nel mio interno quando facevo la santa
comunione. Delle volte rimanevo le ore intere inginocchiata, quasi senza moto,
dopo la comunione, e sentivo la voce interna che diceva: - e ora mi rimproverava
se non ero stata buona – “attenta”; e se nel corso del giorno ero stata qualche
volta distrattella, oh, come mi riprendeva, e finiva col dirmi: “Eppure mi dici
che mi vuoi bene; e dove è questo tuo bene?”.
Io mi sentivo morire nel sentirmi
dir ciò, e promettevo di essere più attenta, e Gesù soggiungeva: “Vedrò, vedrò
se sarà vero…; le parole non mi bastano, ma voglio i fatti”.
La comunione diventò la mia passione
predominante. In essa accentrai tutti i miei affetti. Ero certa di sentir
parlare nostro Signore; e quanto mi costava l’esserne priva, perché ero
costretta dalla famiglia ad andare insieme con loro alla masseria, e dovevo
stare lunghi mesi senza messa e senza comunione. Quante volte rompevo in pianto
nel vedere alberi, fiori, la creazione tutta…!
Dicevo tra me: “Le opere di Gesù
sono intorno a me; solo Gesù non è con me… Deh, parlami tu fiore, tu sole, tu
cielo, tu acqua cristallina che scorri nel nostro laghetto, parlatemi di Gesù;
siete opere delle sue mani, datemi notizie di lui…! E mi sembrava che tutte di
lui mi parlassero. Ogni cosa creata mi parlava di ciascuna qualità di Gesù, ed
io piangendo, che non potevo ricevere Colui che tutte le cose amavano, e che
sapevano così bene narrare della bellezza, dell’amore, della bontà di Gesù, piangevo
e giungevo fino ad ammalarmi. Anche nella meditazione sentivo la voce di Gesù,
ma qualche volta mi mancava; invece nella comunione, mai. E quante volte
meditando restavo le due o le tre ore senza potermi distaccare; come leggevo il
punto e mi fermavo, così la voce di Gesù sentivo nel mio interno, che atteggiandosi
a maestro mi spiegava la meditazione. Fin d’allora mi faceva nel mio interno,
l’amabile Gesù, lezioni sulla croce, sulla mansuetudine, sull’ubbidienza, sulla
sua vita nascosta… A tal proposito, della sua vita nascosta, ricordo che mi diceva:
“Figlia mia, la tua vita deve essere in mezzo a noi nella casa di Nazareth. Se
lavori, se preghi, se prendi cibo, se cammini, devi avere una mano a me,
l’altra alla Mamma nostra, e lo sguardo a san Giuseppe, per vedere se i tuoi
atti corrispondono ai nostri, in modo da poter dire: ‘Faccio prima il mio modello
sopra a ciò che fa Gesù, la Mamma celeste e San Giuseppe, e poi lo seguo’. A
seconda il modello che hai fatto, io voglio essere ripetuto da te nella mia
vita nascosta; voglio trovare in te le opere della Mamma mia, quelle del mio caro
san Giuseppe, e le mie stesse opere”. Io restavo confusa e gli dicevo: “Mio
amato Gesù, io non so fare”.
E lui: “Figlia mia, coraggio, non
ti abbattere; se non sai fare domandami che io ti insegni, ed io subito t’insegnerò;
ti dirò il modo come facevamo, le mie intenzioni, l’amore continuo di tutti e
tre, che[5]
io come mare e loro come fiumicelli eravamo sempre gonfi, in modo che uno
straripava nell’altro, tanto che poco tempo tenevamo di parlarci, tanto
eravamo assorbiti nell’amore. Vedi quanto stai dietro? Molto hai da fare per
raggiungerci; ti conviene molto silenzio ed attenzione, ed io non ti voglio
dietro, ma in mezzo a noi”.
Onde, quando non sapevo fare, domandavo
a Gesù, e lui m’insegnava nel mio interno. Cercavo quasi sempre, quanto più
potevo, di appartarmi dalla famiglia per starmi sola, per mantenere il
silenzio; prendevo il mio lavoro e chiedevo alla mamma che mi permettesse di
andarmene sopra, e lei me lo concedeva.
Sicché la mia mente stava nella
casa di Nazareth, ed ora guardavo l’uno, ora l’altro, e mi confondevo nel vederli
così attenti nei loro umili lavori, così assorbiti nelle fiamme d’amore, che
s’innalzavano tanto in alto che i loro lavori restavano incendiati e trasformati
in amore; ed io, meravigliata, pensavo tra me: “Loro amano tanto, ed il mio
amore qual è? Posso dire che i miei lavori, le mie preci, il cibo che prendo, i
passi che faccio, sono fiamme che s’innalzano al trono di Dio, e formando fiume
straripa nel mare di Gesù?”. E vedendo che non lo era, restavo afflitta; e Gesù
nel mio interno mi diceva: “Che hai? Non ti affliggere; a poco a poco
giungerai. Io ti starò sopra, e tu seguimi e non temere”.
Se io volessi dire tutto ciò che
passai nel mio interno nella mia fanciullezza, andrei troppo per le lunghe; molto
più che nel primo volume da me scritto, senza precisare l’epoca, prima o dopo,
quando fui più piccola o quando fui più grande, sta dato un accenno del lavorio
della grazia nel fondo dell’anima mia, perché così mi fu detto: che non faceva
nulla che non mettessi l’ordine dell’età, né quello che era stato prima, né
quello che era stato dopo, ma purché dicessi quello che in me era passato;
molto più che dopo tanti anni mi riusciva difficile tenere l’ordine di ciò che
era passato nel mio interno. Ed ora, per non fare ripetizione, passo avanti.
Ricordo che, ragazza, avevo quasi
una smania di volermi far suora, e siccome andavo dalle suore a scuola, io sentivo
un affetto un po’ spinto per loro, ma però le[6]
volevo bene perché volevo essere come una di loro; ma nel mio interno mi
sentivo rimproverarmi di questo affetto, e mentre promettevo di non amare altro
che Gesù, ricadevo di nuovo, e Gesù ritornava a darmi amari rimproveri. Unico
affetto che ricordo, che ho sentito in vita mia in modo speciale, che poi non
mi son sentita più amore con nessuno. Che tirannia è un affetto naturale e
forse anche innocente, al povero cuore umano! Lo ricordo con terrore; i rimproveri
interni mi mettevano in croce; mi sembrava che il mio affetto teneva in croce
Gesù, e Gesù per ricambio metteva in croce me, e perciò non godevo la vera
pace, perché è la natura dell’amore umano, guerreggiare un povero cuore. Aver
pace ed amare persone con modo speciale, non esiste nel mondo, e se esiste
significa non aver coscienza, ed ancorché fosse con fine santo o indifferente.
Ma il benedetto Gesù la fece subito finire, ed ecco come.
Una mattina pregai la mamma che
mi mandasse a far visita alla superiora, e l’ottenni con stento e sacrificio.
Mentre andai, domandai che mi facessero uscire la superiora, e dopo mi fu
risposto che stava occupata e non poteva uscire; io restai come ferita nel
sentir ciò. Andai in chiesa e sfogai la mia pena con Gesù, e lui prese occasione
da ciò per farmela finire. Mi parlò del suo amore e dell’incostanza dell’amore
delle creature, e come voleva che assolutamente la finissi, dicendomi che:
“Quando un cuore non è vuoto, io lo rifiuto, né posso incominciare il lavorio
che ho disegnato di fare nel fondo dell’anima”. Ma chi può dire tutto ciò che
mi disse nel mio interno? Ricordo che là finì, ed il mio cuore restò impavido,
senza sapere amare più nessuno.
Onde pregavo sempre Gesù che mi
facesse giungere a farmi suora, e spesso lo domandavo quando me lo[7]
sentivo nel mio interno, se doveva giungere a compimento la mia vocazione
religiosa, e Gesù mi assicurava dicendomi: “Sì, ti contenterò; vedrai che sarai
suora”. Io restavo tutta contenta nel sentirmi assicurare da Gesù, e cercavo di
disporre la famiglia per ottenere il consenso, la quale era contraria, specie
la mamma; giungeva fino a piangere, e mi diceva che mi avrebbe contentato se
avessi voluto farmi suora di clausura, ma delle suore attive, non me l’avrebbe
fatta mai vincere. Io però, a dire il vero, volevo farmi suora attiva, perché
quelle che conoscevo erano state le mie maestre, ma sopravvenne la mia lunga
malattia, e mise termine alla mia vocazione; e molte volte mi lamentavo con
Gesù e gli dicevo: “Eppure mi dicevate la bugia, mi davi la burla, promettendomi
che dovevo giungere a farmi suora”.
E Gesù molte volte mi ha
assicurato che mi diceva la verità, dicendomi: “Io non so né ingannare né burlare;
la chiamata che io facevo a te era più speciale: chi mai col farsi suora, anche
nelle religioni più strette, non può camminare, non prendere aria, non godere
nulla? E quante volte nelle religioni fanno entrare il piccolo mondo e si
divertono magnificamente? Ed io resto come da parte. Ah, figlia mia, quando io
chiamo ad uno stato, io so come realizzare la mia chiamata; il luogo è per me
indifferente, l’abito religioso per me dice nulla, quando nella sostanza
dell’anima è quello che dovrebbe essere se fosse entrata in religione; e perciò
ti dico che sei e sarai la vera monacella del cuore mio”.
Oh, grande sacrifizio che mi
s’impone dalla santa obbedienza alla mia capacità, di dover mettere su carta
quanto tra me ed il mio diletto Gesù è avvenuto nel corso di sedici e più anni.
Mi sento come schiacciata sotto di sì ingente peso; ciò nonpertanto mi accingo,
a mia grande confusione, a compierlo, ma fidente in Gesù, mio sposo diletto,
affinché voglia rendermelo meno gravoso; così potrò compierlo per la maggior
gloria di Dio e per l’amore che nutro verso la nobilissima virtù dell’obbedienza.
In te, o Gesù, con te e per te,
do principio; di me diffido, in te confido; senza di te io nulla posso; ma
sempre nel principio, nella durata del tempo che mi occorre, e nel termine, sia
fatto tutto per la maggiore gloria tua, per accrescimento del mio amore verso
di te, e per la mia grande confusione.
In una Novena del santo Natale
del mio sempre amabile Gesù, ancora in età di diciassette anni, volli prepararmi
a questa festività con la pratica giornaliera di diversi atti di virtù e
mortificazioni, a scopo speciale di onorare i nove mesi che Gesù si compiacque
stare nel verginale seno di Maria Santissima; mi proposi, quindi, di fare nove
meditazioni al giorno, concernenti sempre il sacrosanto mistero
dell’Incarnazione.
In una meditazione mi proponevo
di portarmi col pensiero lassù, in paradiso, e m’immaginavo la Santissima
Trinità in decisivo consiglio di voler riscattare l’uman genere, decaduto
nella più squallida miseria, da cui, senza dell’operato divino, giammai poteva
sorgere a novella vita di assoluta libertà; quindi mi ravvisavo il Padre in atto
di voler mandare il suo Unigenito sulla terra, il Figliuolo in atto di assentimento
alla nobile idea del Padre, e lo Spirito Santo in atto compiacentissimo di
voler essere, nel suo pieno consenso, tutto a maggior bene e salvezza
dell’umanità. La mia mente si confondeva, e si meravigliava tutto l’essere mio
nell’intuire un sì grande mistero di sì reciproco amore, così forte e sì
uguale, tra le Divine Persone, che tutto si rendeva diffusivo per il copioso
vantaggio degli uomini, e quindi consideravo l’ingratitudine degli uomini, nel
mettere in non cale il copioso frutto di sì grande amore. In questa considerazione
mi sarei stata non solo una bella ora, ma ancora tutta l’intera giornata, se
non mi avesse fatto sentire[8]
una voce nel mio interno che mi diceva: “Basta così per ora; vieni meco e vedi
altri eccessi più grandi del mio amore verso di te”.
La mia mente, quindi, veniva trasportata
a considerare il mio sempre amabile Gesù, risiedente nel purissimo seno di
Maria Santissima, Vergine e Madre, ed io rimanevo stupita nel considerare un
Dio sì grande che non può essere contenuto dai cieli, pur tuttavia, per amor
dell’uomo, così annichilito, impicciolito e ristretto, da non potersi muovere,
e quasi neppure respirare nel materno seno. A tale considerazione, che mi
faceva struggere di amore pel nascituro Gesù, dal mio interno mi si faceva
sentire una voce che mi diceva: “Vedi quanto ti ho amato? Deh! Procurami un po’
di largo nel tuo cuore; togli tutto ciò che non è mio, acciocché mi dia più
agio a potermi muovere e respirare nel tuo cuore”. Il mio cuore allora si
sentiva tutto distruggere di amore per lui, ed io gli chiedevo perdono dei
falli miei, promettendogli di voler essere tutta sua; mi sfogavo in amarissimo
pianto e, sebbene di giorno in giorno ripetevo la stessa promessa, nondimeno,
ad onor del vero ed a mia confusione, mi trovavo di aver commessi i soliti miei
difetti, a vista dei quali nel grande mio dolore esclamavo: “O mio buon Gesù,
quanto sei stato e tuttora sei benevolo verso questa misera creatura, abbi sempre
di me pietà!”.
Così passava la seconda ora di meditazione,
e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi troppo
seccante delle mie insipide e per me increscevoli narrazioni. E poiché la voce
interna richiedeva da me che le stesse meditazioni si ripetessero in ciascun
giorno della suddetta Novena, altrimenti non mi dava né tregua né riposo,
m’ingegnavo come meglio potevo a far ciò: quando inginocchiata, quando
prostrata a terra, e quando ne ero impedita dalla famiglia procuravo di seguirlo
ancora lavorando, per contentare sempre il mio buon Gesù.
Così passai tutti i giorni della
santa novena, tanto che giunse la vigilia in cui il mio diletto Gesù volle darmi
la non insolita ed inaspettata ricompensa. Nella vigilia del santo Natale, io
me ne stavo sola e solerte nel dar termine alle suddette meditazioni, e mentre
mi sentivo più che mai accesa d’insolito fervore, mi si fa innanzi il graziosissimo
bambinello Gesù, tutto grazioso e bello, sì, ma tremante più che mai dal freddo
per il poco amore che gli si dava dalla ingrata creatura. Lo vidi in atto di volermi
abbracciare, ed io, fuori di me per una insolita gioia, subito mi alzai e corsi
per abbracciarlo, ma egli, nell’atto di stringerlo fra le mie braccia, tosto mi
scomparve, il che di nuovo si ripetette per ben tre volte, senza farsi da me
abbracciare, per cui mi fece restare tanto commossa ed accesa di amore, da
farmi cadere in dolce ed amoroso deliquio, che mi è difficile poter dire a parola,
né tampoco mettere su carta, giacché mi mancano i vocaboli per ben esprimermi;
però non posso negare d’essermi sentita tutta trasformata di amore per lui, e
ciò per parecchi giorni, e che poi a rilento venne a scemarsi quell’insolito
fervore provato, sino a tanto che, dopo lungo tempo, non ne feci più conto
alcuno, e nemmeno feci di ciò motto ad anima vivente. La voce interna, però,
d’allora in poi non mi lasciò mai più e, perché vi cadevo ancora, dopo delle
mie solite mancanze mi riprendeva in ogni cosa non fatta bene; mi correggeva, insegnandomi
il modo di far tutto sempre bene; mi animava se ci cadevo di nuovo, facendomi
promettere più diligenza in avvenire. In una parola, il Signore, d’allora e
sempre, ha agito ed agisce con me come un buon padre verso un figlio tendente a
sviare sempre dal diritto sentiero della virtù, usando tutte le paterne
diligenze e cure per ritenerlo nel dovere, in modo da formarsene poi il suo
onore, la sua gloria e la sua più ricercata e fulgida corona di virtù. Ma
purtroppo, per mia vergogna e confusione, mi conviene tuttora esclamare: “Oh
quanto, o Gesù, ti sono stata ingrata!”.
Il mio divin maestro Gesù, in
questo modo diede principio e vi pose mano a spogliare il mio cuore da tutte le
affezioni che ci attaccano alle creature, per cui sempre e con voce interna mi
è venuto dicendomi: “Io sono il tuo tutto, che merita di essere amato da te con
uniformità al mio amore che ti porto. Vedi, se tu non allontani da te questo
piccolo mondo che da ogni intorno ti circonda, cioè, pensieri, affetti ed
immaginazioni verso le creature, io non posso entrare del tutto nel tuo cuore e
prendere stabile possesso.
Questo mormorio continuo nella
tua mente è d’impedimento a farti sentire più chiara la mia voce, a farmi
versare in te le mie grazie, a farti innamorare totalmente di me, che sono
sposo tutt’affatto geloso. Promettimi di voler essere tutta mia, ed io metterò
mano all’opera per fare di te tutto quello che voglio. Tu hai ragione di dirmi
che tu nulla puoi fare da te sola, ma non temere, farò io il tutto per te;
dammi la tua volontà e ciò mi basta”.
E tutto ciò me lo ripeteva più
spesso nella santa comunione, in cui mi effondevo in lacrime di pentimento, e
gli promettevo più che mai di essere tutta sua, gli chiedevo perdono se fino a
quel punto non ero stata secondo il suo Volere, e mi protestavo di veramente
volerlo amare di tutto cuore, pregandolo ancora che non mi lasciasse sola, ché
senza di lui sentivo che avrei potuto far di peggio. E Gesù, facendo sentire la
sua voce da dentro il mio cuore, continuava a dirmi: “No, no; verrò assieme con
te, dovunque tu vada, affine di osservare tutte le tue azioni, per dirigere ed equilibrare
tutti i movimenti e desideri del tuo cuore”.
E così me la passavo tutto il giorno,
non solamente pensando continuamente a lui, ma intenta ancora alla sua voce,
che internamente mi riprendeva ogniqualvolta mi lasciavo trasportare un po’ a
lungo nel discorrere con la famiglia di cose indifferenti o meno che
necessarie; subito mi diceva: “Questi tuoi discorsi non mi sono graditi, ché ti
riempiono la mente di cose che a me non appartengono, e ti circondano il cuore
di una polvere nociva, in modo da farti perdere l’efficacia della mia grazia
elargitati, rendendola così debole e non più viva; deh, imita me, quando io
stavo nella casa di Nazareth, che avevo la mia mente non ad altro occupata che
a quanto concerneva la gloria del Padre mio e la salvezza delle anime; la mia
bocca non si apriva se non a fare discorsi santi, cercando con le mie parole di
indurre altri a far riparare le offese che si facevano al Padre mio, e quindi
saettavo i cuori che, spezzati dal dolore e rammolliti dalla grazia, li tiravo
al mio amore. Che dirti poi delle spirituali conferenze che tenevo con la Madre
mia e col mio padre putativo? In una parola, tutto ciò che si diceva,
richiamava Dio, e tutto ciò che si operava era indirizzato e riferito a lui;
perché non potresti fare tu altrettanto?”.
Se non che io, al suo dire,
internamente restavo muta e tutta confusa, e quindi cercavo quanto più potevo
di starmene sola, ed era allora che gli confessavo la mia debolezza, gli
chiedevo aiuto e grazia efficace per poter eseguire puntualmente quanto egli da
me richiedeva, protestandomi che da me sola non avrei potuto fare altro che
male. Guai, poi, se la mia mente o il mio cuore sfuggiva talvolta ad interessarsi
di persone a cui volevo ancor io bene; la sua voce subito mi riprendeva
aspramente, dicendomi in tono vibrante: “Questo è dunque il bene che mi vuoi?
Chi mai ti ha amato al par di me? Vedi, che se tu non la fai finita, io mi
allontano da te, lasciandoti sola ed in balìa di te stessa”. Ed io allora, a
tali e tanti altri rimproveri amari, mi sentivo spezzare il cuore, e non facevo
che piangere dirottamente, chiedendogli perdono. Se non che una mattina,
finalmente, dopo aver fatta la comunione, mi diede un lume tanto chiaro
sull’amore sì grande che mi portava e sulla volubilità ed incostanza dell’amore
delle creature, che il mio cuore ne restò tanto preso, che d’allora in poi non
è stato più capace di amare altra creatura fuori di lui. M’insegnò anche il
modo come amare le creature senza di staccarmi giammai da lui, col guardare
cioè le creature come immagini di Dio, in modo che, se mi veniva fatto del bene,
dovevo riconoscerlo come venuto da lui, primo movente ed autore di quel bene
che mi si faceva, ma che si serviva di loro per elargirmelo; se invece mi
veniva fatto di ricevere qualche male, dovevo pensare che Iddio permetteva
farmelo fare dalle creature a scopo solo del mio maggior bene, sia spirituale
che corporale. Il mio cuore, quindi, più a Dio si sentiva tirato e legato, per
cui avveniva che, mirando tutte le creature in Dio e l’immagine di Dio in
ciascuna di loro, non più perdevo la stima [verso di] loro, e se mi motteggiavano,
mi sentivo anzi più obbligata ad amarle in Dio, pensando che mi facevano fare
nuovi acquisti di meriti per l’anima mia; se all’opposto mi si appressavano con
lodi ed applausi, ricevevo il tutto con disprezzo, dicendo fra me: oggi questo,
domani possono odiarmi, in vista dell’incostanza della creatura. Il mio cuore,
insomma, acquistò d’allora tale libertà da non saperlo esprimere.
6 - Gesù
prosegue l’opera sua nell’anima: la distacca da se stessa, purificando tutto
l’interno del suo cuore.
Dopo che il mio divin maestro mi
sottrasse dal mondo esterno, facendomi allontanare da qualsiasi creatura, e mi
liberò dai pensieri ed affetti verso la creatura, vi pose mano a purificare
tutto l’interno del mio cuore, da cui faceva risuonare spesso spesso, la sua dolce
voce al mio udito, dicendomi: “Adesso che siamo rimasti soli, e non v’è più chi
possa disturbarci, non sei più contenta ora, più di prima, che eri intenta a
contentare coloro che ti erano sempre da vicino? Vedi quanto è più facile contentare
uno solo che tanti? Ora contentiamoci a vicenda, facendo conto che tu ed io
siamo soli in questo mondo; promettimi di essermi fedele, ed io verserò in te
tali e tante grazie da restarne tu stessa meravigliata. Sopra di te ho fatto
grandi disegni; sempre però che tu voglia corrispondere e conformarti al mio
Volere, mi delizierò nel fare di te una perfetta mia immagine, cominciando tu
ad imitar me dal mio nascere sino al morire. Non aver dubbio che tu non possa
riuscirvi, perché io stesso t’insegnerò un po’ alla volta il modo da
tenervisi”. Di giorno in giorno, infatti, mi ha parlato, specie dopo la santa
comunione, di che dovevo occuparmi ed affaticarmi per rendere copioso il frutto
della grazia che mi elargiva, a scopo di sua imitazione.
La prima cosa di cui tanto mi ha
parlato, è stato sulla necessità di purificare l’interno del mio cuore, e l’annichilamento
di me stessa con l’acquisto della santa umiltà, per cui mi veniva spesso dicendomi:
“Vedi, per fare che io versi nel tuo cuore le mie grazie, è necessario che ti
convinca che da te sola niente e sempre niente puoi; sappi che io mi guardo
assai bene dal comunicare grazie e doni a quelle anime che sono sempre intente
ad attribuire a sé i buoni effetti che risultano dalle loro opere fatte nella
mia grazia; queste mi fanno tanti furti dei doni e grazie, dall’amor mio loro
donati, che se li ritengono come acquistati da loro stesse, per cui sempre devi
dire: ‘I frutti che si producono nel mio giardino non sono da attribuirsi a me,
tapina, ma effetti dei doni del divino mio amore, elargiti a profusione al mio
cuore’. Abbi sempre in mente che io sono largo nel versare anche a torrenti le
mie grazie a quelle anime che conoscono se stesse, purché niente usurpino per
loro, ma ogni cosa ritengano fatta mercé la mia grazia, e facendo quella stima
che si conviene, non solo mi siano grate, ma vivano ancora in continuo timore
che ogni grazia, dono e favore, possono perdere se non mi corrispondono. Nei
cuori che puzzano di superbia, io non posso entrarvi, perché, gonfie queste
anime di loro stesse, non hanno nel loro cuore un posticino dove collocarmi, e
perché non fanno alcun conto delle mie grazie, e queste, di cadute in cadute,
vanno in rovina. Perciò voglio che tu faccia spesso spesso, anzi continuamente,
atti di umiltà, e che te ne stia come un bambino in fasce che, non potendo da
sé muovere un passo, né una mano per operare, tutto si aspetta dalla madre;
così voglio che te ne stia vicino a me, come un bambino cioè, a pregarmi sempre
che ti aiuti e ti assista, confessandomi ancora il tuo nulla ed aspettando tutto
da me”.
Oh quanto, a questo parlare di Gesù,
m’impicciolivo e mi annichilivo, in modo che, alle volte sentivo tutto l’essere
mio come disfatto ed annientato, tanto che, sentendomi incapace di operare il
bene, né abile a dare un passo, né un respiro senza essere sorretta ed aiutata
da Gesù, tuttavia cercavo di fare il possibile per contentarlo in tutto,
rendendomi umile ed obbediente.
Considerando, di mano in mano, lo
stato di vita a cui Gesù mi chiamava, messo a confronto di quello già da me decorso,
mi sentivo circondata da tali e tante miserie, che avevo vergogna di
presentarmi a qualsiasi persona, riconoscendomi come la più cattiva che sia
stata nel mondo, per cui mi ritiravo per quanto più potevo dalle creature,
dicendo fra me stessa: “Oh, se sapessero quanto sono stata cattiva e le tante
grazie che il Signore mi sta facendo, certo che non potrebbero non avermi in
orrore! Spero che Gesù non voglia permettere che sappiano l’una e l’altra cosa,
altrimenti mi getterebbe nel finale mio annientamento”. Malgrado ciò, mentre
il giorno seguente andavo a ricevere Gesù sacramentato nel mio cuore, pareva
che facesse festa, nel vedermi così annientata, e [per] altre cose concernenti
lo stato del mio perfetto annientamento in cui mi chiamava e [che] venivami
suggerendo; sempre però in modi diversi dall’antecedente. Potrei asserire, senza
errare, che le quante volte Gesù mi ha parlato, ha usato meco modi sempre nuovi
nello spiegarmi le cause e gli effetti della virtù che inculcavami, e che altri
modi diversi terrebbe, se migliaia di volte volesse parlarmi sulla stessa
virtù. O mio divin maestro, quanto sei sapiente! Ed io, che non ti ho
corrisposto, quanto sono stata ingrata! Confesso, però, che la mia mente ha
cercato sempre di afferrare la verità, come la volontà di seguirla, nell’atto
che Gesù mi ha parlato, ma che poi ho molto perduto, sia l’una che l’altra, ed
io non ho potuto effettuare sino al termine quanto Gesù chiedevami; per questo
sempre più mi umiliavo, confessando la mia dappocaggine, e promettendo in
seguito più attenzione e buon volere; ma con tutto ciò, se non ero aiutata da
Gesù non riuscivo a fare quel bene con quella perfezione da lui voluta.
Ed appunto per questo, egli
spesse volte mi ha detto: “Se tu fossi stata più umile e sempre più vicina a
me, non l’avresti fatta sì male quell’opera, ma perché talvolta hai creduto dar
principio, proseguirla e terminarla senza di me, ti è riuscita, sebbene con
tutto il tuo rincrescimento, non a seconda del mio Volere. Invocami, perciò,
nel principio di ogni tua azione che intraprendi, abbimi sempre presente per
farla meco, e così sarà compiuta a perfezione; sappi che facendo sempre così
acquisterai la più profonda umiltà; all’opposto rientrerà in te la superbia, e
questa soffocherà il germe, gettato in te, della bella virtù dell’umiltà”.
Così dicendo, mi diede tanta luce
di grazia, da farmi comprendere quanto brutto è il peccato della superbia, che
è il più grande affronto che gli si possa fare e la più orrenda ingratitudine,
poiché questa accieca talmente l’anima da farla cadere nella più enorme
empietà, cagionando così la totale rovina dell’anima.
8 - L’anima
si duole dei peccati e le mancanze commesse; ma Gesù non vuole che perda mai
più il tempo pensando al suo passato.
Questa luce di grazia fuori
dell’ordinario, accordatami spesso dal mio Gesù, mi lasciava una profonda tristezza
del passato ed un vivo timore dell’avvenire, e perciò, non sapendo che fare per
riparare il malfatto, facevo qualche mortificazione di mia volontà, ed altre ne
chiedevo al confessore, che non sempre mi venivano concesse; ma tutto ciò che facevo
sembrava ombra di penitenza, per cui non potendo e non sapendo fare altro, mi
struggevo in lacrime, pensando ai peccati commessi, ed usavo ogni mezzo per
unirmi al sempre mio amabile Gesù, giacché il timore che standogli discosta
potessi far di peggio, si era talmente impossessato di me, che io stessa non so
dire ciò che avveniva in me. E chi può dire le quante volte ricorrevo al mio
Gesù, per confidargli la pena dei falli miei, che vivamente sentivo nell’intimo
del mio cuore, per chiedergli le mille volte perdono, per ringraziarlo delle
tante grazie concessemi, e per invocarlo ad essermi sempre più vicino?
“Vedi - gli dicevo spesso - o mio
buon Gesù, quanto tempo ho perduto, quanta grazia ho sperperata, mentre che,
sia nell’uno che nell’altra, avrei potuto tesoreggiare nell’accrescimento del
mio amore verso di te, sommo ed unico mio bene e mio tutto?”.
E continuavo così a ripetere continuamente
a Gesù il male commesso, e in un modo quasi noioso, ma Gesù severamente mi ha
ripresa, dicendomi: “Non voglio più che ci pensi al passato. Sappi che quando
un’anima si è umiliata, perché convinta di aver fatto il male, e quindi l’anima
contrita ed umiliata è stata lavata nel mio sacramento di penitenza, ed è più disposta
a morire anziché ritornare ad offendermi, è un affronto che fa alla mia misericordia,
e nello stesso tempo impedimento all’amor mio, in quanto che ella, con la sua
mente, s’involge sempre nel fango del passato, per cui non posso farle prendere
nel mio amore il volo verso il cielo, sino a tanto che voglia continuare a
stare immersa nelle sozze idee, pensando al passato. Vedi, io del male da te
commesso non mi ricordo più, avendo tutto perfettamente dimenticato. Vedi tu
forse qualche rancore in me? Oppure qualche ombra di malumore verso di te?”.
Ed io a lui: “No, no, Signore,
che anzi sei tanto buono che mi sento spezzare il cuore nel pensare alla tua bontà
e tenerezza di amore verso di me, quantunque ti sia stata tanto ingrata”.
Ed egli: “Ebbene, figlia mia,
perché vuoi portarti ancora al passato? Quanto sarebbe meglio che pensassimo ad
amarci vicendevolmente!
Cerca perciò, d’ora innanzi, di
contentarmi, e sarai sempre in pace”.
9 - Per
l’anima le creature devono scomparire; essa deve guardare solo Gesù, ed agire
solo con Gesù e per Gesù.
D’allora in poi, infatti, non ci
ho pensato più, proponendomi di contentare il mio adorabile Gesù, sebbene
tornassi spesso spesso a pregarlo che avesse avuto la bontà d’insegnarmi il
modo come riparare il tempo malamente passato. Ed egli: “Vedi che sono pronto a
fare quello che tu vuoi, ma devi ricordare quel che da tempo ti dissi, che la
cosa più vantaggiosa è l’imitazione della mia vita; dimmi, che cosa ti manca
ora?”.
Ed io: “Signore, mi manca tutto;
non ho altro che il proprio nulla”.
E Gesù: “Ebbene, non temere, che
a poco a poco faremo tutto. Conosco quanto sei debole, ma è da me che attingerai
la forza, la costanza e la buona volontà di seguire puntualmente tutto ciò che
ti sarà detto. Voglio che tu sia retta nell’operare: un occhio deve guardare
me, e l’altro a ciò che fai. Voglio che le creature ti scompariscano affatto,
così che quando verrai da esse comandata, tutto eseguirai come se ti venisse
comandato direttamente da me, affinché con l’occhio fisso in me non giudichi
nessuno, non guardi se la cosa sia penosa e disgustosa, facile o difficile;
chiuderai gli occhi a tutto ciò che ti sarà comandato, e li aprirai in me solo,
pensando che sto sopra di te a mirare il tuo operato, e spesso mi dirai: ‘Signore,
dammi la grazia di far bene ciò che per te solo voglio intraprendere, continuare
e terminare; non voglio rendermi più schiava delle creature’. Ondeché, se cammini,
se parli, se operi, e qualsiasi altra cosa, lo farai ad unico fine del mio
maggior piacere e compiacenza. Voglio che nelle mortificazioni, ingiurie e
contraddizioni che ti venissero fatte, abbia lo sguardo fisso in me, pensando
che non sono le creature, ma io, che di mia propria bocca ti stia dicendo:
‘Figlia, voglio farti un po’ soffrire; voglio renderti bella per mezzo di
queste sofferenze; voglio arricchire l’anima tua di nuovi meriti; voglio lavorare
sull’anima tua in modo da renderti simile a me’. E tu, soffrendo tutto per amor
mio, mi farai un’offerta in rendimento di grazie, per averti fatto operare con
merito; ed ancora ricompenserai di qualche benefizio coloro che ti avranno dato
occasione di farti soffrire a torto. Così facendo camminerai direttamente
innanzi; le cose tutte non ti daranno più inquietudini, e godrai perfetta pace”.
10 - La
creatura deve morire a se stessa per vivere solo in Gesù: necessità dello
spirito di mortificazione e della carità.
Dopo qualche tempo che Gesù mi
fece esercitare nelle cose suddette, mi parlò dello spirito di mortificazione,
facendomi ben comprendere che se il tutto non viene informato dall’amor suo,
ancorché fossero virtù e grandi sacrifizi, se non hanno per principio, centro e
termine, l’amor suo, si rendono insipidi e senza alcun merito; e perciò mi
diceva:
“La carità è virtù che dà
splendore a tutte le altre, in modo che senza di questa tutte le opere riescono
morte. L’occhio mio non riceve alcun’attrattiva dalle opere fatte senza lo
spirito di carità, giacché dette opere non hanno accessibilità al mio cuore.
Statti perciò attenta a fare le tue opere, anche minime, con lo spirito
informato a carità, cioè fatte in me, con me e per me, con lo spirito di sacrifizio;
altrimenti non saranno riconosciute da me come mie, se non portano l’impronta
della tua e mia mortificazione. Come la moneta, se non portasse impressa
l’immagine del proprio re, non sarebbe ritenuta dai popoli come buona, ma falsa
e quindi di nessun valore, così delle tue opere, se non sono innestate alla mia
croce. Ora non si tratta più di demolire l’affetto alle creature, ma a te
stessa; voglio farti morire in te, per farti vivere solamente in me; voglio, in
una parola, imprimere in te la mia stessa vita. È vero che ciò ti costerà più
di quanto hai fatto finora, ma fatti coraggio e punto temere; non tu sola ciò
farai, ma io insieme con te, e tu con me faremo tutto”.
Mi dava quindi altri novelli lumi
circa l’annichilamento di me stessa, dicendomi: “Tu non sei e non devi
stimarti altro che un’ombra che rapidamente passa, la quale, mentre vai per
prenderla, ti sfugge. Se vuoi, perciò, divenire in me qualche cosa di grande,
stimati sempre nulla; compiacendomi del tuo vero abbassamento, verserò in te il
mio tutto”.
E nel dir ciò, il mio buon Gesù
imprimeva nella mia mente e nel mio cuore tale annientamento di me stessa, che
sentivo di volermi nascondere nei più cupi abissi, e vedendomi impossibilitata
a farlo, provavo tale rossore da vergognarmi di me stessa; e mentre mi trovavo
in questo disfacimento di stima propria, mi diceva: “Fatti sempre più vicina a
me, anzi appoggiati al mio braccio, che ti sosterrò e ti darò forza da operare
sempre e tutto per me”.
11 - L’anima
deve, per prima cosa, far morire in tutto e per tutto la propria volontà,
mortificandola costantemente in ogni cosa.
Essendo Iddio sommamente perfetto
in se stesso, non può assolutamente, uscendo fuori di sé, non aspirare che
l’opera sua non tenda sempre alla massima perfezione. Ora, se tutto ciò che è
stato creato da Dio mira a questo, e non può naturalmente cessare dal tendere
al miglioramento di sé, tanto più la creatura fornita d’intelligenza e volontà,
non deve mai mettere in non cale la sua perfezione, se brama che Iddio abbia a
trovare in lei la Sua compiacenza. Questa creatura, formata da Dio a sua immagine
e somiglianza, può veramente raggiungere la massima perfezione richiesta da
Dio, se sarà in tutto uniformata alla Volontà di Dio e corrispondente alle
grazie da lui elargite. Ora, se il Signore mi sta da vicino, se vuole che mi appoggi
al suo braccio, se con ogni sua attrattiva mi pressa a gettarmi nelle sue
paterne braccia e vuole che da lui debba attingere tutta la forza per ben
operare, non sarei io stolta ed insensata se rifiutassi questa grazia e non
corrispondessi al suo Santo Volere? Perciò io, più che ogni altra creatura, mi
sento in dovere di seguire sempre il mio amabile Gesù, che mi dice:
“Da te stessa, tu sei veramente
cieca, ma non temere; la luce mia, più che mai, ti sarà di guida, anzi, io
stesso sarò in te e con te ad operare cose meravigliose; seguimi dunque in
tutto e vedrai. Per ora mi metto innanzi a te come specchio, e tu non farai che
guardarmi per imitarmi, ma non perdere di vista la mia persona. La prima cosa
che devi mortificare in te è la tua volontà; devi distruggere in te quell’io,
che tutto brama, fuorché il bene. Questa tua volontà sia sacrificata come
vittima innanzi a me, ed in modo tale da rendere una sola la tua e la mia
Volontà. Non sei tu di ciò contenta? Preparati, quindi, alle contraddizioni che
ti saranno date da me stesso e dalle creature”.
Quindi, come il vento fa
spogliare delle fogliuzze il calice del fiore e presenta il piccolo frutto che
in se si sviluppa, così, alle parole del mio Gesù per far spogliare la mia
volontà da ogni atto volitivo, seguivano le contraddizioni, da cui dovevo io
prendere esempio pratico nella sua imitazione: se al mattino, infatti, mi
svegliavo e subito non mi levavo da letto, la sua voce interna mi diceva: “Tu
comodamente riposi, ed io non ebbi altro letto che la croce; presto, presto,
sollevati, non prenderti tanta soddisfazione”. Se camminavo, e la mia vista si
spingeva un po’ lontano, mi riprendeva subito, dicendomi: “Non voglio che la
tua vista si porti lontano da te non più della lunghezza di un passo, e solo
per non inciampare”. Se mi trovavo in campagna circondata da fiori di ogni specie,
da piante ed alberi, ecc., mi diceva: “Tutto ho creato io per amor tuo, e tu
per amor mio privati di questo diletto”.
Se in chiesa mi vedeva girare lo
sguardo per fissarlo sugli arredi sacri, i paramenti ed altre cose innocenti e
sante, subito mi riprendeva, dicendomi ‘che altro diletto dovevo prendere se
non in lui solo?’. Se stavo comodamente seduta mentre lavoravo, dicevami: “te
ne stai troppo comoda; non pensi che la mia vita fu un continuo penare?”. Ed io
subito, per contentarlo, mi sedevo sulla metà della sedia… Lavorando con
lentezza e svogliatezza: “Presto - mi diceva - aiutati, guadagna il tempo per
stare meco in orazione”.
Talvolta mi assegnava anche il
lavoro che dovevo fare in una data ora, ed io mi affaticavo per contentarlo, e
se non ci riuscivo lo pregavo che venisse ad aiutarmi; ed egli tante volte
accondiscendeva, facendo meco quel lavoro per avermi seco libera, non per
trastullarci, ma quasi sempre per più pregare. Succedeva, quindi, che Gesù in
poco tempo, o da sola o insieme con lui, mi faceva terminare quel lavoro a cui
dovevo occuparmi tutto il giorno, e mi tirava all’orazione in cui mi teneva
tutta assorta nella contemplazione di tanti lumi e grazie che si partono da Dio
alle creature; ed io mi sentivo più invogliata di prima a farlo, ed avrei
voluto, chissà per quanto tempo, continuare a stare in orazione, giacché né provavo
stanchezza, né mai tedio, e tanta sazietà sentivo in me, che ero contenta di
non prendere altro cibo se non quello che veniva dall’orazione; ma Gesù mi
contraddiceva, e subito, all’ora del pranzo, dicevami: “Presto, presto, non farti
attendere; voglio che mangi per amor mio, e mentre prendi il cibo che si unisce
al corpo, mi pregherai di unire il mio amore al tuo, cosicché il mio spirito
venga ad unirsi all’anima tua e ogni cosa tua resterà santificata dall’amor
mio”. Se talvolta, mangiando, sentivo gusto di qualche cosa e continuavo a
mangiare, tosto Gesù mi riprendeva, dicendomi: “Ti sei forse dimenticata che io
non ebbi altro gusto se non che di mortificarmi sempre per tuo amore? Lascia
dunque di mangiare questo, e prendi invece quell’altra cosa a cui non senti gusto”.
In una parola, Gesù ha cercato di
far morire la mia volontà anche nelle cose più minute, per farla vivere solo e
sempre in lui. Ecco perché il Signore permetteva che anche in questo amore
tutto santo e totalmente per lui mi venissero le più grandi contraddizioni;
tanto è vero che, quanto più vivo si faceva in me il desiderio di avvicinarmi
alla mensa eucaristica, tanto che il giorno precedente e tutta la notte non
facevo altro che prepararmi, per meglio dispormi a riceverlo, non chiudendo gli
occhi al sonno per i continui atti di amore a Gesù, dicevogli spesso spesso:
“Signore, fa presto, che non posso starmi senza riceverti; accelera le ore,
sorga subito il sole, che mi viene meno il cuore per il grande desiderio della
santa comunione”.
E Gesù mi diceva: “Vedi, io sto
solo e soffro senza di te; tu però non darti pena che non puoi dormire, si
tratta di un sacrificio, facendo da lontano compagnia al tuo Dio, al tuo sposo,
al tuo tutto, che è in veglia per amor tuo; vieni a sentire tutte le offese che
continuamente gli si fanno dalle creature… Deh, non negarmi questo sollievo con
la tua amorosa compagnia, affinché i palpiti del tuo amore, unendosi ai miei,
vengano a scemare, in parte, l’amarezza che mi procurano le tante offese che
ricevo di giorno e di notte, ed io non ti lascerò sola nelle tue sofferenze ed
afflizioni, ma ti ricambierò della mia compagnia”.
Ebbene, la mattina seguente, non
appena si faceva giorno, con questo grande desiderio di ricevere Gesù in sacramento,
andavo in chiesa, e recandomi dal confessore, questi, senza che gli facessi
parola, più di una volta mi diceva: “Questa mattina voglio che ti privi della
santa comunione”; il che mi riusciva tanto amaro che alle volte, mentre mi
struggevo in lacrime, non ardivo di palesare nemmeno al confessore l’amarezza
che provava l’anima mia, giacché lo stesso Gesù voleva che mi comportassi in
tal modo, altrimenti mi rimproverava, e voleva però che avessi piena confidenza
in lui, mio sommo bene, per cui gli aprivo spesso il mio cuore e gli dicevo:
“Ahi, mio dolce amore, è questo il frutto della veglia che abbiamo fatta entrambi
questa notte? Chi avrebbe potuto mai immaginare che dopo tanto aspettare e
tanto desiderarti avrei dovuto restare priva di te? Conosco bene che in tutto e
sempre devo ubbidire, ma dimmi, o mio buon Gesù, posso io stare senza di te?
Chi mi darà la forza a starmene priva? E potrò avere io mai il coraggio di partirmene
di chiesa, senza che ti porti meco in casa, mio sommo bene? Io non so che altro
fare, ma tu, o mio Gesù, se vuoi, puoi a tutto rimediare”. Ma mentre così
parlavo mi sentivo un fuoco insolito vicino a me, poscia una fiamma d’amore mi
si accendeva in me, ed una voce interna che così mi parlava: “Chetati,
chetati… Ecco che sono già nel tuo cuore; di che temi adesso? Non più affliggerti;
voglio io stesso asciugarti le lacrime… Poverina, tu hai ragione, che non
potevi stare senza di me, non è vero?”.
A questo operato di Gesù ed a
questo suo parlare, io ne restavo sorpresa, e tanto annientata in me stessa,
che rivolta al mio Gesù gli dicevo: “Se io fossi stata buona, e non così
cattiva, non avresti data l’ispirazione al confessore di contraddirmi così”. E
lo pregavo, quindi, a non permettere più simili contraddizioni, perché senza di
lui non avrei potuto affatto resistere, e avrei fatto chissà quanti spropositi.
12 - Gesù
vuole innamorare l’anima del patire per amore suo, perciò la porta ad
immergersi nel mare sconfinato della sua passione. La prima visione di Gesù
penante.
Un giorno, finalmente, dopo la
comunione, me lo sentii dentro di me tutto amore e mostrandomi tanto affetto
che io ne fui meravigliata, per cui gli dissi: “Donde, Gesù mio, tanta bontà
verso di me, così cattiva ed incorrispondente al tuo amore? Fossi almeno buona…
Ti corrispondessi almeno… Io temo che per la mia incorrispondenza tu mi abbia
da lasciare; ed invece ti veggo, ora, tutto bontà, e più d’ogni altro tempo
stringerti meco più intimamente”. E Gesù sempre più affabile: “Diletta mia, le
cose passate non hanno fatto altro in te che un piccolo preparativo; adesso
voglio venire all’opera. Voglio disporre così il tuo cuore, che tu venga ad
internarti nel mare immenso dell’acerbissima mia passione, affinché tu, quando
avrai ben compreso l’acerbità delle mie pene, l’amore che mi divorava nel
desiderio di soffrirle tutte per te, e poi, chi sono io, che per te le ho
sofferte, e chi sei tu, vilissima creatura, allora non ti opporrai ai colpi e
ai dolori della tua passione che soffrirai per amor mio, e con animo acceso di
amore accetterai la croce che io, per te, da un pezzo tengo preparata. Anzi, al
solo considerare che io, tuo maestro, tanto ho sofferto per te, ombre ti
parranno le tue pene, dolce ti sarà il patire, e giungerai a non poter stare
senza patimenti”.
A questo parlare di Gesù mi
sentivo più che mai ansiosa di patire, ma nondimeno la natura fremeva allora,
al solo pensare ai patimenti a cui dovevo sottopormi, e quindi pregavo Gesù che
mi avesse dato dinanzi al patire tanta forza e coraggio da farmi sentire amore
allo stesso patire a cui egli mi chiamava, affinché non mi servissi dello stesso,
avuto come dono, per offendere lui come donatore.
E Gesù, tutto bontà e dolcezza:
“Ciò, mia cara, va da sé, perché se non si sentisse, in qualsiasi cosa che
s’intraprende, un certo che di trasporto e di amore, non la si potrebbe certo
ben eseguire; e chi la intraprende di malavoglia, anche a portarla a termine,
non riceverà da me il guiderdone. Sappi che tu, per innamorarti della mia
passione, prima di ogni altra cosa, dovrai considerare con pacatezza e riflessione
tutto quanto che ho patito per te, affinché tu possa farti il giudizio conforme
al mio, del vero amore, che nulla eccettua pel bene della persona amata”.
Così incoraggiata da Gesù, mi
diedi a meditare la sua passione, che fece tanto bene all’anima mia, che posso
ben asserire, senza tema di errare, che tutto il bene mi è venuto da questa
fonte di grazia e di amore. D’allora in poi, la passione di Gesù si fece strada
non solo nel mio cuore e nel mio spirito, che sentiva al vivo la compassione,
ma ancora, mercé questa considerazione, tutto il mio corpo veniva preso da tale
orgasmo da provare i dolorosi effetti della stessa passione… Mi vedevo immersa
in essa come in un mare immenso di luce, che coi suoi infocati raggi tutta mi
compenetrava nell’amore di Gesù, che tanto aveva patito per me; sentivo poscia
che quegli infiniti raggi mi facevano comprendere chiaramente la pazienza,
l’umiltà, l’obbedienza e la carità di Gesù, in ciò che ebbe a sopportare per
amor mio, che io ne restavo del tutto annichilita, conoscendomi tanto dissimile
da lui. Quei raggi che m’inondavano erano, per me, tanti rimproveri, che
tacitamente mi dicevano: “Un Dio tanto paziente; e tu…? Un Dio sì umile e
sottomesso anche agli stessi suoi nemici; e tu? Un Dio tutto carità, per te
soffre tanto; e le tue sofferenze per amor suo, dove sono?”.
Altre volte, poi, Gesù stesso mi
faceva la narrazione delle acerbe sue pene e dolori, da lui sofferti per amor
mio, ed io ne restavo tanto commossa da piangere amaramente… Ed un giorno, più
che mai, mentre lavorando consideravo le acerbissime pene di Gesù, sentii il
mio cuore talmente oppresso da sentirmi mancare il respiro, e temendo che
stesse per accadermi qualche male volli distrarmi con l’uscire fuori al
balcone. Ma cosa veggo io mai? In mezzo alla strada, una folla immensa di gente
che passava di sotto al balcone, conducente il mio mansuetissimo Gesù, con la
croce sulle spalle, che veniva tirato or da una parte ed or dall’altra. Lo
scorgevo affannoso, col volto grondante sangue, ed in un atteggiamento sì
pietoso da intenerire le stesse pietre, allorché alzò gli occhi verso di me, in
atto di chiedermi soccorso. Chi può dire, ora, il dolore che provai in me? Chi,
l’impressione prodottami da scena sì straziante…? Entrai subito nella mia
stanza, non sapendo io stessa ove mi trovassi; il cuore me lo sentivo spezzare
dal dolore e, piangendo dirottamente, fra me dicevo: “Quanto soffri, o mio buon
Gesù! Potessi almeno aiutarti e liberarti da quei lupi così arrabbiati, o
almeno soffrire io quelle tue pene, quei tuoi dolori e strapazzi in vece tua,
per dare a te il più grande sollievo…! Deh, mio bene, dammi il patire, perché
non è giusto che tu debba soffrire tanto per amor mio, ed io, peccatrice,
starmi senza soffrire nulla per te”.
E Gesù, d’allora, mi accese tanto
di amore per il dolce patire, che mi riusciva più doloroso il non patire; e questa
brama si fece sì viva in me, che non si è smorzata mai più in me, tanto che
nella comunione non chiedo altro, ardentemente, che mi renda simile a lui per
mezzo del dolce patire. Ed egli pare che talvolta mi abbia soddisfatta, togliendosi
ora una spina della sua corona e conficcandola nel mio cuore, ora conficcando
qualche altra alla mia testa, e talvolta i suoi chiodi alle mani ed ai piedi,
facendomi soffrire acerbissimi dolori, ma mai pari a quelli sofferti da lui…
Altre volte mi è parso che Gesù
avesse preso il mio cuore fra le sue mani, e che lo stringesse tanto forte che,
per il dolore, mi sentivo perdere i sensi; e per tema che le persone che mi
circondavano potessero accorgersi di ciò che avveniva in me, lo pregavo
dicendogli: “Mio Gesù, di grazia, fa in modo che io soffra, ma che tutto sia nascosto”.
Mi contentò sino ad un certo tempo, ma poi, a causa dei miei peccati, qualche
cosa avvertirono esse.
13 - Gesù vuole che l’anima tocchi con mano il proprio nulla e si
disponga alla più profonda umiltà, e perciò la priva d’ogni consolazione e
grazia sensibile, occultandosi a lei.
Talvolta, dopo la comunione, Gesù
mi diceva: “Non potrai veramente somigliarti a me, mercé i patimenti che soffri
in mia presenza, giacché io mi muovo ad aiutarti; ora voglio lasciarti un po’
sola, però sii più attenta di prima, giacché non ti darò più la mano per
sorreggerti, e non sarò a correggerti in tutto. Se per il passato non hai fatto
altro che seguirmi nell’imitazione, ora farai e soffrirai tutto di buon animo,
pensando solo che ti starò cogli occhi fissi sopra di te, però senza farmi da
te né vedere né sentire; e quando tornerò a farmiti vedere, verrò per premiarti
se sarai stata fedele nel seguirmi, oppure per castigarti se mi sarai stata
infedele”.
A tale intimazione restai tanto
spaventata ed atterrita, che gli dissi: “Signore, tu che sei il mio tutto e la
mia vita, dimmi, come potrò vivere senza di te, mio bene? Chi mi darà la forza
per ben comportarmi? Tu solo sei stato, tu solo sei e tu solo sarai la mia
forza ed il mio sostegno. Può essere mai che tu, dopo che mi hai fatto lasciare
il mondo esterno e tutto ciò che mi circondava, in modo che mi sento come se
nessuno più esistesse per me, vuoi ora lasciarmi in balìa di me stessa e priva
della tua presenza? Hai forse dimenticato che io sono sì cattiva, e che senza
di te nulla posso fare di bene?”.
E Gesù, con aspetto dolce e
sereno: “È appunto per questo che ciò faccio, per farti ben capire chi sei tu
senza di me. Non ti rattristare, che lo faccio per il tuo maggior bene, volendo
così preparare il tuo cuore a ricevere nuove grazie che mi riserbo versare su
di te. Sinora ti ho assistita visibilmente; adesso invisibilmente, per farti
toccare con mano il tuo nulla; ti sprofonderò nella più profonda umiltà e ti fonderò
nella mia grazia, la più eletta, per edificare sopra di te le altissime mura
di ciò che intendo fare di te. Perciò, invece di affliggerti, dovresti prendere
motivo di rallegrarti meco e ringraziarmi, ché quanto più presto ti farò
oltrepassare questo mare tempestoso, tanto più presto giungerai al porto di
salvezza; e quanto più dure saranno le prove a cui ti assoggetterò, tante più
grazie ti largirò. Coraggio, dunque, che verrò presto a consolarti nelle pene”.
Sì dicendo, si sottrasse dalla
mia vista, benedicendomi. Chi può dire la pena che sentii, il vuoto che mi
lasciò nel cuore, le amarezze che m’inondarono l’anima, e le lacrime che
versarono i miei occhi, nel vedere che Gesù, benedicendomi, si allontanava da
me? Mi rassegnai però alla sua Santissima Volontà e, dopo aver baciato da lontano
le mille volte quella mano che mi aveva benedetta, dando freno alle lacrime,
presi a dire: “Addio, sposo santo, addio… Ricordati della promessa fattami, di
farti cioè presto vedere; assistimi sempre ed ognora difendimi e fammi tutta
tua”.
Sì dicendo, mi vidi allora tutta
sola, come se per me tutto fosse finito, giacché lui solo tenevo, e mancandomi
lui non mi restava altra consolazione; e perciò, tutto ciò che mi circondava si
convertì in pene amarissime, poiché le stesse creature mi stuzzicavano in modo
tale che mi pareva ascoltarle nel loro muto linguaggio, come se mi dicessero:
“Vedi, noi siamo opera del tuo amante e amato bene; ed egli ora, dov’è?”.
Se guardavo l’acqua, il fuoco, i
fiori, le stesse pietre della mia stanza, e che so io, pareva che tutti mi
dicessero: “Ah, vedi, tutte queste cose sono opera del tuo sposo, e sebbene hai
il bene di vedere queste sue opere, non hai il bene di vedere il loro
Creatore”. Ed io: “Deh, opere del mio Signore, ditemi voi, che n’è di lui?
ditemi dov’egli trovasi. A me disse che sarebbe presto tornato, ma chi di voi saprebbe
dirmi quando dovrà tornare, quando lo rivedrò?”. In tale stato, eterni
sembravami i giorni, sempiterne le notti in veglia, le ore e i minuti come
secoli ed anni che nient’altro arrecavano che amare desolazione, da farmi
sentire venir meno il palpito del cuore ed il respiro, ed alle volte mi si
gelava tutta la persona ed ero presa da un certo fremito di morte che tutta
m’invadeva, per cui le persone di famiglia vennero ad avvertirsi del mio male.
Ma tutto ciò che allora soffrivo
venne attribuito a male fisico, e quindi la famiglia insisteva che mi dovessi
curare; e tanto mi si disse e si fece, che dovetti sottopormi alla visita
medica, che non mi fece alcun pro. Io intanto continuavo a rammentarmi di
quanto aveva detto ed operato in me il buon Gesù; mi ricordavo per filo e per segno
tutte le sue grazie, tutte le sue dolci ed affabili parole, una per una tutte
le paterne sue esortazioni e correzioni, e i singoli suoi rimproveri per
richiamarmi al dovere del suo amore.
14 - L’anima
sperimenta che non è capace di niente senza di Gesù, e che a lui deve tutto.
Gesù, il vero direttore spirituale, la istruisce circa il modo da tenere nello
stato di oscurità ed abbandono, nella preghiera, nella comunione e nelle visite
a Gesù sacramentato.
Sarei una falsaria se non
asserissi che tutto ciò che si è operato fin qui non sia stato operato se non
nella piena grazia, elargitami in gran copia dal Signore, che del mio non v’è che
il puro niente e l’inclinazione al male; sicché dico francamente d’aver toccato
con mano che, senza le tante grazie e lumi, non avrei potuto far altro che
male. Ed in vero, chi mi sottrasse dalle frivolezze del mondo se non il mio
amabile Gesù? Chi mi fece sentire quel forte incitamento a fare la novena di
Natale, con nove meditazioni quotidiane sul mistero dell’incarnazione di Gesù,
per cui ebbi tanti lumi superni e grazie celesti? Di chi quella voce che
internamente cominciò a parlarmi nell’intimo del cuore, lungo la detta novena,
e che poi ha continuato sino ad oggi, non dandomi tregua né pace se non avessi
fatto prontamente ciò che mi chiedeva? E quel modo usato nel farmi innamorare
di lui, facendosi da me vedere in forma di graziosissimo bambino? E quel farmi
da maestro, con l’insegnarmi, correggermi, rimproverarmi, per indurmi a
spogliare il cuore da quelle affezioncelle, infondendomi il vero spirito di
mortificazione, di carità e di orazione, per cui mi feci strada nell’internarmi
nel mare immenso della passione di Gesù, e da cui attinsi quella dolcezza nel
patire, e quella vera amarezza nel non soffrire; non è stata tutta grazia sua,
suo dono, anzi, opera vera di Gesù? Ed ora che vuole scherzare meco, col
sottrarsi dalla mia vista, tocco con mano che senza di lui non sento più
quell’amore sì sensibile che sentivo prima per Gesù, non più quei lumi così
chiari nelle meditazioni, da farmi stare due o tre ore assorta nella dolce
considerazione… Ora, sebbene faccio quanto più posso per continuare a fare
quello che facevo con lui, giacché mi sento ancora ripetere quelle sue parole:
‘Se mi sarai fedele verrò a premiarti; se ingrata, verrò per castigarti’, pur
nonpertanto non ci riesco, come quando mi stava visibilmente o sensibilmente da
vicino. In questo stato di privazione del mio Gesù passavo la santa giornata
quasi sempre in amarezza, in silenzio ed in aspettazione di lui, che ancor non
veniva come mi aveva promesso: “Verrò presto da te”.
L’unico conforto, intanto, era il
riceverlo in sacramento, giacché qui certo lo trovavo e non potevo dubitare,
tanto più che, alle reiterate mie suppliche, mi contentava quasi sempre col
farsi sentire palpitante nel mio cuore, sebbene non così amoroso ed affabile
come prima di mettermi alla prova, ma piuttosto severo e senza farmi parola.
Passato, finalmente, quel periodo di tempo, facendo ogni cosa voluta da Gesù
alla men peggio, me lo sentii tornare nel cuore e mi parlò in questi termini:
“Dimmi, figlia del mio Volere, tutto ciò che vuoi; manifestami tutto ciò che è
passato in te di dubbi, di timori, e tutte le tue difficoltà, a fine
d’insegnarti il modo di comportarti in avvenire, in cui sarò assente”.
Ed io, allora, gli feci fedele
narrazione, dicendogli: “Signore, vedi, senza di te niente ho potuto fare di
bene: la meditazione mi è riuscita molto disgustosa, da non aver il coraggio di
offrirtela; nella comunione non sentivo di trattenermi a lungo, mancandomi le
attrattive del tuo amore; mi son sentita sempre vuota e sempre penosa della tua
assenza, che mi ha fatto provare agonie di morte; la natura, di tutto voleva
sbrigarsi subito per sfuggire quella pena di vedersi sola, e tanto più che il
trattenermi a lungo mi sembrava perdita di tempo; ma il timore, però, che al
tuo ritorno venissi da te castigata se mi fossi resa infedele, mi ha fatto
continuare. Aumentava poi l’interna mia pena il considerare che tu, mio bene,
di continuo vieni offeso, ed io, di quegli atti di riparazione, di quelle
visite a te sacramentato, che mi facevi fare, niente ho potuto far bene senza di
te, perché non trovavo Colui col quale potermela intendere… Ora che sei meco,
dimmi un po’, come dovevo io fare?”.
Ed egli, benignamente
ammaestrandomi, mi diceva: “Hai fatto male a startene così turbata; non sai tu
che io sono spirito di pace, e che la prima cosa che ti ho raccomandato è stata
di non funestarla mai nel tuo cuore? In quanto all’orazione, poi, quando non ti
senti raccolta, non devi pensare ad altro, se non a startene tranquillamente in
essa, ma non al motivo perché non ti sia riuscita; facendo come tu dici, vieni
tu stessa a procurarti la stessa distrazione. Umiliati invece, confessandoti
meritevole di quelle [sofferenze], e statti tranquilla; e come agnellino nelle
mani del carnefice, che mentre viene ucciso gliele lambisce, così tu, mentre ti
vedrai percossa, abbattuta e sola, dovrai rassegnarti alle mie disposizioni,
ringraziarmi di tutto cuore, riconoscendoti anzi degna di quelle pene, e mi
offrirai tutte le tue amarezze, tedi ed angustie, come sacrifizio di lode, di
soddisfazione, ed in riparazione delle offese che mi vengono fatte. Facendo
così, la tua orazione [salirà] come incenso odorosissimo sino al mio trono,
ferirà il mio cuore ed attirerai su di te novelle grazie e nuovi carismi. Il
demonio, poi, vedendoti così umile, rassegnata e tutta inabissata nel tuo nulla,
non avrà più forza di avvicinarsi a te e si morderà le labbra per sdegno. Ecco
come condurti in tale stato, per acquistare meriti ove credevi di demeritare.
In quanto alla comunione poi, non
voglio che ti affligga quando non ti senti di trattenerti a lungo, priva delle
attrattive del mio amore. Fa quanto puoi per ben ricevermi; ringraziami dopo di
avermi ricevuto; chiedimi quelle grazie ed aiuti di cui hai bisogno, e del
resto non ti dar alcun pensiero, giacché quello che ti fo soffrire nella
comunione non è altro che un’ombra delle pene che soffrii nel Getsemani. Se ora
ti affliggi tanto, che sarà di te quando ti farò partecipe dei flagelli, delle
spine e dei chiodi? Ti dico questo, perché il pensiero che metto ora in te delle
pene maggiori, ha valore di farti soffrire con più coraggio queste minori…
Quando nella comunione ti troverai dunque sola ed agonizzante, pensa un po’
all’agonia di morte che soffrii per te nell’orto del Getsemani, e mettiti
vicino a me, per fare allora un confronto tra le tue e le mie acerbe pene. È
vero che ti sentirai ancor là, sola e priva di me, ma vedrai ancor me solo ed
abbandonato dai più fidi amici, che per aver omessa l’orazione li scorgerai
addormentati; mi vedrai, coi lumi che ti darò, in mezzo alle più acerbe pene,
circondato da aspidi e da vipere velenose, da cani idrofobi, quali sono i
peccati di tutti gli uomini che furono, sono e saranno da venire al mondo,
compresi anche i tuoi, che nell’assieme mi pesavano tanto allora, da farmi agonizzare,
e mi sentivo come se stessi per essere divorato vivo; e fu per questo che,
sentendo il mio cuore e tutta la mia persona come messa sotto la pressione d’un
torchio, sudai vivo e copioso sangue da bagnare anche il terreno; e a tutto
questo, aggiungi ancora l’abbandono del Padre mio…
Ora, dimmi tu: quando il tuo
penare si è esteso a tanto? Se ti trovi dunque priva di me, vuota di ogni consolazione,
ripiena di amarezze, colma di affanni e pene, portati con la mente presso di
me, procura asciugarmi quel sangue, ed in sollievo della mia acerbissima agonia
offrimi quelle tue ben lievi pene, e troverai così modo ed esca con cui
trattenerti meco dopo la comunione. Non voglio con ciò dirti che [tu] non debba
soffrire, giacché la mia privazione per se stessa è la pena più dura ed amara
ch’io possa infliggere alle anime care; ma tu, intanto, pensa che col tuo
penare e con la conformità alla mia Volontà mi darai gran sollievo e
consolazione. Finalmente, in quanto alle visite che mi farai ed agli atti di
riparazione, ho da dirti che io, nel sacramento del mio amore che ho istituito
per te, continuo a fare ed a soffrire tutto ciò che feci e soffrii nel corso di
trentatré anni di vita mortale. Amo nascere nel cuore di tutti i mortali, e
perciò ubbidisco a chi dal cielo mi chiama ad immolarmi sull’altare; mi umilio
nell’aspettare, nel chiamare, nell’ammaestrare, nell’illuminare, e chi vuole
[può] ristorarsi di me sacramentato; a questi do consolazione, a quegli
fortezza, e prego perciò il Padre che lo perdoni; vi sto per arricchire gli
uni, per sposarmi agli altri, veglio per tutti; difendo chi vuol essere da me
difeso; divinizzo chi vuol essere divinizzato; accompagno chi vuol essere
accompagnato; piango per gli incauti e per gli scapestrati; mi rendo adorante
in perpetuo per reintegrare l’armonia universale e per compiere il supremo disegno
divino, qual è la glorificazione assoluta del Padre, nel perfetto omaggio da
lui richiesto, ma che non gli viene dato da tutte le creature per cui mi sono
sacramentato. Perciò voglio che tu, in ricambio di questo mio infinito amore
verso il genere umano, mi faccia quotidianamente trentatré visite, onorando con
esse gli anni della mia umanità, passati tra voi e per voi tutti, figli miei, rigenerati
nel mio preziosissimo sangue, e che, insieme, tu unisca te a me in questo sacramento,
avendo mira di far sempre le mie intenzioni di espiazione, di riparazione,
d’immolazione e di adorazione perpetua.
Queste trentatré visite le farai
sempre, in tutti i tempi, ogni giorno, ed in qualsiasi luogo potessi trovarti,
giacché io le accetterò come se venissero fatte alla mia presenza sacramentale.
Il tuo primo pensiero, al mattino, devi farlo volare a me, prigioniero d’amore,
per darmi il tuo primo saluto d’amore per me, e quindi la prima confidenziale
visita in cui, tu a me ed io a te, ci domanderemo scambievolmente come abbiamo
passata la notte e c’incoraggeremo a vicenda; e così, l’ultimo tuo pensiero e
l’ultimo tuo affetto della sera sarà che tu venga ancor da me, affinché ti dia
la benedizione e affinché ti faccia riposare in me, con me e per me; e tu
intanto mi scoccherai l’ultimo bacio d’amore, con la promessa d’unione con me
sacramentato. Le altre visite me le farai come meglio ti si presenterà
l’occasione più propizia a concentrarti tutta nel mio amore”.
Mentre Gesù così parlava, io
sentivo scendere nel mio cuore un non so che di grazia, la quale lavorava in me
in modo tale da farmi sentire il cuore quasi liquefatto d’amore, e la mente
circonfusa da tante idee che si sperdeva in un’immensa luce di amore, per cui
mi feci ardita a supplicarlo così: “Mio buon maestro, di grazia, te ne
supplico, deh, statti meco e sempre più vicino, affinché sotto la tua direzione
io prenda l’attitudine e l’abitudine a farle bene, giacché conosco, a prova,
che tutto posso con te, ma senza di te sono incapace di fare alcunché di bene,
ma solo capace di fare tutto il male”.
E Gesù, sempre benigno, mi
soggiunse: “Sì, sì che ti contenterò in questo, come ti ho appagata in tante
altre cose. Io voglio soltanto la tua buona volontà, ed io, qualsiasi aiuto tu
voglia da me, te lo darò ben volentieri ed a profusione”.
Ah, quanto è stato buono con me
il dolce Gesù, poiché mai la sua promessa è venuta meno! Anzi, ho da dire il vero,
che egli ha dato ed ha fatto per me più di quanto mi aveva promesso, perciò ci
son riuscita a contentarlo; e dal suo operato, lungi da me discaccio qualsiasi
dubbio o perplessità di cuore, se mi dicessero non essere ciò che si opera in
me se non che frutto di fantasia, giacché in quei giorni passati nella
privazione del mio Gesù non potevo concepire nemmeno un buon pensiero, né dire
una parola informata allo spirito di carità, né sentivo per alcuno nessuna
attrattiva di bene.
15 - Gesù
sollecita l’anima, per arricchirla ed abbellirla di più ed unirla più
intimamente a sé, a sostenere una terribile lotta contro i demoni.
Nel corso del tempo in cui Gesù
sempre più si è appressato a me, mi ha parlato e mi si è fatto vedere, ho ben
compreso ancora che Gesù, quando se ne viene con modi insoliti, non ha altro di
mira che di disporre l’anima mia a nuove e pesanti croci; ed infatti, prima
l’attira a sé con gli stratagemmi della sua grazia, per cui l’anima si sente
vincolata di amore, e poscia le presenta l’obbiettivo delle sue attrattive,
affinché non ardisca menomamente opporvisi. Ed in vero, un giorno, dopo la
comunione, mi sentii più intimamente unire a lui coi dorati lacci dell’amore, e
mi fece una tempesta di amorose domande, e fra le altre: “Mi vuoi tu veramente
bene? Sei tu disposta e pronta a fare ciò che io voglio da te? Se volessi da
te, ancora, il sacrifizio della vita, saresti disposta, per amor mio, ad
accettarlo di buon animo? Sappi che, se sei pronta a fare tutto ciò che io
voglio, farò io a te e per te ciò che tu vuoi da me”.
Ed io: “Sì che ti voglio bene,
mio amore e mio tutto; può darsi, forse, oggetto più bello, più santo, più amabile
di te, mio bene? E poi, perché domandarmi se sia o no pronta a fare ciò che tu
vuoi, mentre è da gran tempo che ti ho consegnata la mia volontà, ti ho pregato
a non risparmiarmi punto, anche se tu volessi farmi a pezzi, e son disposta,
purché potessi darti sempre gusto? Io mi sono abbandonata in te, sposo santo;
opera quindi in me e su di me liberamente come meglio ti aggradi, fa di me quello
che tu vuoi, ma dammi sempre novella grazia, che da me sola nulla posso”.
Ed egli: “Ma veramente sei tu
pronta a tutto ciò che io voglio da te?”.
A questa iterata sua domanda, io
mi sentivo schiacciare, mi vedevo confusa ed annientata; ma fidente in lui, con
coraggio gli dissi: “Mio sempre amabile Gesù, nella mia nullità io sono quasi
vacillante e tremebonda, ma diffidando di me confido animosamente in te, da cui
mi sento venire quella prontezza di animo che mi farà affrontare e sormontare
qualsiasi ostacolo e cimento”.
E Gesù a me: “Ebbene, voglio
purificare l’anima tua da ogni minimo neo che potesse impedire l’amor mio in
te; voglio provare la tua fedeltà verso di me, affinché possa averti come tutta
mia; voglio constatare che tutto ciò che mi hai detto sia vero… Perciò voglio metterti
alla prova di un’asprissima battaglia; ma tu in questo nulla hai da temere, ché
io sarò tuo braccio e tua forza, e nulla di sinistro soffrirai, giacché io
combatterò assieme con te e per te. La battaglia dunque è pronta; i nemici sono
in tenebroso nascondiglio, ad escogitare il più aspro agguerrimento, ed io darò
loro libertà di assalirti, di tormentarti e tentarti in ogni modo, affinché
quando tu ti sarai liberata, mercé le armi delle tue virtù, che vibrerai contro
i vizi opposti da loro, essi resteranno scornati per sempre, e tu ti troverai
in possesso di maggiori virtù, e l’anima tua ritornerà come un re, il quale,
dopo aver vinta la battaglia, glorioso fa ritorno al suo regno, fregiato di
corone, medaglie e meriti, menando seco immense ricchezze. Così l’anima tua,
abbellita ed arricchita di nuovi meriti, avrà da me non solo nuovi doni, ma io
stesso a lei mi donerò. Coraggio dunque, che io, dopo la riportata vittoria
della pugna sostenuta contro i demoni, immediatamente dopo formerò in te la mia
stabile e perenne dimora, e così saremo sempre uniti. È vero che io ti metto in
una prova molto dolorosa ed in un’accanita e sanguinosa lotta, giacché i demoni
non ti daranno riposo né tregua, né di giorno, né di notte; ma tu intanto abbi
sempre di mira quanto io ti propongo. Nel mio nome darai principio alla pugna;
durante l’agone questo nome sarà da te continuamente invocato, ché ti servirà
da baluardo di sicurezza; e questo[9]
metterai come suggello al compimento della tua più dolorosa prova,
incominciata, sostenuta e terminata vittoriosamente nel mio Volere, che vuol renderti
onninamente simile a me; per cui non c’è altra via, né altro mezzo per
giungervi, se non per mezzo d’indicibili ed immense tribolazioni, le quali poi
ti verranno ben ricompensate”.
Chi può dire, ora, come restai
costernata e impaurita nel sentire dal buon Gesù presagirmi l’accanita guerra
che dovevo sostenere contro i demoni? Mi sentii gelare il sangue nelle vene,
rizzare uno per uno tutti i capelli; la mia immaginazione si riempì tutta di
neri spettri, che mi figuravo in atto di volermi divorare viva; già sembravami
che d’ogni intorno fossi circondata di spiriti infernali. In questo stato sì
doloroso ed angosciante, mi rivolsi al mio Gesù, dicendogli: “Signor mio, abbi
tu pietà di me! Deh, non lasciarmi sola e così abbattuta di animo; non vedi che
i demoni mi si appressano con tanta rabbia, che di me certo non lasceranno
neppure la polvere? Come potrò loro resistere, se tu ti allontani da me? A te è
ben nota la mia freddezza ed incostanza nel bene; sono tanto cattiva da non
saper fare altro che male senza di te, mio bene; dammi almeno novella grazia, e
sì copiosa, da non poterti più offendere. Non sai tu qual è la pena che più
strazia l’anima mia? Ah, è il solo pensiero che tu possa lasciarmi sola nel
diabolico cimento, per cui mi sento sbigottire e venir meno per la paura… Chi
mi darà, in tal caso, animo per avventurarmi nel presagito combattimento? A chi
rivolgerò la mia supplica, mercé la quale possa ottenere l’insegnamento
pratico, per debellare il nemico? Fin da ora però benedico il tuo Santo Volere,
e con le parole della tua e mia Santissima Madre, rivolte da lei all’arcangelo
Gabriele, ti dico con tutto lo slancio del mio cuore: ‘Ecco la tua serva, si
faccia di me secondo la tua parola, che è di vita eterna’ ”. A tali mie parole,
Gesù riprese a dirmi:
“Non affliggerti tanto; sappi che
giammai permetterò loro[10]
che ti tentino sopra le tue forze; e sappi ancora che giammai io metto le anime
in battaglia con loro, per fare che periscano; infatti, io prima misuro le loro[11]
forze, dono la mia grazia efficace, e poi le introduco nell’aspra pugna, e se
qualche anima talvolta precipita, non avviene mai per mancanza della mia
grazia, ma perché non ha voluto tenersi unita con me, mercé la continua
preghiera; omessa questa, è andata costei mendicando dalla creatura quella
sensibilità smarrita del mio amore, senza considerare che soltanto io posso
riempire e saziare il cuore umano; oppure, fondandosi costei nel proprio
giudizio, si è di molto discostata dalla via sicura dell’obbedienza, credendo
superbamente che il suo fosse più esatto e più equilibrato del giudizio di chi
è guida di anime in vece mia… Quale meraviglia, che anime di sì dura tempra vi
precipitino?
Ti raccomando, dunque, prima di
ogni altra cosa, la costante preghiera, ancorché avessi a soffrire pene di
morte, non tralasciando quelle preghiere che sei solita di fare; anzi, quanto
più prossima ti vedrai al precipizio, tanto più nella preghiera fidente
m’invocherai, nella piena certezza di essere da me aiutata. Di più voglio che
da ora innanzi apra il tuo cuore al confessore, palesandogli tutto ciò che si
svolgerà in te, nelle mani del quale ciecamente metterai la soluzione
problematica del tuo avvenire, senza disanimo; e di quanto ti sarà detto, nulla
tralascerai di mettere in esecuzione, rammentandoti allora ciò che ti dico ora:
che sarai circondata da fitte tenebre, e tu ti troverai come chi non ha occhi,
per cui ha bisogno d’una mano amica che lo guidi. Per te, l’occhio sarà la voce
del confessore, che come luce e vento dissiperà le tenebre; la mano sarà
l’obbedienza, che ti farà da guida e da sostegno per farti giungere a porto
sicuro. Per ultimo ti raccomando il coraggio; voglio che entri con intrepidezza
in battaglia, poiché la cosa che più fa temere un esercito nemico è notare il
coraggio e la forza con cui gli avversari si avventurano alla pugna,
affrontando essi, senza punto temerli, i più sinistri attacchi. Così i demoni,
nulla più temono che un’anima agguerrita del suo coraggio, che si basi su di
me, ed a me poggiata entri in mezzo a loro, rendendosi invitta sterminatrice di
chi si para dinanzi, in modo che, atterriti e spaventati, vorrebbero darsi a
precipitosa fuga, ma non possono, perché legati dalla mia Volontà, sono
costretti a subire il più grande tormento e la loro maggior disdegnosa resa.
Coraggio dunque, coraggio, che se mi sarai fedele, ti somministrerò sempre più
copiosa la mia grazia e novella forza, affin di riuscire vittoriosa su di loro”.
Chi può dire, ora, il cambiamento
che successe allora nel mio interno? Quale orrore, ahimè, s’impossessò di me!
Quell’amore verso il mio amabile Gesù, che poco anzi sentivo vivamente in me,
si convertì in odio atroce, il quale mi cagionava una pena indicibile, che
l’anima si sentiva straziare al pensare che quel Signore, che era stato meco
tanto benevolo, ora veniva da me come aborrito e bestemmiato, come se fosse
divenuto il più crudele nemico; e poi, quel non poterlo più guardare nelle sue
immagini perché sentivo impeto d’odio, il non poter avere in mano corone del
santo rosario, né baciarle, perché ero portata a ridurle in frantumi,
richiedeva tale resistenza che la natura tremava da capo a piè. Oh Dio, che
pena amarissima! Io credo che se nell’inferno non ci fossero più pene, la sola
pena di non potere più amare Dio sarebbe quella che formerebbe l’inferno, come
fu, è e sarà orribile. Il demonio, talvolta, mi metteva innanzi tutte le grazie
che il Signore mi aveva elargito, come se fosse stato un dilettevole lavorio
della mia fantasia, e mi spingeva quindi a darmi alla vita libera e più comoda;
altre volte, poi, me le manifestava come vere, e mi rimproverava col dirmi:
“Vedi il gran bene che Gesù ti voleva? Ed ora mira la ricompensa che ti ha data
in cambio della tua corrispondenza alle sue grazie, lasciandoti, come vedi,
nelle nostre mani: sei nostra, ora, sei tutta nostra; per te tutto è finito,
essendo divenuta come un trastullo infantile; non c’è più da sperare ch’egli
possa riamarti...”.
A queste infernali parole di
satana, io mi sentivo come sopraffare da un inesprimibile sdegno contro del
Signore e da una estrema disperazione di salvezza, tanto che, avendo talvolta
fra le mani immagini, fui spinta dalla forza dello sdegno e della disperazione
a romperle a pezzi; se non che, nell’atto stesso che ciò facevo, piangevo a
calde lacrime, e nel contempo baciavo e ribaciavo i pezzi di detta immagine. Se
mi si domandasse come ciò avveniva, non saprei rispondere altro, che mi sentivo
costretta a fare l’una e l’altra cosa; mi convinco però, ora, che l’atto di
romperla mi veniva dal demonio con impeto irrefrenabile, mentre l’atto di
baciarla me lo sentivo come effetto della grazia che operava in me. Ripensando
perciò, subito dopo, a ciò che avveniva in me, sentivo l’anima straziata dal
dolore; ed i demoni scorgendo ciò che facevo, credendosi corrisposti, facevano
festa, se la ridevano e, facendo un chiasso indiavolato di assordanti grida e
rumori, mi dicevano: “Vedi come ti sei resa nostra? Non ci resta a fare altro
che portarti all’inferno anima e corpo, e quanto prima vedrai che ciò
faremo!”.
I poverini però non [vedevano] il
mio interno, che era sempre unito al mio Gesù, al quale volevo un mar di bene,
e perciò baciavo e ribaciavo quei pezzi d’immagine, piangendo. Essi, che sono
affatto alieni dalla preghiera, ogniqualvolta mi vedevano prostrata per terra,
per pregare, si arrabbiavano tanto, che ora mi tiravano la veste ed ora la
sedia a cui ero appoggiata, e m’incutevano tale timore da farmi smettere
talvolta la preghiera, credendo potermi così liberare da loro. E tutto ciò
succedeva specie di notte, e quindi me ne andavo a letto; e per conciliare il
sonno, mentalmente pregavo, e questi, accorgendosene forse, mi molestavano col
tirarmi di dosso coperte e lenzuola e cuscino, e non potendo i miei occhi chiudersi
al sonno, restavo allora in veglia, come colui che sa di avere presso di sé un
crudele nemico che abbia giurato di togliergli a qualunque costo la vita, e che
attende l’ora propizia per vibrargli il colpo fatale di morte. Mi sentivo
quindi costretta a tenere gli occhi sempre spalancati, affine di potermi
accorgere quando sarebbero venuti per portarmi all’inferno, e quindi avrei
opposto al loro infernale disegno la più fiera resistenza… In questo stato di
animo, i miei capelli si sollevavano, come spine, sulla mia testa; tutta la mia
persona era presa da un sudor freddo che, agghiacciando il sangue nelle vene,
me lo sentivo penetrare sin nelle midolla delle ossa, ed i nervi attratti mi
facevano prendere certi moti convulsivi, per la paura.
Altre volte, poi, mi sentivo
incitata a tali tentazioni di suicidio che, trovandomi presso qualche pozzo, mi
sentivo spinta a gettarmi giù; oppure, vedendo un coltello od altra cosa micidiale,
sentivo di volermi con esso ammazzare, per dare fine a tale stato di vita; se
non che, conscia, io, dell’arte diabolica, fuggivo, schivando così il pericolo
in cui mi vedevo, ma mi toccava però sentire queste diaboliche voci: “È inutile
il tuo vivere, dopo aver commessi tanti peccati! Il tuo Dio ti ha abbandonata,
giacché gli sei stata infedele!”; e mentre ciò dicevano, mi facevano credere
come se realmente avessi commesso tante scelleratezze, che mai anima al mondo
[ne] avesse fatte tante, e che perciò non ci sarebbe da sperare più misericordia…
Anche nel fondo dell’anima sentivo ripetermi: “Come puoi tu vivere, sì nemica
di Dio? Conosci tu quel Dio che hai tanto oltraggiato, bestemmiato ed odiato?
Hai ardito offendere quel Dio immenso che dappertutto ti circonda? E non pensi
che hai ardito offenderlo sotto gli stessi suoi occhi? Ed ora che hai perduto
quel Dio dell’anima tua, chi ti darà più pace, chi da noi, tuoi e suoi nemici,
ti libererà…?”.
Nell’udir ciò provavo in me tanta
pena che mi sentivo morire e, sciogliendomi tutta in lacrime, mi sforzavo a
pregare come meglio potevo, ma i demoni, per accrescere il mio terrore, mi
molestavano con inusitate vessazioni, percuotendomi in ogni parte del corpo,
pungendomi le membra con non so quali armi pungenti, e mi soffocavano ancora la
gola in modo tale da farmi credere già prossima la morte… Una delle volte,
mentre mi prostrai a pregare il buon Gesù che mi usasse misericordia e che mi
sostenesse con novella forza, per resistere a sì diabolico cimento, mi sentii
tirare da sottoterra i piedi, e poi vidi questa aprirmisi dinanzi, e da questa
uscire rosseggianti fiamme, che tutta m’investirono, ma nel ritirarsi da me
fecero violenza per sprofondarmi in essa; ma all’invocazione di Gesù mi
lasciarono incolume e libera.
Dopo aver subìto quanto ho
narrato, ed altro ancor di più, tanto che mi credevo quasi morta, venne il mio
sempre pietosissimo Gesù a farmi riavere e a darmi novello vigor di vita, e
poscia mi rincorò, facendomi ben capire che in tutto quel [che era] successo
non v’era stata alcuna offesa, giacché la mia volontà aveva avuto tanta ripugnanza
al male, da farmi provare pena amarissima al solo pensiero dell’ombra del
peccato; mi esortò quindi a non dare mai retta al demonio, essendo spirito
malvagio e perciò bugiardo, e dopo avermi detto: “Abbi pazienza ancora a
soffrire altre molestie, che poi ti sarà data completa pace”, mi scomparve,
lasciandomi sola, ma tutta ricreata di novello spirito.
Questo avvicinamento di Gesù, con
le sue consolanti ed incoraggianti parole, succedeva di tanto in tanto, e
specie quando mi vedeva pressoché in fin di vita, oppure quando mi doveva
esporre a più aspri e novelli tormenti diabolici, allora più che mai si faceva
vedere tutto festante e raggiante sprazzi di luce superna, che è impossibile a
chi viene investito da quella non avere tutta la capacità di apprendere la
verità.
Dopo di che mi trovai di nuovo
esposta al cimento di novella lotta, e piena di dubbi, per cui cadevo in uno stato,
il più triste ed angoscioso. Che dire, poi, del demonio, avverso alla
comunione? Basta dire che usava ogni arte per non farmela fare, ora provando a
convincermi che dopo tanti peccati di odio verso Dio era in me una sfacciata
baldanza appressarmi a ricevere il Dio sacramentato, e che, se avessi ardito
comunicarmi, non Gesù sarebbe venuto in me, ma il più nefando demonio, che dopo
fieri tormenti mi avrebbe cagionato la morte eterna. È vero però, ancora, che
dopo la comunione soffrivo pene indicibili e mortali, sicché a stento potevo
riavermi, giacché mi riducevo in uno stato d’immobilità, ma subito mi riavevo,
tosto che invocavo il nome di Gesù, oppure richiamandomi all’ubbidienza avuta
di non giacere in tale stato; quindi trionfava in me sia l’ubbidienza che
l’invocazione di Gesù, facendomi provare sollievo e gran refrigerio in mezzo a
sì acerbe pene. Ciò nonostante, pure pregavo il confessore che mi facesse
astenermi dalla comunione, per non provare quelle angosce di morte, ma questi
s’imponeva e mi comandava, in precetto di santa obbedienza, che assolutamente
dovevo farla; ma per parecchie volte me ne astenni, prevedendo la guerra che mi
avrebbero fatta i demoni, e talvolta la facevo senza apparecchio[12]
e quasi senza ringraziamento per non soffrire tanto. La sera, poi, mentre
facevo per pregare o meditare, questi[13],
dapprima mi smorzavano la lampada, e poi emettevano tali strazianti ruggiti, oppure
voci così flebili, come se venissero da moribondi, da farmi spaventare ed
omettere la preghiera. È impossibile dire ciò che facevano questi cani
infernali contro di me, non solo per incutermi terrore, ma di più, per farmi
tralasciare qualsiasi bene spirituale, nel corso di tre anni all’incirca, in
cui soffrii questo duro cimento, tranne qualche settimana di tregua, tregua per
altro che[14]
non cessava del tutto, ma solo si mitigava in parte.
17 - Gesù
insegna a Luisa il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali,
e dunque [ella] supera la prova a cui il Signore la sottopose.
Chi non è stato sottoposto dal
Signore a tali diabolici combattimenti stenterà, certo, a credere le dette
prove, da me purtroppo sopportate; a chi poi mi presta fede e volesse sapere
come venissero esse a cessare, dirò come il Signore, mio Gesù, in una comunione
fatta, m’insegnò il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali,
ed ecco come: ridurli all’estremo loro avvilimento, non solo col disprezzarli e
non curarli affatto, come se fossero da meno delle stesse formiche, ma quanto
col concentrarmi totalmente in Dio mercé l’orazione e la contemplazione, con
l’introdurmi specialmente nelle sacratissime piaghe di Gesù, uniformando il mio
spirito a quello di Gesù, penante nella [sua] umanità per reintegrare l’uomo,
non solo della grazia perduta, ma ancora per sollevarlo a quella [vita]
sovrannaturale ed a quello spirito di Gesù trionfante, che nella [sua] umanità
vinse il mondo, la carne ed il demonio, col rendersi vittima di amore, di
espiazione, di riparazione, di soddisfazione e di propiziazione presso l’eterno
suo Padre, a cui offre il suo cuore, nel quale palpitano di amore tutti i suoi
figli, redenti dal suo preziosissimo sangue e ritornati a novella vita di
grazia. Ed in vero, non appena cominciai a fare quanto Gesù mi aveva insegnato,
sentii infondermi tanta forza e coraggio da scemare in pochi giorni ogni timore.
Quando, dunque, i demoni facevano strepiti e rumori, dicevo loro con disprezzo:
“Si vede bene che voi, poverini, non avete altro mestiere che questo, e per
passare il tempo vi esercitate in tali sciocchezze e balordaggini; proseguite
pure, che quando vi sarete ben stancati prenderete riposo. Io, meschinelli
miei, ho ben altro da fare, poiché per mezzo della preghiera voglio farmi
strada per introdurmi nelle piaghe sacratissime di Gesù, affin di ottenere più
amore al patire”.
Ed essi, più arrabbiati, facevano
più forti rumori, si avvicinavano e, affettando ostentazione di futile violenza,
fingevano di avvicinarsi per portarmi via, mentre dalle loro bocche d’inferno
vomitavano una puzza orribile ed un’afa sì soffocante, che investendo tutta la
mia persona mi cagionava internamente un certo brivido che cercavo di reprimere
col farmi coraggio, e con forza dicevo loro: “Bugiardi che siete! Fingete avere
del potere su di me per portarmi via, ma se ciò fosse vero l’avreste fatto fin
dal primo giorno; ma siccome tutto ciò e falso, poiché quello che vi viene dato
dall’Altissimo Dio è tutto per il mio maggior bene, perciò cantate sempre lo
stesso ritornello, sino a tanto che non crepiate di rabbia e di sdegno… Io
intanto mi avvalgo di tutti i vostri tormenti per ottenere il maggior numero di
conversioni di peccatori, giacché ho accettato dal buon Gesù a tal uopo il patire,
solo a condizione di poter applicare le mie sofferenze a pro di quelle anime,
mercé la mia volontà uniformata a quella di Dio”.
A tali parole si mettevano essi
ad urlare ed a ringhiare come cani legati alla catena, che vorrebbero spezzare
per avventarsi tosto al ladro che loro si avvicina. Ed io, con più calma di
prima, dicevo loro: “E che, non avete altro da fare? Avete sbagliato i vostri
conti, certo, giacché non vi trovate più ai vostri calcoli, essendovi stata
tolta qualche anima che, ravvedendosi, è ritornata nelle braccia di Gesù, mio
bene; perciò avete ragione di lamentarvi”.
Se poi mandavano sibilanti
lamenti, come se li compatissi, burlandoli dicevo loro: “I poveri meschinelli
non si sentono bene… ; voglio perciò procurarvi un vero sollievo a tanto
vostro male”, e subito mi prostravo a pregare con fervore per la conversione
dei più ostinati peccatori, facendo per loro tanti atti di amore verso il mio misericordioso
Gesù, chiedendogli in ricambio le anime più perverse; ma questi, accorgendosi,
cercavano tutti i mezzi per distogliermi dall’orazione; ma io, applicando questo
patire in riparazione di tanti oltraggi che continuamente si fanno al buon Dio,
dicevo loro con sogghigno: “Razza dei più vili che siete, non vi vergognate di
scendere a tali bassezze per incutere timore a me e distrarmi, che niente altro
sono che il puro nulla? Non vi fate perciò tenere e prendere da vili esseri da
burla e da buffonate?”. Ed essi, mordendosi le labbra, bestemmiavano e
scagliavano le loro invettive contro di me, cercando d’indurmi a bestemmiare ed
odiare il buon Dio. Ed io, che sentivo pene indicibili sentendo strapazzare da
loro il nome santo di Dio, mi mettevo a considerare la bontà del Signore, che
merita tutto l’amore degli esseri dotati di ragione, e quindi, quella pena
amarissima che mi avevano procurata, la trasformavo in lodi, offrendole a Dio
in riparazione delle bestemmie che gli si fanno, da chi si ricorda di lui
soltanto per bestemmiarlo, e dicevo fervorosamente:
“Accettate questi miei atti di
amore e riconoscenza, in soddisfazione del disamore e sconoscenza, che come affronto
vi viene fatto dai peccatori”. Ma essi non si arrestavano ancora, tanto che
usavano ogni possibile arte per muovermi a disperazione; ed io dicevo loro:
“Non mi curo né di paradiso, né d’inferno; mi preme solo di amare e fare amare
ancor da altri il mio buon Dio. Il tempo presente mi è concesso non per pensare
al tempo futuro, ma solo per corrispondere a chi mi ha prevenuta nella bontà ed
amore, per rendermelo sempre più propizio. Il paradiso e l’inferno lo rimetto
nelle sue mani, ed egli, che è tanto buono, mi darà quello che più mi conviene,
per poterlo sempre più glorificare…”.
E poi dicevo loro: “Sappiate che
questa è dottrina insegnata dal mio buon maestro Gesù Cristo, il quale mi ha
fatto conoscere che il mezzo più efficace per acquistare il paradiso è il
protestare continuamente di non voler mai avere la volontà di offendere Iddio,
anche a costo della propria vita, quanto sprezzando[15]
la vana apprensione di aver agito male, quando però in questo manca la volontà,
il che è farina del vostro sacco, o meschinelli, che volete smerciare ai gonzi,
per gettare nel loro animo dubbi e timori, e ciò non è perché amino di più
Iddio, ma per indurli alla totale disperazione… Ma io, sappiate che non intendo
perdere del tempo a considerare se abbia o no fatto del male, ma mi basta
l’intenzione non ritrattata di volerlo[16]
sempre più amare; dinanzi a qualunque offesa a Dio mi è sufficiente la protesta
fatta in contrario, il che mi dà la vera calma e pace e mi libera da ogni
timore, e l’anima mia si sente più libera di spaziare i cieli in cerca
dell’unico e sommo mio bene”. Ora, chi può dire la rabbia da cui furono presi i
demoni, vedendo che tutte le loro arti ed astuzie riuscivano a loro danno e
confusione, e dove credevano di guadagnare vi perdevano? L’anima mia, invece,
dalle stesse tentazioni ed artifizi diabolici sentiva, anziché perdere,
acquistare più veemente amore verso Dio ed il prossimo, giacché seguendo
l’insegnamento ricevuto da Gesù Cristo, quando questi mi percuotevano,
umiliandomi, cioè, ringraziando il mio Dio ed accettando tutto ciò che soffrivo
in penitenza dei miei peccati, ancora lo offrivo a lui come atti di amore, di
espiazione e di riparazione per le tante offese che di continuo si fanno nel
mondo; e spesso, quando i demoni mi tentavano di suicidio, dicevo loro: “Né a
voi, né a me, è dato distruggere la propria vita; a voi solo è dato di tormentarmi,
per farmi più guadagnare, ma non vi è data facoltà a poter togliere la mia
esistenza, che io, poi, a vostro marcio dispetto, voglio in Dio sempre vivere
per poter più amare il mio Dio, per essere sempre utile nel sovvenire spiritualmente
il mio prossimo, al quale applico quanto da voi mi viene dato di soffrire”.
Finalmente capirono che non c’era
più per loro speranza di ottenere nulla, anzi s’avvidero che facevano grandi
perdite di anime, e perciò cominciarono a fare lunghe soste, a fine di
riprendere l’aspro combattimento quando io meno me l’aspettassi.
18 - L’ultimo
assalto dei demoni. Luisa vede Gesù penante una seconda volta, e accetta lo
stato di vittima.
Intanto, per me cominciò una
nuova vita di sofferenze, che proverò alla meglio di narrare.
La famiglia, vedendomi molto
sciupata, volle menarmi in campagna per farmi rimettere in salute; ma Iddio qui
mi chiamava per assoggettarmi a nuovo stato di vita. Stando dunque in campagna,
i demoni, un giorno, vollero fare l’ultimo tentativo, che riuscì per me tanto
penoso da farmi perdere le forze e venir meno, tanto che verso sera perdetti
totalmente i sensi, ed ero ridotta quasi in uno stato di morte, quando mi venne
fatto di vedere Gesù circondato da innumerevoli nemici, tra i quali vi erano
quelli che aspramente lo battevano, altri che lo schiaffeggiavano, e di altri,
chi gli conficcava le spine nella testa, chi gli spezzava le gambe e chi le
braccia, e lo conciarono in modo tale che lo ridussero quasi a pezzi; e dopo,
tutto pesto, lo deposero nelle braccia della Madonna Santissima. E perché ciò
avvenne poco discosto da me, la Vergine Madre, dopo che lo prese fra le
braccia, tutta dolente e sciolta in dirotto pianto, m’invitò ad appressarmi
dicendomi: “Vedi, figlia mia, come mi han ridotto mio Figlio…? Considera un poco,
come gli uomini trattano il loro Signore, Creatore e sommo loro benefattore:
non gli danno tregua né riposo, ed ora me lo danno tutto pesto. Considera le
enormi offese che essi commettono trattandolo in tal modo, e i terribili
castighi che saranno da Dio, suo Padre, versati su di loro”.
In intanto[17]
cercai di ravvisarlo in quel penoso suo stato, e lo mirai tutto sangue, tutto
piaghe, ed il suo corpo quasi trinciato e ridotto allo stato di morte, per cui
provai in me tale pena che, se mi fosse stato dato, avrei voluto mille volte
morire, soffrendo in me la stessa passione acerbissima di Gesù, pur di non
vedere più soffrire tanto, tanto, il diletto mio amante Gesù; ed a tal vista
ebbi vergogna delle mie lievissime sofferenze procuratemi dai demoni, in
paragone di quelle del mio Gesù, inflittegli dagli uomini. La Santissima
Vergine, intanto, vedendomi tanto commossa, mi soggiunse, piangendo ancora:
“Avvicinati a baciare le piaghe del mio dolcissimo e sommo bene; ed intanto,
dimmi, vorresti renderti vittima per amor suo? Vorresti soffrire in vece sua,
che tanto soffre per te, le offese che gli vengono fatte dagli uomini perversi
e scellerati? Con l’offrirti tu vittima, gli darai sollievo e ristoro in tanto
suo penare; non sei tu disposta a questo sacrifizio per amor suo, che tanto ti
ama?”.
A tal vista provai in me tale
annientamento da non potersi credere. Mi vedevo, infatti, tanto cattiva ed indegna,
che non ardivo pronunziare parola di assentimento; e poi mi sentii tremare in
tutta la persona, e [sentii] tale estrema debolezza, che appena mi sentivo un
fil di vita, tanto più che da lontano scorgevo i demoni in concilio fra loro,
che si agguerrivano e strepitavano, decisi a che, se io accettavo di rendermi
vittima per il sollievo di Gesù, dovevano fare su di me quegli acerbi strazi
che gli uomini avevano già fatto al mio Signore. Tale annunzio mi causò sì
indicibili dolori e contorcimento di nervi, che credetti di finirla[18];
ma riavutami alquanto, mi avvicinai a baciare tutte le piaghe del mio Gesù, le
quali, dietro i miei baci, si cicatrizzavano e risanavano; ed il mio Signore,
che poco anzi mi sembrava quasi morto, riprese novella vita; e nello stesso
tempo ricevetti tali lumi circa le offese che si fanno a Gesù, e tale attrattiva
di amore verso il mio sommo bene, che in cuor mio mi decidevo a rendermi
vittima, ancorché dovessi subire mille atroci morti, ché un tanto buon Signore
tutto da me meritava in ricambio di tanto suo amore. Tutto ciò avvenne mentre
silenziosamente baciavo le sue piaghe, giacché correndo i miei sguardi agli
sguardi moribondi di Gesù, vedevo che a vista d’occhio acquistavano essi vivacità
e gettavano in me tali saette e dardi infocati di amore che, penetrando nel
fondo del mio cuore, non potevano non attendere da me la corrispondenza ai
tanti inviti che internamente facevami provare il mio Gesù. Si aggiunga, ancora
a questo, che la Santissima Vergine mi dava tali incitamenti di benevolenza
verso Gesù, che non mi è dato esprimere... Facevami comprendere come se dovessi
divenire una sola cosa con Gesù; ma come ciò si svolgesse nell’animo mio, non
lo saprei dire affatto. È certo, però, che uno sguardo più penetrante di Gesù,
con uno sprazzo di vivida luce, ricreò talmente il mio spirito che mi sentii di
acquistare nuova vita; e poi Gesù prese a dirmi: “Hai tu notate le enormi
offese che mi si fanno dalla maggior parte degli uomini? Tutti quanti, chi più,
chi meno, camminano per le vie dell’iniquità, per cui senz’accorgersi,
moltissimi di loro, propendendo sempre al male, d’abisso in abisso precipiteranno
nel caos infernale.
Vieni meco ad offrirti, ancor tu,
dinanzi alla divina giustizia oltraggiata, come vittima di riparazione per le
tante offese che ognora si fanno, affinché il mio celeste Padre voglia rendersi
propizio nell’accordarci la conversione dei peccatori, che ad occhi chiusi
bevono alla fonte avvelenata del peccato. Sappi però che un duplice campo ti si
para dinanzi, l’uno di sofferenze più o meno atroci, e l’altro di
singolarissime grazie. Se rifiuti il primo, non potrai certo partecipare a
quelle grazie che si promettono a chi avrà valorosamente combattuto; ma se
accetti, sappi che io non più ti lascerò sola, ma verrò in te a soffrire tutto
ciò che di oltraggio mi si fa dagli uomini, il che è certamente una grazia
singolarissima, che a pochi è stata accordata, giacché [gli uomini] non sono
disposti ad entrare nel centro del campo delle sofferenze. In secondo luogo è
grazia ancora singolarissima, che ti prometto di sublimarti a tanta gloria per
quante sofferenze ti saranno da me comunicate. In terzo luogo ti darò per
aiuto, e come guida e conforto, la mia Santissima Madre, a cui è dato concederti
qualsiasi grazia, a misura della tua corrispondenza. Ti pare poco, forse,
questo immenso mio bene? Ebbene, fanne la prova, e ti troverai elevata al di sopra
di tutti i mortali”.
Sì dicendo, mi parve che mi
affidasse alla sua Madre Santissima, la quale, di buon animo e con volto
giulivo, mi accettava, ed io pure, con gratitudine, mi offrii a Gesù e alla
Santissima Vergine, pronta ad assoggettarmi a tutto ciò che da me si voleva.
Riavutami poi da questo primo deferente atto di conformità della mia volontà a
quella di Gesù, mi trovai per la prima volta immersa in tali pene di annientamento
di me stessa, come giammai avevo provato fino a quel momento. Mi vedevo meno
che un misero vermiciattolo, che non sa fare altro che strisciare stentatamente
la terra, e perciò mi rivolsi al Signore, dicendogli: “Aiutami tu, o mio buon
Gesù, che la tua onnipotenza, in me e fuori di me, mi fa tanto peso che mi
atterra... Veggo bene che se tu non mi sollevi, il mio nulla finirà col
disfarsi. Dammi dunque il patire, che lo accetto, ma ti prego di darmi maggior
forza, giacché in questo stato più che mai mi sento morire”.
Da quel giorno ebbi maggior
grazia ed aiuti superni; le visite del Signore si alternavano con quelle della
Vergine Santissima, con un quasi continuo moto di via vai, a seconda che mi
attaccavano battaglia i demoni, i quali, quanto più mi vedevano disposta al
patire, tanto più si manifestavano arrabbiati… È inutile dire che, se le sofferenze
subite sin qui da parte dei demoni sono state indicibili, quasi ombra sembrano
ora, messe a confronto delle più lievi pene accettate dalle mani di Gesù, con
animo disposto di espiare e riparare le moltissime e gravissime offese che si
fanno dall’uomo a Dio; ma io che confido in Dio, che atterra e suscita, che
affanna e consola, sono disposta a soffrirle per la sua maggior gloria e per il
bene del mio prossimo, come lo vuole il Signore.
19 - La
vittima incomincia a fare il suo ufficio, prendendo parte alle pene di Gesù,
incoronato di spine, per riparare per i peccati, specie di superbia. Incomincia
per Luisa l’inedia.
Non erano passati che pochi
giorni dacché mi ero assoggettata allo stato di vittima, dopo i tanti iterati
inviti del mio Gesù e della Vergine Madre, allorché mi sentii per una seconda
volta perdere i sensi, mentre il Signore mi si fece vedere con la corona di
spine in testa, e tutto grondante sangue, ed avvicinandosi a me, benignamente
mi disse:
“Figlia mia, vedi un po’ che mi
fanno soffrire gli uomini, tutt’affatto disamorati di me. È tanta la loro superbia
in questi tristi tempi, che ancor l’aria che respirano me l’hanno infettata;
anzi, è tanta la puzza di questa, che non solo si è sparsa per ogni dove, ma è
giunta fin anche al trono del Padre mio, lassù nei cieli… Come puoi considerare,
lo stato di questi miseri, tende a far serrare per essi le porte del cielo;
essi non hanno più occhi per conoscere la verità, perché dal peccato della
superbia ne è venuto l’offuscamento totale della loro mente e la depravazione
del cuore, per cui si son lasciati andare ad ogni stravizio e turpitudine; ed
io, in vista della loro perdita, ne soffro acerbe pene ed indicibili spasimi e
dolori. Deh, dammi tu un sollievo ed una riparazione ai tanti torti che mi si
fanno continuamente… Non vorresti tu mitigare almeno i miei dolori, che mi
procura questa corona di pungentissime spine?”.
A tal vista ed a tali parole
provai in me tale annientamento e vergogna di me stessa, che subito gli
risposi: “Mio dolcissimo Gesù, al vederti così grondante sangue ed al sentirti
sì dolorosamente parlare, mi sono tanto confusa ed ho provato tale
raccapriccio, da non farmi punto pensare a domandarti codesta corona per
poterti sollevare in tante pene; ma ora che soavemente da te mi viene offerta,
te ne ringrazio, ed insieme ti prego di darmi novella grazia per poter ben patire”.
Allora Gesù si tolse la corona, e
dopo averla conficcata nella mia testa, incoraggiandomi a ben soffrire, mi disparve.
Ora, chi può dire gli acerbi spasimi che provai nel ritornare in me stessa? Ad
ogni movimento di testa, i dolori si facevano sempre più acuti, e le punture le
sentivo penetrare negli occhi, nelle orecchie, dietro la nuca e persino nella
bocca, che si strinse in modo tale da impedirmi di poter prendere qualsiasi
cibo.
In questo stato di sofferenze la
duravo da due a tre giorni, e quindi senza cibo per non sentire più acerbi spasimi;
e quando questi si erano alquanto mitigati e prendevo qualche cosa per
ristorarmi, subito dopo il mio Gesù sensibilmente mi premeva con la sua mano la
testa, e le pene venivano rinnovate con più intensità di spasimi e dolori, in
modo che talvolta giungevo a perdere totalmente i sensi.
Da principio, questo stato di
vittima fu per me duplicatamente[19]
angoscioso, sia per ciò che soffrivo a piacimento del mio buon Gesù, sia
ancora per le continue inquietudini che mi venivano da parte della famiglia,
giacché questa, vedendomi tanto soffrire, e non potendo arrivare ad indurmi a
prendere alcunché di cibo, si ostinarono a credere che io mi avessi[20]
procurato questo male per non voler più restare in campagna e, naturalmente,
attribuivano ogni rifiuto di cibo a mero mio capriccio e per fare che ci
ritirassimo subito in città. Per questo duplice motivo di sofferenze la mia
natura voleva risentirsi, giacché non era vero quanto mi si attribuiva dalla
stessa [famiglia]; ed il Signore, poi, giustamente mi riprendeva, giacché non
voleva in me questo risentimento, altrimenti mi minacciava che avrebbe ritirata
la sua grazia.
20 -
Sofferenze da parte della famiglia. Sommo timore e ripugnanza di Luisa che gli
altri possano accorgersi delle sue sofferenze e di quanto le accade; ma il Signore
fa che se ne rendano conto.
Una sera, più d’ogni altro tempo,
mentre si stava a tavola, ed io in tale stato di sofferenze da non poter aprire
la bocca per prendere qualsiasi cibo, la famiglia, prima con le buone e poscia
con sdegno, mi spingevano ad obbedire, ma io, perché non potevo contentarla, mi
misi a piangere, e per non essere vista mi recai in altra stanza ed ivi seguitai
a piangere ed a supplicare il mio Gesù e la Vergine Santissima che mi
concedessero aiuto e forza per sopportare tale cimento; ma mentre ciò facevo perdetti
i sensi, esclamando di cuore:
“Oh mio buon Dio, che dura pena è
il dover sopportare la famiglia, irritata con me per sì ingiusta causa! Deh,
non permettere che mi abbiano più a vedere in questo stato di sofferenze,
poiché sento tale vergogna di essere vista in tale stato, da preferire
piuttosto la morte che far conoscere ciò che passa tra me e te, mio Dio. E ciò
lo sento tanto vivamente in me, senza saper dire il perché, che non posso far a
meno di andare a nascondermi in quei luoghi ove non possa essere veduta da anima
vivente. Quando poi sono sorpresa all’improvviso, e tanto da non aver il tempo
di celare le mie pene e le mie dolci ed amare lacrime, mi sento come annientare
e disfare il mio essere qual neve al fuoco, ed in questo stato tutta la mia
persona sente in sé un non so che di calore non naturale, che dapprima mi fa
versare copiosi sudori e poi mi fa agghiacciare e tremare dal freddo. Deh, mio
buon Gesù, tu solo puoi rimediare a questo mio stato, facendomi restare sempre
nascosta agli sguardi altrui, e facendo credere alla famiglia che io mi
apparto da loro solo per pregare e non per altro motivo; e che questo bramo,
che sia solo noto a te, mio Dio”.
Mentre così mi sfogavo in
lacrime, ed in preghiere e voti, Gesù si fece vedere in mezzo ad innumerevoli nemici,
che gli facevano ogni sorta di insulti, e vi erano di quelli che lo
calpestavano sotto i loro piedi, chi lo tirava per i capelli, ed altri che lo
bestemmiavano con vituperevoli e diabolici sarcasmi. A me pareva che il mio
amabile Gesù volesse sottrarsi da sotto quei fetidissimi piedi, guardando a sé
d’intorno, come se andasse in cerca di qualche persona che con mano amica lo
liberasse, ma mi accorgevo che non trovava nessuno che si fosse prestato
all’uopo.
Considerando io, poi, il grande
affronto che si faceva a Gesù, piangevo amaramente, ed avrei voluto andare in
mezzo a quei lupi rapaci per liberare il mio Gesù, ma non ardivo, conoscendomi
inetta, e perciò da lontano facevo fervorose istanze presso Gesù perché mi
avesse fatta degna di soffrire in vece sua quelle pene, o che al meno me ne
avesse fatto parte, esclamando: “Deh, o Gesù, potessi io prendere su di me
queste pene per sollevarti e liberarti da questi nemici!”.
Ma mentre ciò dicevo, quei
furibondi nemici, quasi che avessero intesa la mia preghiera, con impeto si avventarono
contro di me, come cani arrabbiati, percuotendomi, strappandomi i capelli e
calpestandomi sotto i loro piedi; ed io intanto, pur soffrendo, sentivo dentro
di me un contento nel vedere che così potevo procurare a Gesù un po’ di tregua;
ma quei nemici, vedendomi forse così contenta, mi scomparvero, mentre Gesù mi
si fece dappresso per compatire me, ed io per compatire lui, sebbene non ardivo
profferire parola.
Gesù intanto, rompendo per primo
il nostro silenzio, mi disse: “Figlia mia, tutto ciò che hai visto fare di me è
un nulla, è un puro nulla in paragone di tutte le offese che continuamente mi
si fanno dalla maggior parte del genere umano, giacché la loro cecità li tiene
ingolfati nelle cose terrene, ed in modo tale da farli giungere ad essere spietati
e crudeli non solo verso di me, ma ancora verso loro stessi; hanno ripudiato
ogni verità soprannaturale, col darsi a tutto potere in cerca di oro, ma questo
li ha gettati nel fango di ogni laidezza, e son caduti nel totale disprezzo del
loro eterno destino. Chi, o figlia, metterà argine all’inondazione di sì
mostruosa ingratitudine, che si allarga sempre più nel mondo dei falsi gaudenti?
Chi avrà compassione di tanta gente che mi costa sangue e vive come sepolta nel
lezzo delle cose terrene? Deh, tu vieni meco a pregare, a piangere ed a
riparare le offese che si fanno al Padre mio da tanti ciechi, che sono
tutt’occhi per tutto ciò che sa di terra, mentre poi non hanno mente e cuore
che per disprezzare e calpestare le tante mie grazie, mettendo tutto ciò che fu
operato da me per loro vantaggio, sotto i loro immondi piedi, quasi fosse vile
fango. Deh, sollevati almeno tu sopra tutto ciò che sa di terra; aborrisci e
disprezza tutto ciò che non appartiene a me; innamorati sempre più delle cose
che sanno di cielo, quindi non ti facciano più impressione gli insulti che ti
vengono dalla famiglia, ora che hai visto soffrire me, insulti di gran lunga
più abominevoli; ti stia solo a cuore l’onor mio ed il ripararmi dalle tante
offese che mi si fanno continuamente, e poi considera la perdita di tante
anime. Deh, non lasciarmi solo in mezzo a tante pene che mi straziano il
cuore…! Ma sappi, però, che tutto ciò che adesso soffri è un nulla in paragone
di tutte quelle pene che soffrirai in appresso; non te l’ho forse detto e
ripetuto più volte, che voglio da te l’imitazione della mia vita? Vedi un po’
quanto sei ancora dissimile da me. Perciò fatti coraggio e nulla temere, che
così potrai giungere in certo qual modo ad aiutarmi”.
Dopo questo parlare di Gesù,
ritornando in me stessa, mi accorsi che ero circondata da persone di famiglia
che piangevano e si turbavano tutti, temendo che mi trovassi in fin di vita;
perciò si affrettarono a menarmi in città, affin di farmi osservare dai medici.
Non so dire, ora, quale pena sentissi in me, nel pensare che la famiglia era conscia
del male fisico che si era impossessato di me e per cui dovevo assoggettarmi
alla visita medica. Mi sciolsi, quindi, in lacrime, e lamentandomi col mio Gesù
gli dissi: “Quante volte, o mio buon Gesù, non ti ho detto che voglio teco
patire, ma sempre però nel nascondimento? Questo è il solo mio contento, e tu
adesso, perché anche di questo mi privi? Deh, dimmi tu ora, come farò a far
tornare in pace la mia famiglia? Tu solo, o mio buon Gesù, puoi suggerirmi il
modo da tenervi. Deh, sollevami un poco, affinché essi per causa mia non
abbiano ad affliggersi tanto; non vedi quanto sono rattristati? Non senti ciò
che dicono ed intendono di fare? Vi è chi la pensa in un modo, chi in un altro;
chi vuole che mi faccia usare[21]
un rimedio, e chi un altro. Sono tutt’occhi e sempre intenti sulla mia
persona, in modo da non lasciarmi più sola, impedendomi così di riacquistare la
perduta pace. Deh, aiutami in tante pene, una più acerba dell’altra, in guisa
tale da farmi sentire mancare la vita!”.
A questo mio dire, il mio buon
Gesù, con tutta dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti tanto affliggere
per questo, ma cerca piuttosto di abbandonarti come morta fra le mie braccia;
sino a tanto che tu terrai gli occhi aperti per notare ciò che fanno e dicono
le creature sul conto tuo, sappi che io non posso agire liberamente su di te.
Vuoi tu, dunque, non fidarti di me? Non hai tu forse sperimentato quanto bene
ti voglio? Ebbene, sappi che tutto ciò che permetto che avvenga su di te, sia
per mezzo dei demoni o da parte delle creature, è diretto da me per il tuo
maggior bene, che ad altro non tende che a condurre l’anima tua a quello stato
ultimo a cui ti ho eletta. Voglio perciò che te ne stia tranquillamente fra le
mie braccia e ad occhi chiusi, senza guardare né investigare quanto avviene
intorno a te, ché all’opposto ci perderai il tempo e mai potrai arrivare a
quello stato di vita a cui sei chiamata. Poi, in quanto alle persone che ti circondano,
non darti alcun pensiero; usa loro profondo silenzio, sii benigna e sottomessa
in tutto; fa in modo che la tua vita, il tuo pensiero, il tuo palpito, i tuoi
respiri ed affetti, siano continui atti di riparazione, placanti la divina
giustizia, offrendo insieme le molestie che ti procureranno le creature”.
Dopo di avermi Gesù così
ammaestrata, disparve. Allora mi concentrai in me stessa, e feci quanto più potetti
per rassegnarmi alla Divina Volontà, quantunque alle volte piangessi
amaramente, giacché fui messa dalla famiglia in tali strettezze, fino ad essere
obbligata ad assoggettarmi alla visita medica, che giudicò non essere altro la
mia infermità che un fatto tutto nervoso, e quindi mi vennero ordinate
medicine, passeggiate, bagni freddi e continue distrazioni, e nel contempo [il
medico] raccomandò a tutti che si guardassero bene di menomamente muovermi
durante il periodo di assopimento, che in caso contrario mi avrebbero piuttosto
spezzata anziché sollevarmi, se avessero voluto mettermi in tutt’altra posizione
da quella in cui mi trovavo.
Quindi mi si suscitò dalla
famiglia, in questo tempo, una tacita e finta guerra, giacché vi era chi mi
ostacolava l’andata in chiesa, chi mi toglieva la libertà con la sua continua
compagnia anche in casa, chi mi pressava a farmi prendere le medicine e tutti
gli altri espedienti ordinati dal medico, e chi, finalmente, voleva farmi la
guardia fin nella notte. Dopo di che fu facile per loro accorgersi di tutto ciò
che spesso spesso mi accadeva. Dopo un lungo periodo di tempo, però, non
potendone più, mi feci coraggio a lamentarmi così col mio Signore: “Oh, quanto
mi è penoso, mio diletto Gesù, il modo con cui si porta meco la mia famiglia,
perché è giunta a privarmi anche delle cose a me più care; difatti sono priva
di tutto, ed anche dei tuoi stessi sacramenti! Chi l’avrebbe mai pensato, che
io dovessi giungere a questo stato di vita, senza potermi più avvicinare a te
in sacramento, sia per visitarti che per riceverti sacramentalmente? Chissà
dove questo stato di vita andrà a finire! Deh, dammi tu, o Gesù, novello aiuto
e forza, altrimenti la natura mi verrà meno!”.
E Gesù, facendosi vedere, subito
mi diceva: “Coraggio, figlia mia, sono io in tuo aiuto: che temi? Pensa che
ancor io ho sofferto da parte di ogni ceto di persone, e di queste vi fu chi la
pensava in un modo e chi in un altro, e tanto che le cose più sante che io
facevo erano da esse giudicate sinistramente come difettose ed anche cattive, e
perfino giunsero a dirmi che io ero indemoniato, tanto che mi facevano
guardare dagli altri con occhi torvi e mi tenevano fra loro di malavoglia,
macchinando il modo ed il mezzo come togliermi al più presto la vita, perché la
mia presenza si era resa per molti intollerabile, perché ero di riprensione per
i malvagi, mentre ero di tanta consolazione per i buoni.
Non vuoi tu, dunque, renderti
simile a me, che ti voglio a parte delle sofferenze che soffrii da parte delle
creature?”.
Ed io a lui: “Tutto abbraccio,
per amor tuo”.
21 - La croce
di sapere che i propri patimenti sono noti agli altri; e questa fu anche una
pena di Gesù.
Parecchi anni passai così,
soffrendo sempre, ora da parte dei demoni , ora da parte delle creature, ed ora
da parte di Gesù, che mi metteva a parte delle sue pene; ed in questo stato
giunsi alle volte a soffrire in modo tale da vergognarmi di me stessa, e
soprattutto provavo in me gran rossore di farmi vedere da qualsiasi persona.
Veramente per me è stato sempre gran sacrifizio il comparire in una conversazione
anche famigliare, anche quando mi trovavo in stato di perfetta salute; ma ora
più che mai, essendo in stato di sofferenze, provo tale rossore e tale turbamento
di spirito da farmi stupidire. La famiglia intanto, vedendo che a nulla
approdavano le cure ordinatemi dal primo medico, procurò farmi visitare da altri
ancora, che non riuscirono a farmi migliorare in salute; ed io, versando sempre
lacrime amarissime, dicevo al mio amabile Gesù: “Signore, non vedi come le mie
sofferenze si rendono sempre più manifeste a tutti? Non solo la famiglia, ma
ancora gli estranei sanno le cose mie, ed io, che mi veggo per questo tutta
confusione…
A me pare che tutti quelli che mi
vedono mi segnano a dito, come se avessi commessa qualche scelleratezza, oppure
come se le mie sofferenze fossero le più contagiose, il che mi fa provare pene
indicibili; e non so dirti veramente cosa è successo in me, che spesso spesso
tornano ad agitarmi queste cattive apprensioni, che in fine, se si va in fondo,
sono false. Deh, tu solo, o Gesù, puoi liberarmi da tale pubblicità e da tale
mia apprensione; a te sta il farmi patire di nascosto; te ne prego, te ne scongiuro,
per tua bontà, esaudiscimi!”.
Finse dapprima nostro Signore di
non ascoltarmi, per cui si aumentarono in me le pene, ma poscia, compatendomi,
con tutta bontà mi disse: “Figlia mia, vieni a me, che ti voglio consolare; hai
ragione di lamentarti così, perché ne soffri, ma fa d’uopo ricordarti quanto di
più ho sofferto io per amor tuo. Anche le mie sofferenze furono sino ad un
certo punto del tutto nascoste; ma quando, poi, la Volontà del Padre mio volle
farmi patire pubblicamente, allora prontamente andai incontro ad ogni disprezzo,
obbrobrio e confusione, sino ad essere spogliato delle vesti, e nudo comparii
in mezzo ad un numerosissimo popolo.
Potresti tu, ora, immaginare
maggior confusione di questa? Eppure la mia natura sentiva in sé viva questa
specie di confusione, ma l’occhio mio era fisso alla Volontà del Padre mio, e
quella pena e sofferenza era da me offerta in riparazione delle tante offese
che vengono fatte dagli uomini, col commettere le più nefande azioni al cospetto
del cielo e della terra, senza alcun rossore; anzi vengono esse commesse ad
occhi aperti e menandone vanto ed ostentazione, quasi avessero compiuta qualche
opera grandiosa. Ed io, ad onta di tutto questo, dicevo al Padre mio: ‘Padre
santo, accettate la mia confusione ed i miei obbrobri in riparazione delle
tante colpe che si commettono da tanti, che sfacciatamente e senza ritegno ti
offendono pubblicamente, con grave scandalo dei piccoli fanciulli; perdonate,
dunque, loro, e date superni lumi, acciò vedano la bruttezza del peccato e,
convertendosi, ritornino sul sentiero della virtù’.
Ora, se tu vuoi imitarmi, non
devi partecipare a questa specie di sofferenze tollerate ancor da me per il
maggior bene di tutti? Non sai tu che i più bei regali che posso dare alle
anime che più mi si son rese care, sono le croci e le pene che tanto mi
toccarono da vicino? Tu sei ancor bambinella nella via della croce, e perciò ti
senti troppo debole, ma quando ti sarai fatta più grandicella ed avrai ben
conosciuto quanto è prezioso il nudo patire, allora più vivo si farà in te il
desiderio di patire; appoggiati, dunque, in me e riposati, che così acquisterai
fortezza ed amore al patire”.
22 - Luisa si
vede costretta a starsene a letto per periodi di tempo; si accentua
l’impossibilità di mangiare. Viene chiamato per la prima volta il confessore,
il quale la libera dallo stato d’impietrimento.
Dopo aver passati sei o sette
mesi all’incirca in questo stato di sofferenze, si accrebbero ancor di più,
tanto che fui costretta a starmene a letto, giacché spesso spesso perdevo i
sensi e la bocca mi si stringeva tanto, da impedirmi affatto di prendere cibo
alcuno, ma appena ci riuscivo ad ingoiare qualche goccia di bevanda, che veniva
rimessa subito per i continui conati di vomito, che peraltro sempre si presenta
nelle maggiori sofferenze. Non venendo intanto a capo con medicinali nel corso
di diciotto e più giorni di cura, si pensò di mandare per[22]
il confessore, a scopo unico di confessarmi. Venuto questi e trovatami in
quello stato quasi d’impietrimento, mi diede l’obbedienza di sciogliermi da
quello stato di assopimento mortale e, segnandomi di croce, [mi] aiutò a sciogliermi
dall’attrito nervoso; e quando mi riebbi del tutto, mi si fece a domandare:
“Dimmi, che cosa tu hai?”.
Ed io, tacendo il tutto, gli
dissi solo: “Padre, questa deve essere cosa del demonio”.
Ed il confessore, senza altra
interrogazione e senza alcuna esitazione, mi disse: “Non temere, che non è il demonio,
e se lo fosse, il padre, in nome di Dio, lo discaccerebbe da te”.
Indi, riuscì a darmi il solito
moto alle braccia, a farmi aprire liberamente la bocca ed a farmi prendere
alcunché di ristoro. Ritiratosi poi il confessore, mi misi a considerare che
tutto ciò che si era operato in me era d’attribuirsi alla santità di questo
santo sacerdote, e lo tenni quasi per miracolo, tanto che fra me stessa, nel pieno
mio contento, dicevo: “Vedi un po’, se l’avessi durata in quello stato poco
altro tempo, certo che avrei dato termine alla mia vita, mentre ora mi sento
rinata a novella vita”.
Ne ringrazio sempre e ringrazierò
Iddio che, mercé la santità di questo suo ministro, mi ha ridonata la sanità.
Non posso però celare che in quello stato di morte ero del tutto rassegnata, e
che ora, pur vedendomi libera, non provi un certo rincrescimento di non essere
già morta; ma il Signore non lo permise, giacché aveva da compiere i suoi
disegni su di me, e perciò in giornata diede segno di volermi vittima perenne,
col farmi sorprendere di tanto in tanto da quello stato di prima, ma mi riavevo
però da me sola. Poscia mi rimisi in salute, e scesi per un altro periodo di
tempo alla chiesa, per adempiere ai miei doveri religiosi[23].
In questo frattempo, nel comunicarmi, [ricevendo] Gesù in sacramento, quando dovevo
essere messa a parte delle sue pene e sofferenze, Gesù me lo diceva, e tante
volte mi determinava l’ora in cui doveva egli venire a comunicarmele; il che,
preannunziato e poscia comunicato da Gesù e da me sofferto, non pensavo di
dirlo al confessore, giacché credevo che al solo pensiero di volerlo manifestare
sarei divenuta l’anima più superba di questo mondo, ancorché avessi scorta
della santità nel mio padre spirituale, e ciò per un pezzo di tempo, giacché
dallo stato di sofferenze partecipate da Gesù mi riavevo senza alcun aiuto
umano, ma tutto lo faceva Gesù. Dopo avvenne che Gesù, nel comunicarmi le sue
pene e dolori, non più potetti come prima riavermi da me stessa, tanto che la
famiglia dovette di nuovo, un giorno, mandare per il confessore, il quale, dopo
avermi fatto riacquistare i sensi, mi disse:
“D’ora innanzi, quando scenderai
in chiesa, o prima di comunicarti o dopo che avrai terminato il ringraziamento,
vieni al confessionale affinché ti dia la benedizione di grazia, per farti sempre
riavere dallo stato di sofferenza, senza che io venga in casa tua”.
23 - Una
nuova croce durissima per Luisa: la soggezione, come vittima, alla potestà dei
sacerdoti. Sofferenze penosissime che ebbe da sopportare da parte loro.
Una mattina, fra le altre, il
Signore, dopo che mi feci la santa comunione, mi fece capire che in giornata
sarei stata sorpresa da quello stato di assopimento totale, giacché m’invitava
a tenergli compagnia col partecipare alle sue pene, che soffriva per le offese
dei malvagi uomini. Ed io, conoscendo che il confessore non era in città, subito
gli dissi: “Mio buon Gesù, se vuoi comunicarmi le tue pene, tu stesso dovrai
avere la bontà di farmi riavere, che in caso contrario la famiglia non potrà
mandare per il confessore, perché questi trovasi in campagna”. Il Signore,
tutto bontà, mi disse: “Figlia mia, la tua fiducia deve essere posta tutta in
me; statti tranquilla e tutta fiduciosa e rassegnata, perché l’una e l’altra
cosa, riposte in me, rendono l’anima luminosa, facendo stare a posto tutte le
altre passioni, di modo che, attirato io da quei raggi di luce, da me stesso
comunicati, prendo possesso dell’anima e la informo tutta in me, per farla vivere
della mia stessa vita”.
Al suo dire non potetti opporre
il mio, e dovetti perciò rassegnarmi alla sua Santa Volontà, ed offrii la comunione
già fatta, come l’ultima della mia vita; dando, quindi, l’ultimo addio a Gesù
in sacramento me ne uscii di chiesa, e sebbene rassegnata, sentivo pur
nonostante un certo sconforto in me, pensando a ciò che stava per succedermi;
perciò tutto quel giorno non feci altro che piangere e pregare il Signore che
mi avesse comunicata novella forza per farmi riavere, in caso che fosse[24]
per alienarmi dai sensi. E di fatto, in quel giorno stesso fui sorpresa da quello
stato mortale, che mi riuscì troppo amaro, poiché con una croce nuova e
pesantissima mi trovai ridotta in tale stato; [croce] che io stessa giudico e
stimo come la più grave e pesante di quante altre ho dovuto subire sino a
questo momento.
Mentre rientrai in quello stato
di mortali sofferenze, mi rassegnai tutta a fare la Volontà di Dio e a dispormi
a ben morire. La famiglia, intanto, vedendomi in quello stato, e tanto
soffrire, cercò di mandare per un altro sacerdote, [che] chissà avesse voluto
usarmi la carità di farmi riavere; ma chi per un verso e chi per un altro, quasi
tutti, domandati a prestarsi, si rifiutarono a venire in casa, e dovetti così
passare la bellezza di dieci giorni in quel continuo impietrimento di vita
mortale, ma senza morire. Finalmente, all’undicesimo giorno, si prestò il
confessore[25]
a cui ero andata a confessarmi per la prima comunione, quando ero ancor
piccina. Questi venne e mi fece riavere, come l’altra volta mi aveva fatto
rinvenire il mio proprio confessore. In questo rinvenimento compresi due cose:
l’una, che non era la santità sola del sacerdote che mi faceva riacquistare i
sensi, ma soprattutto la potestà data da Dio al sacerdote, come suo ministro; e
la seconda cosa che appresi fu nel ravvisare i disegni di Dio su di me, che era[26]
per involgermi nella rete soggettiva dei suoi ministri. Da qui mi ebbi una
lunga guerra da parte dei sacerdoti; e vi fu, infatti, chi disse essere lo stato
mio, tutto finzione, e ciò per farmi tenere da santa; chi diceva di essere io
meritevole di bastonate, per cui non avrei dovuto più cadere in quello stato di
vero infingimento; chi mi credeva indemoniata, e chi molte altre cose ancora,
di cui il tacere è sempre bello; e perciò io non sapevo come fare, giacché se
la famiglia si faceva un dovere per non farmi stare tanto a penare in quello
stato, e ne andava in cerca di qualche sacerdote per farlo venire, lo sa Iddio
a quali strani rifiuti fu essa sottoposta, tanto che non ne poteva più, e
specie la mia povera mamma, che per me ha versato un fiume di amarissime lacrime.
In quanto a me, taccio; dico solo che il Signore voglia perdonare tutti coloro
che mi hanno dato motivo di più soffrire, e voglia ricompensare centuplicatamente
quelli che hanno meco sofferto, specie la mamma mia.
S’immagini, dunque, quanto amara
mi è riuscita quella soggezione, che per riavermi debba avere assoluto bisogno
del sacerdote. Lo sa Iddio, quante volte non lo abbia io pregato, versando
amarissime lacrime, perché mi avesse liberata da sì dolorosa soggezione al suo
ministro! E quante volte non gli ho resistito quando era per chiedermi lo stato
di vittima, volendo che avesse accettato su di me le sue acerbissime pene?
Facevo allora, più che mai, violenza a me stessa per resistere, dicendo al mio
buon Gesù: “Signore, allora accetterò lo stato di vittima, a cui tu mi chiami,
quando mi avrai promesso che tu stesso mi farai riavere senza la venuta del
sacerdote, altrimenti non voglio sottopormi ad un sì pesante giogo”.
E resistetti così, per quanto
potetti, sino al terzo giorno; ma chi può resistere a Dio, se incondizionatamente
egli lo vuole? Nei tre giorni di resistenza usata verso il mio Dio, uscivo
spesso in queste espressioni contro le sue promesse, dicendogli con calde ed
amare lacrime: “Signore, tu non stai più alla tua parola datami. Come, dicevi
che il tutto si sarebbe svolto tra te e me sola, ed ora vuoi far sottentrare un
terzo per farmi riavere, per cui sarò costretta a far conoscere ciò che passa
tra te e me? E dire, poi, che questo non è condiscendente a venire quando tu
mi metti in condizione di non potermi riavere. Non hai tu notato i tanti strani
rifiuti ed umiliazioni che la famiglia ha dovuto subire, a torto, dai sacerdoti,
che nulla ci credono? Si può, certamente, farne a meno, e così staremo
contenti; contenta cioè io, nell’accettare le tue sofferenze su di me, quante
volte tu lo voglia, e nel tempo stesso più contento ancora sarai tu stesso, che
mi farai riavere quando lo vorrai, ed in questo modo non potrai essere
scontento di me, perché sarai contento della mia condiscendenza a fare il tuo
Volere”. Ma per quanto io dicessi, Gesù taceva e, fingendo ascoltarmi,
sembrava che avesse voluto esaudirmi in tutto, che, secondo me, era giusto e
santo; ma invece prese a dirmi: “Figlia mia, non temere; io son quelli[27]
che dà le tenebre e quelli che dà la luce; ora è stato il tempo delle tenebre,
ma il tempo della luce presto verrà. Sappi, ancora, che è mio solito di
manifestare le mie opere a mezzo dei sacerdoti; ad essi ho dato la potestà di
ben conoscere, giudicare ed incoraggiare l’anima a proseguire senza
perplessità, se il tutto è secondo il criterio della rivelazione, oppure a far
sospendere e tralasciare tutto quello che ritenga non essere, a seconda del
criterio di esse rivelazioni”.
È inutile dire che al parlare di
Gesù dovetti ammutolire e, a torto collo, senz’altro assoggettarmi al suo espresso
Volere; ma posso però tacere ora, a chi sono obbligata di manifestare il tutto
in precetto di obbedienza, quante stranezze e contraddizioni ho dovuto sopportare
nel corso di quattro anni circa? E ciò sia detto da me perché così mi viene
comandato, e non [per] fare appunto a quei sacerdoti che in questo periodo di
tempo mi assoggettarono a prove durissime: basta dire che si giunse a farmi
stare in quello stato di sofferenze, d’inabilità, di immobilità e
d’impietrimento, sino a diciotto giorni continui, e giù di lì, che fu per me
veramente stato di morte senza morire, giacché inabilitata a qualsiasi moto non
potevo prendere né una goccia d’acqua, né soddisfare alle naturali necessità;
fu insomma darmi, ancor vivente, come morta nelle mani dei sacerdoti, che a
loro piacimento ed a marcio mio dispetto mi facevano star vivente in stato di
vera morte.
Iddio solo sa quello che passai
in quei quattro anni di vero martirio. E quando qualche sacerdote si compiaceva
di chiamarmi a vita, non usava nemmeno la carità di dirmi: “Abbi pazienza, fa
la Volontà di Dio...”, ma in vece rimbrotti e ramanzine, che si fanno talvolta
ai capricciosi ed ai disubbidienti, che con l’agire a loro proprio talento si
son poi trovati nella via del male.
24 - Luisa si
piega con la grazia alle pene e contraddizioni che le vengono dai sacerdoti.
Gesù, servendosi dell’epidemia del colera, la mette sul lucerniere, facendo
pubblica la sua condizione di vittima.
Oh, quanto sono stata cattiva e
lo sono tuttora, perché risento ancora vivamente quando mi si dà la taccia, sebbene
a torto, di anima capricciosa e disobbediente! Se io volessi investigare la
ragione per cui, pur non volendo risentirmi, lo sento però sempre vivo in me,
dovrei trovarla nella causa efficiente di essere molto dissimile ancora, nel
mio pensare ed agire, da quello del mio sempre amabile Gesù. Egli, che in tutta
la sua vita è stato veramente il bersaglio in ogni specie di contraddizione,
non ha mai serbato in sé il minimo risentimento, ma sempre imperturbato ha
dovuto con piena calma sopportare in pace insulti sopra insulti, affronti
sopra affronti, e questi, innumerevoli e per tutto il corso della sua vita; ed
io, invece - ho pur vergogna a dirlo - ho versato chissà quante volte
amarissime lacrime, e [mi sono] lamentata col mio dolcissimo Gesù, sino a
risentirmi con lui ed a fargli, per quanto più potevo, resistenza, per fare che
non mi assoggettasse alle sue aspre pene e sofferenze, per non essere colpita
al vivo dall’ingiusta taccia di capricciosa e disobbediente. Ma quanto è stato
buono il Signore verso di me, miserabile e cattivella, che ad onta della mia
resistenza, fingendo dapprima di non più curarmi e nulla dicendomi, si
allontanava, ma per poco, ché tosto all’improvviso veniva a sorprendermi nella
mia desolazione causata dalla sua lontananza, e mentre con le sue dolci moine e
carezze m’induceva a compiere il suo Santo Volere, facevami cadere di nuovo
fra le braccia della mortale sofferenza, comunicatami direttamente dal mio amabile
Gesù; e quando veniva il confessore[28]
a farmi rinvenire, questi, con tono severo, mi diceva: “Non voglio che tu vi
ricada più in questo stato”.
Ed io, menomamente risentita, gli
dicevo: “Padre mio, non sta in mio potere di cadere o non cadere in questo
stato di assopimento mortale. È vero che sono capricciosa, disobbediente e
buona a nulla, ma dico la verità, che la pena più straziante per me è il non
poter obbedire; e con ragione, padre mio, sento questa pena, perché mi vedo
priva di quella virtù che è stata la gemma più fulgida e preziosa del mio Gesù,
senza della quale non sarò mai a lui gradita. Oh, quanto mi dispiace e che pena
io provo nel vedermi tanto dissimile da lui! Che bene può fare, qual bene
operare un’anima disobbediente?”.
A tali umilianti parole, che mi
uscivano dal fondo del cuore, in cui sentivo palpitante d’amore il mio diletto
Gesù, il confessore con qualche parola d’incoraggiamento mi lasciava, quasi
più contento delle altre volte innanzi venuto. Malgrado, però,
l’incoraggiamento avuto poco anzi, malvolentieri opinavo che, se il Signore non
mi avesse accertata che mi avrebbe egli stesso liberata dall’anzi detto stato
senza dell’intervento del confessore, pur accettando su di me le sue pene e
sofferenze in riparazione di tanti peccati che si commettono continuamente
dalla maggior parte degli uomini, ero disposta ad opporgli ogni resistenza,
affine di ottenere quanto io mi proponevo. Ma se la creatura propone in un
modo, Iddio, nella sua imperscrutabile sapienza, fa in modo che si eseguisca,
dalla stessa, tutto ciò che ha disposto su di lei.
Fece quindi Iddio, in questo
periodo di tempo, che il colera incominciasse di giorno in giorno ad infierire
sempre più, tanto da intimorire la nostra buona cittadinanza[29];
ed io un giorno, più che mai, mi misi con fervore a supplicare il Signore che
avesse fatto cessare questo flagello della giusta ed inesorabile ira di Dio,
sdegnato a causa degli innumerevoli affronti commessi dai malvagi uomini.
Mentre, dunque, così pregavo, mi si fece vedere il mio amabile Gesù, che mi disse:
“Ebbene, io sono per contentarti, purché tu voglia offrirti vittima di riparazione,
soffrendo ben volentieri quanto di grave ed affliggente sarà trasmesso
all’anima ed al corpo tuo”.
Io, allora, a lui: “Signore, se
il male passasse tra te e me, sarei prontissima ad accettare tutto ciò che tu
voglia fare su di me; all’opposto, non posso, ché tu ben sai come la pensano e
si conducono i sacerdoti verso di me”.
E Gesù, molto benignamente, mi
rispose: “Figlia mia, se avessi voluto opinare su ciò che gli uomini erano per
fare sulla mia umanità, certo non avrei operato la redenzione del genere umano,
ma invece io non ebbi altro intendimento che la loro eterna salvezza. Fu
l’amore grande che mi divorava, che mi fece fare il sacrifizio di tutto e di
tutti; e quelle stesse pene e sofferenze, quegli stessi dolori e dispiaceri che
le creature ingiustamente mi davano col loro pensare ed agire contro di me, io
li offrivo all’eterno mio Genitore per la loro eterna salvezza. Ti sei
dimenticata che io voglio da te l’imitazione della mia vita? Sappi che per
imitarmi in tutto ciò che feci nel corso di 33 anni, non solo devi
assoggettarti ai miei travagli, alle contraddizioni, pene, dolori e sofferenze
di morte, ma ancora devi subirle in quel modo che furono sopportate da me. A
questa condizione si chiede da te l’imitazione della mia vita, se lo vuoi;
altrimenti, imitarmi a tuo piacere, non è né sarà mai di mio gradimento tutto
ciò che potrai fare. L’atto più bello ed a me più gradito è quello fatto
incondizionatamente dall’anima, in quanto che si assoggetta in modo da non
aver più la sua volontà nell’agire, ma in tutto e per tutto dipende dalla
Volontà mia; procura tu, dunque, di fare quest’atto eroico di morire alla tua
volontà e di vivere sempre nella mia, affinché io possa trovare in te le più
gradite compiacenze. Per ora voglio che ti renda vittima di amore, di
riparazione e di espiazione per quelle stesse persone che non solo ti sono
contrarie, ma ancora di gran molestia, considerando che essi sono figli miei,
redenti col mio proprio sangue, e se tu veramente sentissi amore, dovresti
anche assoggettarti a dare tutto per la loro salvezza”.
A questo giusto parlare di Gesù,
potevo io opporgli resistenza? Ed è perciò che accettai quello stato di vittima
a cui mi voleva. E difatti, sino a sera fui sorpresa da quello stato di
sofferenze, da lui comunicatemi, ed in cui vi rimasi per ben tre giorni,
senz’affatto riavermi. Riavutami dopo, non s’intese più parlare del colera,
tranne che a pochi folleggianti, che dovettero pagare il loro contributo alla
morte. Però la maggior parte dei cittadini furono scossi da questo flagello di
Dio, tanto che il confessore, quando venne a farmi riavere, scherzevolmente mi
si fe’ a dire: “In questi passati giorni, è stato tra noi un grande
missionario, il quale ha fatto molto bene nel suo ministero di predicatore; si
son viste, infatti, ai nostri piedi prostrarsi certe facce, che forse in vita
loro non si erano mai degnate di passare nemmeno davanti ad una chiesa, essendo
state sempre restie ad ogni sentimento religioso, mentre alla chiamata di
questo eccellente predicatore si sono arresi alla grazia, di[30]
cui hanno prodotto[31]
frutti di vita eterna”.
A questo, mi feci a domandare
dove questi predicasse; ed egli: “Non solo in tutte le chiese, ma ancora fuori
di queste, cioè in piazza, nei circoli, nelle botteghe, in casa; insomma, in
tutti i luoghi arrivò la sua potente parola, e con tale unzione di grazia che
molti si son ridotti a penitenza”.
Ed io: “Come si chiama costui?”.
Egli mi rispose: “Porta un bel nome; da tutti si fa appellare Don Coletto,
flagello di Dio”, volendo indicare il colera.
25 - Cambio
di confessore. La prima ubbidienza che il nuovo confessore le ingiunse fu
l’assoggettarsi come vittima alle sofferenze, soltanto con la sua autorizzazione.
Un’altra mortificazione stavami
intanto preparando il Signore, la quale venne a colpirmi dopo il suddetto colera,
e fu quella di dovermi assoggettare al rapido cambiamento del confessore, che
essendo religioso fu chiamato dai suoi superiori alla vita più ristretta del
convento; ed io, che ero contenta di lui, giacché sin qui è stato l’unico che
non mi abbia dato da soffrire, giacché tutto quel chiasso che di sopra ho
accennato fu fatto dagli altri sacerdoti e mentre questi stava in campagna,
specie nel tempo che serpeggiava il colera, a dire il vero ne soffrii molto
all’annunzio di questa partenza; non già che ci avessi il più piccolo attacco,
ma solo perché mi trovavo nella grande necessità di ricorrere a lui, e come[32]
più facile a prestarsi alla carità di farmi riavere. Addoloratissima, dunque,
feci ricorso al Signore, manifestandogli la mia acerba pena.
E Gesù, al solito tutto dolcezza,
mi disse: “Figlia mia, non volerti affliggere per questo; essendo io il padrone
dei cuori, posso volgerli e rivolgerli come a me pare e piace. Se egli, come
confessore, ti ha fatto del bene, non é stato altro che un mio messo che da me
riceveva il tutto, e a te lo dava come io disponevo; e così farò per gli altri:
li disporrò cioè a venire da te, e darò loro tutte quelle grazie che serviranno
all’uopo. Di che, dunque, tu temi? Figlia mia, quante volte ho da ripeterti che
sino a tanto che tu avrai occhi per mirare, ora a destra ed ora a sinistra,
posando ora su questa ed ora su quest’altra cosa il tuo sguardo, non potrai
camminare bene e speditamente nella via del cielo? Se non lo fisserai solo in
me, andrai sempre zoppicando; l’influsso della mia grazia non si potrà da te
eseguire; perciò voglio che con santa indifferenza te ne stia riguardo alle
cose che ti circondano, ma sempre però intenta a compiacere me, eseguendo tutto
ciò che voglio da te; altrimenti non potrai avere sugli altri la preferenza
nello stato di vittima”.
Riflettendo bene sulle parole ascoltate
dalle labbra di Gesù, il mio cuore acquistò tale forza che non feci più caso
dell’allontanamento del confessore, pur avendo fatto tanto bene all’anima mia.
Iddio m’ispirò, quindi, di assoggettarmi alla direzione di colui che mi
confessava[33]
quando io ero ancor fanciulla, e di questa scelta non mi sono mai pentita,
anzi, spesso spesso ho esclamato verso Dio: “Sii sempre benedetto, o Signore,
che mi hai confusa, giacché ti sei servito di ciò che a me compariva contrario
e quasi dannoso all’anima mia, mentre tutto considerando è riuscito un fatto
meraviglioso per la tua maggior gloria e per il bene dell’anima mia. Sempre così,
mio Dio!”.
Ed invero avvenne che a questo
ministro di Dio, da lui proposto e da me chiamato, io cominciai ad aprire il
mio cuore, che era stato sempre chiuso a tutti gli altri confessori, i quali,
per quanti sforzi ed insistenze mi avessero fatte, e per quanto io stessa mi
sforzassi ad aprire il mio interno, pur non so dire quale restringimento di
cuore sentivo in me, per cui rimandavo di volta in volta [l’aprirmi], sino a
questo punto, poiché al solo pensiero di dover dire ad altri cose che passavano
fra me e Gesù, provavo in me tale rossore e ritrosia, che era lo stesso come se
dovessi dire i più laidi peccati, che per grazia di Dio non conosco, né ho
avuto mai sentore. A questo [confessore], invece, in parecchie volte mi aprii
in modo da fargli conoscere tutto minutamente, benché senza ordine. Se mi si
domandasse la ragione per cui avevo sentita tanta ripugnanza nell’aprirmi
prima, per tutta risposta direi: ‘non so dirlo’; se da parte del confessore,
credo di no, perché egli era così buono, fiducioso e tanto paziente nel
sentirmi, che avrebbe presa cura esattissima dell’anima mia, qualora fossi
stata disposta ad aprirmi con lui delle cose che passavano tra me e Gesù; egli
era tutt’occhi su di me, affinché camminassi per la via diritta della virtù. Da
parte mia, non lo credo nemmeno, poiché sentivo nell’anima sì grave incubo da
sentirne tutta la volontà di liberarmene, ed ancora l’ansia di sapere come
egli la pensasse al riguardo; ma ciò, lo ripeto, mi fu impossibile di farlo.
Ritengo, perciò, che la ragione per cui non abbia potuto aprirmi prima di ora,
sia stata per sola permissione e Volontà di Dio, per poi obbligarmi a riferire
tutto il corso della mia vita all’attuale confessore di cui sto parlando.
Questi però aveva un’attitudine tutta speciale a saper penetrare non solo nel
mio interno, ma quanto[34]
piena volontà e pazienza nel sentirmi, per cui, trovando io in lui questa buona
disposizione, a poco a poco mi feci coraggio ad aprirgli tutto il mio interno,
facendogli leggere come su di un libro, foglio per foglio, anzi parola per
parola, tutte le grazie che il Signore mi aveva comunicato, tanto più che il
mio buon Gesù molte volte s’imponeva a farmi manifestare tutto ciò che mi diceva
e succedeva in me; e quando alle volte sentivo gran ripugnanza a manifestare
qualcosa, tosto mi riprendeva vivamente, sino a minacciarmi che si sarebbe
ritirato; e perché il dirmi ciò era lo stesso che farmi sentire la pena più atroce,
per il timore che mi abbandonasse, ogni difficoltà fu da me superata, facendo
in verità molta violenza a me stessa.
Lo stesso dico da parte del
confessore, che era sempre intento a domandarmi, ora una cosa ed ora un’altra.
A volte, infatti, mi domandava donde avvenisse quel mio assopimento, quale la
causa, quali gli effetti; e talvolta, vedendomi restia, mi comandava in
precetto di obbedienza, mettendomi innanzi il timore che potessi vivere nella
più diabolica illusione, mentre dicendo tutto - soggiungeva - “saremo entrambi
più sicuri e tranquilli, giacché il Signore non permette mai che un suo
ministro, che voglia agire rettamente nella ricerca della verità, si possa
ingannare, quando l’anima è obbediente”. Altre volte, poi, sembravami riguardo
a ciò, che Gesù ed il confessore se la intendessero fra loro prima che Gesù mi
avesse assoggettata a qualche sofferenza, giacché mi accorgevo che il
confessore, nel domandarmi, era già a cognizione della verità, per cui dicevo
fra me: “È meglio dirla questa cosa anziché tacerla, tanto più che egli già la
conosce, e come onninamente è avvenuta in me; ma se la tacessi, chissà che non
sarebbe spinto a cambiare il suo metodo di direzione”.
Tutto questo, invece, non
avveniva nel confessore degli anni passati, il quale non solo non mi faceva
nessuna domanda, ma nemmeno cercava d’indagare la verità riguardo allo stato
d’impietrimento che avveniva in me, né se ciò avvenisse per opera di Dio o del
demonio, oppure se fosse un fatto tutto naturale, cagionato da infermità corporale.
In una parola, niente egli domandava, e niente io dicevo; ma aveva però
sollecita ed instancabile cura d’investigare se fossi o no rassegnata alla Volontà
di Dio, nel sopportare le croce che il Signore mi aveva mandata; e ne soffriva
tanto, quando non mi trovava del tutto paziente a sopportarla. Mentre il
secondo confessore che prese la mia direzione, come seppe da me che il Signore,
nel farmisi vedere, mi domandava se volevo assoggettarmi a quello stato di
vittima, prima di ogni altra cosa m’ingiunse che io dovevo dire a Gesù, prima
di accettare lo stato di sofferenza: “Signore, non posso né devo accettare il
patire a cui vuoi assoggettarmi, se prima non ho licenza dal confessore. Se
vuoi, va prima da lui, e domandagli il suo consenso, affinché non abbia a risentirsi
meco”.
26 - Gesù
sollecita Luisa ad offrirsi come vittima perpetua, in continuo stato di
sofferenza, per risparmiare gli uomini da nuovi meritati castighi, e specie da
una guerra, e per preparare la via, così, a nuove grazie di santificazione per
lei.
Una mattina, quindi, dopo la
comunione, mi disse il mio amabile Gesù: “Figlia mia, le iniquità che si commettono
dagli uomini sono tali e tante, che la bilancia della mia giustizia ha
eccessivamente trasmodato la sua equilibrazione[35].
La preponderanza del male mi fa uscire fuori con l’equiponderanza[36]
dei flagelli che verserò su di loro, specie una fierissima guerra, in cui e per
cui farò della carne umana strage inaudita. Ah, sì - proseguiva piangendo - ho
dato loro i corpi, acciocché fossero tanti santuari in cui potessi spesso
spesso deliziarmi, ed invece li hanno cambiati in cloache di marciume, di cui è
tanto il fetore, che mi hanno costretto ad allontanarmi totalmente da loro!
Ecco, figlia mia, la ricompensa a tanto mio amore ed a tante pene sofferte per
loro! Chi mai al mondo è stato sì largo nel beneficare, ed ora nell’indugiare
tanto alla giusta vendetta? Ah, nessuno è stato simile a me! Qual è intanto la
causa di tanto loro pervertimento? Non altro, figlia mia, che il troppo bene
che ho sempre nutrito per loro; ma ora proverò a ridurli al loro dovere coi più
spietati castighi”.
A questo doloroso parlare di
Gesù, il mio cuore si sentì traboccare di amarezza e spezzare ancora per il
dolore, nel considerare che un Dio così buono debba essere tanto vilipeso dagli
ingrati e malvagi uomini, per cui lo costringevano, per schivarli, a
nascondersi nel mio cuore come luogo di rifugio. Eppure, chi può dire ora tutta
la pena ed amarezza che sentivo in me nel pensare che questi erano per essere
castigati dal flagello della guerra, per cui mi pareva come se io stessa
dovessi soffrire? E di più sentivo una gran brama di sopportare io quei
castighi, anziché vedere soffrire altri, pene, dolori e morte di guerra.
Cercai, quindi, di placarlo con ogni modo di compatimento, per quanto fu in mio
potere, e poscia gli soggiunsi:
“O sposo santo, risparmia loro i
flagelli che la tua giustizia tiene preparati, e se la molteplicità delle loro
iniquità è così grande, come tu dici, v’è ancora il mare immenso del tuo sangue
in cui puoi farli tuffare; così essi usciranno purificati e la tua giustizia
resterà soddisfatta. Per ora e per sempre, se non hai luogo dove deliziarti,
vieni ognora in me, che ti offro tutto il mio cuore affinché trovi in esso
riposo e delizia, sebbene, ho purtroppo da aggiungere che ancora il mio cuore è
come una sentina di vizi; ma sono disposta, mercé la tua efficacissima grazia,
a purificarlo ed a farlo divenire come tu lo vuoi. Deh, mio bene, placati, che
se fosse necessario ed utile anche il sacrifizio della mia vita, oh, quanto
volentieri lo farei, purché potessi vedere le tue immagini risparmiate dal tuo
fiero flagello!”.
Gesù allora, troncandomi la
parola, riprese a dirmi: “Figlia diletta del mio cuore, se volentieri ti offri
a soffrire, non già come per il passato, cioè ad intervalli di tempo, ma in
continuazione, io certo risparmierò gli uomini; ma sai come? Ti metterò in
mezzo, tra la mia giustizia e le iniquità degli uomini, e quando metterò mano
alla mia giustizia col mandare fulmini di flagelli per punire le iniquità di
questi, trovandoti tu in mezzo, sarai colpita tu da quelli, e resteranno gli
uomini immuni dai colpi della mia giustizia. Se vuoi condiscendere a tanto,
sono pronto a risparmiare gli uomini; diversamente non potrai vedermi placato,
né io potrò più a lungo astenermi”.
Restai sbigottita e tutta
confusa, tanto che la natura fremeva e tremava, ma vedendo che Gesù attendeva
da me una risposta affermativa o negativa, gli dissi, quasi costretta a parlare:
“O mio divinissimo sposo, da parte mia sarei disposta a qualsiasi sacrifizio,
ma come si rimedierà da parte del confessore, se venendo di tanto in tanto
m’ingiunge di non dovermi assoggettare al patire senza un previo suo consenso?
Sarà, ora, possibile che venga tutti i giorni, se mi assoggetti senza la sua
obbedienza? Se, poi, vuoi che mi sottoponga a compiere questo sacrifizio senza
della sua obbedienza, sono pure pronta, purché il riavermi dipenda non da lui,
ma da te solo, mio sommo bene”.
Allora Gesù, vero sposo di
perfettissima obbedienza e che tutto ha sacrificato per il massimo decoro di
questa virtù, mi disse: “Non sia mai, figlia mia, che si agisca contro questa
mia sposa di sangue; piuttosto portati dal confessore e domandagli la sua obbedienza.
Se egli vorrà sentirti, gli dirai per filo e per segno tutto ciò che ti ho
detto, ed in più aggiungerai che tutto ciò non sarà soltanto per il bene delle
creature attualmente viventi nel peccato, ma ancora per il bene di quelle che
sono per venire al mondo, e soprattutto per il tuo massimo bene che ti assoggetti
a queste non interrotte sofferenze, quasi mortali, giacché in questo futuro
stato a cui stai per sottoporti, mercé l’ubbidienza, ti purificherò in modo
tale, che l’anima tua sarà fatta degna di elevarsi a formare meco il mistico
sposalizio, e dopo tutto questo farò l’ultima tua trasformazione in me, da
divenire ambedue insieme come due ceri liquefatti al medesimo fuoco, che
trasfusi uno nell’altro diverranno un solo corpo, e così uniti per l’unico
pensiero, per l’unico amore e per la stessa opera di riparazione, ci
trasformeremo io in te e tu in me, in modo tale da restare tu crocifissa in me,
con me e per me… Non saresti tu contenta se potessi tu dire: ‘Gesù, mio sposo,
è crocifisso in me, ed io, sua sposa, crocifissa in lui’? Allora sì che potrai
dire che non vi è cosa che ti renda dissimile da Gesù”.
Persuasa, quindi, della ragione
espostami da Gesù, quando venne il confessore gli manifestai tutto ciò che
avevo udito da Gesù, ed ancor quello di volermi fare soffrire senza limiti di
tempo, il che, se fu da un canto tenuto da me per vero, dall’altro mi convinsi
che le dette sofferenze avrebbero avuto la durata di una quarantina di giorni e
non più. Ma purtroppo, da quel giorno sino al momento che scrivo sono passati
dodici anni che continuo in questo stato di sofferenze, e chissà quanto la durerò
ancora![37]
Ne sia sempre però benedetto il
Signore, e siano sempre adorati i suoi inscrutabili giudizi! A me resta a dire
che se avessi compreso che avrei dovuto passarmela continuamente a letto, non
mi sarei, forse, sì facilmente assoggettata allo stato di vittima perpetua,
giacché la mia natura si sarebbe talmente spaventata che difficilmente avrei
avuto il coraggio di sottopormi ad un tanto sacrificio; ed altrettanto posso
dire, senza dubbio, del confessore, il quale, se avesse conosciuto il
sacrifizio che gli toccava di fare tutte le mattine per farmi riavere, non avrebbe
certo accondisceso a farmi stare sino a quel tempo che avesse voluto Iddio.
Posso ancora asserire che sono
stata sempre amante di questo mio dolce patire, e sempre più rassegnata, [sia]
quando sono stata in continue pene, dolori e sofferenze, che quando ne ero
priva. Eppure, quando incominciai a vivere nello stato di vittima perenne, non
conoscevo ancora la preziosità della croce, poiché questa mi fu fatta conoscere
dal Signore, lungo il corso di questi dodici anni.
Tornando ora al confessore, a cui
avevo manifestato quanto l’amabilissimo Gesù voleva da me, mi disse: “Se tutto
ciò che mi hai detto è veramente Volontà di Dio, ti sia concessa la santa
obbedienza, ché in realtà si può fare da me il sacrifizio di farti riavere ogni
mattina; ché se impedimento vi è, lo trovo nel mio rispetto umano, che con la
grazia del Signore sarà vinto da me”.
L’anima mia molto si rallegrò
allora, pensando che le creature stavano per essere risparmiate dal terribile
flagello della guerra, sebbene la natura cominciasse a fremere, e tanto da
farmi passare qualche giorno nella più grande tristezza. La mattina seguente,
perciò, nel portarmi in chiesa, avendo ricevuto Gesù nel mio cuore, gli dissi:
“Dolcissimo Gesù, vedi un po’ in quale mare tempestoso è immersa l’anima mia;
invece di essere in tranquilla pace per ringraziarti dei lumi dati al
confessore, per cui ha creduto concedermi l’ubbidienza di eseguire quanto tu
vuoi da me, tuttavia sono conturbata e molto confusa, prima, per lo stato di
sofferenza a cui stai per sottopormi, e poi, e questo è più allarmante per me,
è perché dovrò forse stare in quello stato senza più ricevere te, che sei la
mia vita. Chi potrà, mio bene, resistere senza di te? Mi darà, forse, altri la
forza a resistere, se non mi sarà data da te, che sei tutta la forza, onde
possa trovare un ristoro alle mie pene e sofferenze, se non mi sarà dato di
avvicinarmi a te in sacramento?”.
Mentre così mi sfogavo con Gesù
nel mio cuore, per la pena delle future sue privazioni, mi sciolsi in
dirottissimo pianto; e Gesù allora, compatendomi e compassionandomi,
affabilmente mi disse: “Figlia mia, non temere; io già conosco la tua
debolezza, ed ho preparato novelle e speciali grazie che sosterranno la tua
fragilità. Non sono forse io onnipotente in tutto, in modo da poter supplire in
tutt’altro modo alla privazione di ricevermi in sacramento? Rassegnati adunque,
e mettendoti come morta nelle mie paterne braccia, offriti vittima volontaria
per riparare le tante offese che io ricevo continuamente dal genere umano; così
potrai farmi risparmiare gli uomini dai meritati flagelli, ché se tu
volontariamente farai il sacrifizio di tutta te stessa, dandoti vittima di
amore, di espiazione e di riparazione, nelle mie braccia per l’eterna salvezza
di tutti, ti prometto che neppure un solo giorno ti farò stare senza venire a
visitarti. Se fin ora sei stata tu che sei venuta a me, d’ora innanzi, ti assicuro,
sarò io che immancabilmente ogni dì verrò a te a visitarti; queste visite
potranno essere brevi; saranno però sempre salutari e di grande consolazione
all’anima tua. Sei contenta? E giacché mi è nota la tua adesione alla mia Volontà,
sappi che sin da questo momento sei già vittima perenne in stato di minori o
maggiori sofferenze, a seconda che io lo voglia e lo richieda la riparazione
dovuta alle colpe che si commettono dalle creature”.
Ora, chi può dire le grazie che
il Signore incominciò a farmi? Il voler narrare tutto ciò che il mio amante
Gesù ha fatto a me sinora, dacché accettai il perenne stato di vittima, mi è
proprio impossibile, specie se si volesse singolarmente e distintamente
conoscere [dette grazie]. Dirò solo per ora, succintamente, quelle che più
hanno fatto breccia sul mio cuore; e poi successivamente, come mi sarà dato ricordare,
contenterò la santa obbedienza, che senza pietà mi ha imposto di narrare le più
intime grazie, che per mia grande vergogna stento tanto a rivelare. E prima di
ogni altra cosa dirò, circa l’anzidetta promessa fattami da Gesù, che essa è
stata sempre inappuntabile, poiché dal principio sino a questo momento [non è
venuta meno], e credo che lo sarà, senza dubbio, sino alla fine.
Ricordo bene che sin dal primo
giorno in cui mi confisse nel letto, amorosamente mi diceva: “Diletta del mio
cuore, io ti ho voluto mettere in questo stato affinché potessi più liberamente
venire teco a conversare. Dapprima, infatti, ti liberai dal mondo esterno e poi
da ogni occasione di trattare con le creature; indi purificai il tuo interno in
modo che né più pensiero né più affetto di terra restò in te, ed in luogo di
quelli vi misi pensieri ed affetti tutti celesti, traboccanti di amore verso di
me; ed ora che ogni cosa ti è diventata estranea ed io teco tutto famigliare,
voglio immedesimarmiti in modo che non solo l’anima, ma anche il corpo, possano
stare a mia disposizione, e rendere l’uno e l’altra perpetuo olocausto innanzi
a me. Se non ti avessi confinata in questo letticciuolo, non avresti potuto
avere il bene di essere così spesso visitata da me, giacché avresti dovuto
prima disimpegnare i doveri di famiglia, con grande tuo sacrifizio, e poi ritirarti
nell’oratorio del tuo cuore ad attendere una mia fuggitiva visita. Adesso, non
più; siamo rimasti soli, e non vi è chi possa ostacolare la nostra
conversazione ed ancora le vicendevoli comunicazioni dei nostri dolori e delle
nostre pene, ed a mia somiglianza potrai partecipare a quanto di gioia e
contento mi viene dai pochi buoni, ed a quanto di amarezze, dolori ed affanni,
mi viene dai malvagi. D’ora innanzi le mie consolazioni saranno tue, e le tue
saranno mie; così pure le mie afflizioni e le tue saranno comunicate vicendevolmente,
ed accomunate in modo tale da far totalmente scomparire quel ‘tuo’ e quel
‘mio’, ma il ‘tuo’ ed il ‘mio’, sarà appellato ‘nostro’. Insomma, tu prenderai
interesse delle cose mie come se fossero veramente tue, ed io, a pari, delle
tue che, certo, sono ancor mie, tranne che le tue imperfezioni.
Sai tu come ho fatto io e come mi
comporterò teco? Al par di un re che di fresco si sia sposato ad una nobile regina,
il quale, bramando starle sempre vicino, se per poco è obbligato ad
allontanarsene, la sua mente ed il suo cuore sono in continuo movimento per
lei, per cui cerca di sbrigare al più presto possibile ogni sua faccenda per
far presto ritorno a lei; ritornato, è tutt’occhi su di lei, per scorgere se
qualche ombra di amarezza vi fosse in lei; e se vuole parlarle, la fa ritirare
dalle persone che la circondano, la prende seco, la conduce nelle sue stanze,
vi chiude le porte e vi mette fuori [una] persona di sua massima fiducia per far
loro la guardia, affinché nessuno ardisca interrompere la loro conversazione,
oppure ascoltare i loro segreti colloqui. Stando così soli, tutto si comunicano
tra loro, e se qualcuno imprudentemente volesse loro togliere la pace e recare
qualche disturbo, sarebbe immediatamente allontanato dal re come disturbatore
della sua gioia, e quindi severamente punito. Così ho agito teco, mettendoti in
questo stato; guai perciò a chi volesse distoglierti dal medesimo, ché non solo
mi dispiacerebbe, ma sarebbe ancora da me punito. E tu di ciò ne sei
contenta?”.
28 - Gesù
chiama l’anima ad una perfetta conformità con la sua Volontà; vuole in essa un
distacco assoluto da tutto ed una perfetta povertà.
Se alle tante grazie che il mio
diletto Gesù mi ha elargito sinora non volessi corrispondergli col più grato amore,
meriterei di essere appellata col nome più abbietto ad ogni razza umana; e dal
cielo e dalla terra mostrata a dito alle future generazioni come l’anima più ingrata
che sia esistita sinora, e come la più sciagurata fra tutti i reprobi, se non
assecondassi in tutto e per tutto il suo Santissimo Volere. Ed invero, che non
si direbbe d’un povero straccione che rifiutasse ad un ricchissimo signore di
mettere in massa comune gli immensi suoi beni coi pochi e luridi cenci di
quello, all’unico scopo di volerlo rendere padrone al par di lui, rispettando
la semplice condizione di prendere conveniente cura d’interessarsi di tutto
come di cosa sua propria? Diverrebbe egli, così, la favola della città, e degna
di essere tramandata ai posteri, i quali, pur raccontandola, non la
crederebbero vera. Così, appunto, ha fatto meco Gesù: ha messo in massa comune
tutti gli infiniti suoi beni con le mie imperfezioni, e mi ha resa padrona del
suo, ed egli padrone del mio nulla, a patto però che io avessi cura del suo,
che elargisce gratuitamente, mentre egli, a costo d’immensi sacrifizi, ha comprato
da me… Cosa mai? Ho vergogna a dirlo: non solo il mio nulla, ma le stesse
imperfezioni, che vuol ridurre a perfezione. Oh, quanto non gli sono obbligata!
Egli, che non si è stancato mai, né si stanca, né si stancherà mai di ripetermi
ogniqualvolta mi ritrova dissimile da lui: “Io voglio da te perfetta conformità
alla mia Volontà, in modo che la tua volontà venga a disfarsi totalmente nella
mia”.
E di più, quante volte notava in
me il benché minimo attacco a cose indifferenti, dolcemente mi pressava a distaccarmi
dicendomi: “Figlia mia, bramo da te un distacco assoluto da ogni cosa che non
sia mia; ossia tutto ciò che sa di terra, voglio che sia tenuto da te come
sterco e marciume, che ti sia orrido anche a guardarlo, perché le terrene cose,
fin quando che non sono di assoluta necessità, solo a tenerle d’intorno e
guardarle con compiacenza ne agghiacciano il cuore, e adombrando le cose
celesti impediscono che abbia luogo quel mistico sposalizio che da un pezzo ho
promesso di voler fare con te. Sappi che io nulla apprezzai delle cose di
quaggiù, tranne quelle puramente necessarie; perciò mi assoggettai alla nuda
povertà, che pure voglio far seguire da te, disprezzando tutto ciò che non ti
sia necessario… In questo letticciuolo, con l’imitarmi nella povertà, devi
considerarti più che una vera poverella, e così solo potrai dirti effettivamente
povera; mai entri in te la brama di acquistare, perché voglio che in te ci sia
la vera povertà affettiva, con cui nulla brami, nulla prenda se non ti fosse
puramente necessario, e di questo, ancora, ringrazia prima me e poi i tuoi largitori.
Voglio perciò che d’ora innanzi te ne stia a quello che ti viene dato, senza
altro domandare, perché potrebbe esserti d’impiccio alla mente, desiderando
quella cosa che non ti venisse data; ma con santa indifferenza rimettiti alla
volontà altrui, senza pensare se ti venisse bene o male”.
E ciò, in pratica, a dir vero, mi
costò da principio il più grande sacrifizio, ma subito mi avvidi che senza pensare
a questa o a quella cosa e senza nulla chiedere, mi veniva data, quando ne
avevo veramente bisogno.
29 - Una
nuova croce di Luisa: il rimettere sempre assolutamente il cibo, ed insieme il
patimento della fame. Il confessore le proibisce di continuare nello stato di
vittima.
Superata intanto questa
difficoltà, il Signore volle sottopormi ad un’altra prova più penosa, che è la
seguente: per le continue sofferenze che mi venivano direttamente comunicate da
Gesù, io ebbi a soffrire continui conati di vomito ogniqualvolta prendevo cibo;
ora, in questo stato, mentre mi veniva dato dalla famiglia qualcosa di cibo, e
che immediatamente rigettavo, mi sentivo talmente illanguidire lo stomaco da
non potersi dire; ma ricordandomi quanto Gesù mi aveva detto: “Statti a quello
che ti viene dato”, non ardivo chiedere altro, tanto [più] che sentivo in me
tale vergogna come se la famiglia dovesse rimproverarmi col dirmi: “Come, hai
ora appena vomitato, e vuoi già di nuovo mangiare?”.
Per questo dicevo tra me: “Nulla
chiederò se prima non me lo porteranno da loro stessi, altrimenti il Signore ci
penserà”.
E così me la passavo, contenta di
poter soffrire qualche cosa per amor di Gesù, offrendo tutto in riparazione di
quante offese si commettono con le golosità. Il confessore, poi, non so perché,
sentendo che venivo presa da conati di vomito, m’ingiunse di prendere tutti i
giorni il chinino, il quale mi stuzzicava maggiormente l’appetito, ma non
potendo prendere alcun cibo senza che mi venisse dato, io mi sentivo straziare
lo stomaco, in modo tale da sentirmi in stato di morte senza mai morire; e
tutto questo mi durò per circa quattro mesi, fino a quando il mio diletto Gesù
m’ingiunse: “Dirai al confessore che non ti faccia prendere né cibo né chinino
ogniqualvolta tu rimetti, che egli, illuminato da luce superna, ti accorderà di
[non] prendere né l’uno né l’altro”.
E così avvenne, poiché il
confessore mi accordò di [non] prendere più nulla; ma poi, per non farmi parere
singolare, mi disse: “D’ora innanzi voglio che prenda il cibo una sola volta al
giorno”. Così facendo, restai più tranquilla; mi passò la fame, ma non il
vomito, che sempre, ogniqualvolta prendo il cibo, sono costretta tuttora a
rimetterlo dopo un po’ di tempo[38].
Più volte però il mio diletto Gesù mi ha ripetutamente detto: “Di’ al confessore
che ti dia l’ubbidienza di non più mangiare”; ma per quanto glielo abbia detto,
mi si è sempre rifiutato, dicendomi: “Fa conto che il mangiare ti sia dato a
scopo di poter fare uno o più atti di mortificazione al giorno, sempre in
riparazione delle tante offese che il Signore riceve per la golosità degli
uomini”.
Ma non passarono che pochi
giorni, ed ecco che il Signore tornò a ripetermi: “Voglio che affacci di nuovo
al confessore la domanda perché ti astenga dal prendere qualsiasi cibo, ma
fallo con santa indifferenza, disposta cioè a fare ciò che la santa obbedienza
vorrà o no accordarti”.
Obbediente alla voce del mio
Gesù, subito che venne il confessore gli manifestai il tutto, ma, non so perché,
non solo mi venne questo negato, ma [ancora] m’ingiunse il divieto di dover
stare in tali sofferenze, come se questo dipendesse da me. Ma se non sbaglio,
credo che il confessore, ricordandosi che io gli avevo detto che il Signore mi
chiamava allo stato di vittima per un tempo indeterminato, che da me fu tenuto
per una quarantina di giorni circa, la ripetuta domanda di astenermi dal mangiare
dovette far sì che giudicasse non essere verità né il mio stato di sofferenze
in cui il Signore mi pose, né l’ultima proposta di non dover più mangiare, come
voleva il mio amante Gesù; oppure il confessore, per ragioni a me ignote, venne
a questa risoluzione, di non dover più stare[39]
in questo stato di vittima, aggiungendo che, se fossi ricaduta in quello stato
di sofferenze, non sarebbe più venuto per farmi riavere. Dico la verità, che
io, a questo parlare del confessore, mi sentivo dispostissima a fare la santa
ubbidienza, tanto più che la natura richiedeva il diritto di essere sgravata
dal peso di tanti dolori e sofferenze mortali, in cui spesso ricadevo, e che
naturalmente non si può agognare né sopportare senza uno speciale aiuto divino.
E poi, quel dovermi assoggettare a tutto, ed anche per quelle cose più
ripugnanti, ma pur necessarie alla natura, è un vero sacrifizio, che se non si
facesse per Volontà di Dio - a lui devo il ricambio dell’amore immenso che ha
profuso in gran copia - certo che anche i più grandi santi avrebbero
recalcitrato. Io dunque, da parte mia, provai una certa consolazione, e mi
disponevo a fare in tutto la santa ubbidienza, ma ero anche pronta e disposta a
stare confinata nel mio letticciuolo, qualora il Signore avesse voluto tenermi
in questo stato di vittima, giacché sperimentavo la bontà del suo Volere, che
mi procurava quella vera rassegnazione ed uniformità alla sua Santa Volontà,
che sa far cambiare la natura alle cose, e fin l’amaro, che lo converte in
dolce.
30 -
Resistenza di Luisa a Gesù, che la vuole nei patimenti, perché manca il
consenso del confessore; ma finalmente Gesù s’impone, comunicandole lo stato di
sofferenze e dandole, per il confessore, come prova che è la sua Volontà,
l’annuncio della guerra tra l’Italia e l’Africa.
Accettata dunque di buon animo
l’ubbidienza di non voler più stare a letto in stato di vittima, incominciai a
far resistenza al mio sempre amabile Gesù, allorché si fece vedere per
comunicarmi le sue pene, dicendogli: “Amato mio bene, il mio rifiuto al patire
non devi averlo a male; che vuoi da me? È l’ubbidienza che me lo vieta, e
quindi non posso più assoggettarmi; se poi tu vuoi che io faccia la tua
Volontà, illumina il confessore, affinché si disponga a concedermi quanto tu
vuoi, altrimenti farò la sua espressa volontà, opponendomi con ostile ostinatezza
alla tua Volontà, anzi crederò che non sei l’amabile Gesù”. Ebbene, il Signore
volle mettermi alla più cruda prova, giacché mi fece passare tutta una nottata
in contrasto con lui, perché ci fu un continuo via vai a scopo di sorprendermi
all’improvviso, ma stetti sulla mia per l’intera notte, e quando egli veniva,
subito gli dicevo: “Amor mio, abbi pazienza; ci vuole l’ubbidienza del
confessore perché tu possa comunicarmi le tue sofferenze, e quindi non
obbligarmi a far aderire la mia alla tua Volontà; potrai ridurmi all’annientamento
di me stessa, comunicarmi le tue pene, tutti i dolori e sofferenze che vuoi, ma
mai col consenso della mia volontà, giacché questa non si piegherà alla tua,
senza l’ubbidienza”.
E così in questo contrasto la
durai sino alla mattina, in cui mi sentivo perfettamente libera d’ogni
sofferenza, credendo che il Signore me l’avesse già data per vinta la prova; ma
non fu così, giacché in un istante, mentre ero immune d’ogni sofferenza, il mio
diletto Gesù mi attirò talmente a sé che, perdendo [io] i sensi, non potetti
più oltre fargli resistenza, poiché mi trovai sì stretta a lui che, per quante
opposizioni avessi potuto fargli, non avrebbero potuto menomamente distaccarmi
da lui, essendo io il nulla, e quindi vana sarebbe riuscita ogni lotta e resistenza
con colui che è il forte dei forti e l’onnipotente. Stando poi così stretta con
Gesù, sentivo in me tale rossore per le tante ripulse fattegli, che mi sentivo
tutta annichilire, e perciò con vergogna gli dissi: “Perdonami, sposo santo, se
ti ho fatto tanta resistenza, la quale non sarebbe avvenuta se l’ubbidienza non
me l’avesse ingiunta”.
E Gesù, molto affabilmente, mi
disse: “Figlia diletta del mio amore, non temere che io me l’abbia per tua offesa[40],
né mi offendo per parte del confessore che ti ha dato questa ubbidienza,
giacché chi con delicatezza di coscienza esercita il suo ministero, deve usare
ogni arte e prova per mettersi al sicuro della morale responsabilità che dai
buoni e dai cattivi ancora si richiede. Torna quindi in calma, e vivi sempre
abbandonata in me. Vieni meco; oggi è capodanno[41];
vieni, che voglio darti la strenna”. Egli, quindi, si avvicinò tanto a me, che
mi trasse tutta a sé, e appressando le sue labbra alle mie mi versò un liquido,
dolcissimo più che latte, e baciandomi e ribaciandomi affettuosamente trasse
dal suo cuore un anello, dicendomi: “Ammira bene e contempla questo anello che
ti ho preparato per quando farò teco le mie nozze, poiché ti sposerò in mia
fede. Per ora t’ingiungo di continuare a vivere nello stato di vittima, e
voglio che dica al confessore che è mia Volontà che tu continui a vivere in
questo stato di sofferenze; e per segno evidente che sono io che ti parlo,
sappi che la guerra, incagliata[42],
tra l’Italia e l’Africa, continuerà ancora, fino a quando non ti darà egli
l’ubbidienza di mantenerti nello stato di vittima, per il quale non solo non la
farò continuare, ma ancora, quanto prima avverrà la pacificazione d’ambo le
parti”.
Dopo che Gesù così mi parlò, da
me scomparve, lasciandomi come rivestita da una veste di sofferenze, le quali
mi penetravano fin nelle midolla delle ossa, tanto che non potetti più riavermi
da quello stato quasi mortale, senza l’intervento del confessore, per cui la
famiglia, vedendomi in quello stato, procurò di mandare per esso[43],
mentre io, così penante, pensavo a ciò che avrebbe detto il confessore, nel
trovarmi contro il suo divieto in stato di maggiori sofferenze; ma che fare?
Certo che non era in mio potere il riavermi, giacché quel liquore latteo
versatomi da Gesù mi procurava tale amore verso di lui, che mi sentivo languire
di amore e di dolore insieme, e di più, tanta sazietà e dolcezza, che dopo che
il confessore mi fece riavere, mi obbligò a prendere un po’ di cibo apprestatomi
dalla famiglia, il quale non poteva assolutamente scendere giù nello stomaco, e
ci volle perciò l’imposizione della santa ubbidienza per farmelo ingoiare; ma
poi, subito, fui costretta a rimettere, mescolato ancora al dolcissimo liquore
versatomi da Gesù. Ma in quest’atto, però, sentii nel mio interno Gesù, che
quasi scherzando mi diceva: “Forse non ti è bastato ciò che ti ho versato, non
ti sei di quello soddisfatta?”. Ed io, tutta piena di rossore e vergogna, gli
dissi: “Che vuoi da me, o mio buon Gesù, se è stata l’obbedienza che mi ha obbligata
a cibarmi, il che mi ha fatto poi versare anche il tuo, che era sì dolce e
delizioso?”.
Dopo di che, il confessore, senza
farmi alcuna interrogazione sull’accaduto, si sottrasse da me dicendomi: “Verrò
non appena avrò un po’ di tempo libero”. Ed io, che non solo sono stata
indifferente, ma ancora, molto restia all’ingerenza del sacerdote nei fatti che
passano tra me e il mio Dio, mi feci subito a ringraziare il mio sempre amabile
Gesù, che aveva permesso di non farmi domandare nulla, senza sapere ciò che mi
stava preparato il giorno seguente, in cui tornando il confessore con insolito
cipiglio, e senza prima interrogarmi, cominciò tosto ad inquietarsi meco ed a
chiamarmi anima disobbediente, e soggiunse: “Il fatto tuo di cadere in mortale
deliquio è da ritenersi, come lo è, pura malattia e non fenomeno soprannaturale;
se fosse cosa di Dio, non avrebbe certo fatto mancare all’obbedienza, giacché
egli ci tiene tanto a questa bella virtù, che nulla vuole si faccia senza
l’obbedienza. Ed ora, invece del confessore, chiamerai i medici, i quali
penseranno, a mezzo della loro scienza, a liberarti da questo stato nervoso”.
Allorché diede egli fine alla sua
ramanzina, io mi feci bellamente a narrargli tutto l’accaduto e ciò che il Signore
mi aveva ingiunto di dirgli. A questo, il confessore si ricredette e mi
assicurò che non era da mettersi in dubbio quanto gli avevo detto in nome di
Gesù, giacché la guerra incagliata tra l’Italia e l’Africa era più che vera; perciò
soggiunse: “In quanto, poi, all’accennata loro pacificazione, se come tu dici,
rendendoti vittima, sarà fra breve, se è da Dio non posso metterla in dubbio,
ma se fosse da altri… staremo a vedere”.
Sì dicendo, mi accordò
l’ubbidienza di assoggettarmi all’espresso Volere del mio buon Gesù,
ripetendomi: “Staremo ora a vedere se non andrà più avanti questa guerra, e se
subito si pacificheranno tra loro”.
Dopo quattro mesi, il confessore
attinse dai giornali notizie precise circa la suddetta pacificazione, preannunziatami
da Gesù, e venendo a me, mi disse: “Senza alcun danno d’ambo le parti, si è
terminata la guerra che pendeva tra l’Italia e l’Africa, pacificandosi del
tutto tra loro”.
Per questo fatto, preannunziato
prima ed avverato poi, fece sì che il confessore restasse convinto dell’intervento
dell’Alto, e mi lasciò nella mia pace, che non si può avere quando si fa
resistenza al Volere di Dio.
Il mio buon Gesù intanto d’allora
in poi non fece altro che predispormi a quel mistico sposalizio già promessomi,
col visitarmi più spesso, e quando tre, quando quattro e più volte al giorno, a
seconda che gli piaceva; e talvolta faceva, anzi, un continuo andare e venire.
A me pareva che facesse come un innamorato che non sappia stare senza pensare,
senza amare né visitare spesso spesso la sua sposa, tanto che giungeva ad
aprirsi meco, dicendomi: “Vedi, ti amo tanto che non so stare senza venire a
te; mi sento quasi irrequieto senza vederti e parlarti da vicino e
svelatamente, pensando che tu sei sola e stai per amor mio a soffrire tanto;
sono perciò venuto a vedere se hai bisogno di qualche cosa”.
E sì dicendo mi sollevava egli
stesso la testa, mi aggiustava il guanciale, mi cingeva il collo col suo
braccio, ed abbracciandomi mi baciava e ribaciava più volte; e trovandoci
allora in estate, per sollevarmi dal troppo caldo, emanava dalla sua soavissima
bocca un alito che tutta mi ristorava, oppure agitava qualche cosa [che sembrava] che tenesse in mano, e qualche volta anche un lembo
del lenzuolo che mi copriva, perché mi rinfrescassi, e poi subito mi domandava:
“Come ti senti, ora? Certo che ti sentirai meglio, non è vero?”.
Ed in risposta gli dicevo: “Tu lo
sai, mio diletto Gesù, che in qualunque modo tu stia meco, sto sempre bene”.
Quando poi, nel venire, mi trovava prostrata di forze per le continue
sofferenze, specie quando il confessore veniva verso sera, mi si avvicinava, e
dalla sua bocca versava nella mia un liquido latteo, oppure facevami attaccarmi
al suo sacratissimo costato, da cui mi faceva succhiare torrenti di dolcezza e
di forza, le quali mi facevano poi pregustare delizie di paradiso. Vedendomi
poi in questo stato di somma delizia, mi diceva con tutta la sua ineffabile
bontà: “Voglio essere proprio io il tuo tutto, rendendomi salutare nutrimento
non solo della tua anima, ma del tuo corpo ancora”.
Chi può dire veramente tutto ciò
che io sperimentai di celestiale amore, dopo tante insolite grazie di paradiso?
Se io dovessi dire tutto, come il dolcissimo Gesù me le abbia comunicate, non
solo mi renderei seccante, ma vi andrei troppo per le lunghe, per cui non avrei
il tempo di poterle dire, né il confessore di poterle sentire tutte. Mi limito, perciò, a dire in succinto
quel tanto che basti a far conoscere superficialmente lo stato di un’anima che
stia nel pieno possesso di Dio, facendosi strada nella Volontà del suo diletto
Gesù, sposo deliziosissimo dell’anima. Spontaneamente, quindi, mi viene di esclamare
con tutta la veemenza del cuore, e dire al mio Gesù: “Oh, quanto mi sono state
gradite e soavemente deliziose le comunicazioni di spirito di Gesù!”. Mentre altre
volte, con dolore, ho pure esclamato: “Oh, quanto sono amare e spasimanti le
pene, dolori e sofferenze versatemi dal mio dolente ed amareggiato Gesù!”. Ma
se queste [le une e le altre] non andassero in concomitanza tra loro, l’anima, resa
veramente vittima di amore, di espiazione e di riparazione, non potrebbe sì a
lungo durarla in vita, ma disfacendosi il suo corpo, lo spirito andrebbe ben
presto a ricongiungersi a quello del suo Dio.
Dopo aver, perciò, provato tante
dolcezze ed amarezze insieme, ne seguiva il mio giusto e pietoso lamento,
quando pareva che si allontanasse da me; e quando, alle volte, mi si nascondeva
per qualche ora, trovandomi io in sofferenze mortali, sembravami come se non
l’avessi visto da cento anni almeno, e perciò mi lamentavo dicendogli: “Deh, o
sposo santo, come mai ti fai da me tanto aspettare? Non vedi che io non posso
resistere senza di te? Deh, vieni a sollevarmi almeno con la tua presenza, che
mi è luce, mi è forza, mi è tutto!”. Altre volte, poi, sentivo tanta pena per
la privazione di poche ore del mio Gesù, che mi sembrava come se da anni ed
anni non si fosse fatto vedere, e perciò nella mia pena mi scioglievo in
amarissime lacrime.
Ed egli, allora, mi si faceva
vedere, mi compativa, mi asciugava le lacrime, mi abbracciava e baciava, dicendomi:
“Non voglio che tu pianga. Vedi, adesso sono teco: dimmi, che vuoi?”.
Ed io a lui: “Non bramo altro che
te; ed allora cesserò dal piangere, quando mi avrai promesso di non farti da me
tanto e poi tanto attendere. Tu lo sai, o mio buon Gesù, quanto mi è penosa la
tua aspettazione, quando io ti chiamo e tu non vieni presto a sollevarmi, a
fortificarmi e ad incoraggiarmi con la tua dolce presenza”. E Gesù: “Sì, sì, ti
contenterò”; e subito disparve.
Un altro giorno, mentre ero
tornata a lamentarmi ed a pregarlo che non si fosse fatto tanto aspettare,
vedendo che non cessavo dal piangere, mi disse: “Ora voglio, in verità,
contentarti in tutto; mi sento tanto portato verso di te, che non posso fare a
meno di secondare il tuo volere. Se finora ti ho tolta la vita esteriore e mi
sono a te manifestato, ora voglio tirare appresso a me l’anima tua, e così
potrai seguirmi più da vicino, godermi e stringerti più intimamente a me, e [potrò] manifestarti tutto ciò che non è stato fatto teco per
l’addietro”.
Passati tre mesi circa, dacché mi
resi vittima perenne, restando nel mio letto perché [mi fossero] comunicate da Gesù le sue pene e dolori in
concomitanza delle sue dolcezze, venne egli una mattina, in aspetto tutto
amabile e da graziosissimo giovane, sull’età di diciotto anni all’incirca… Oh,
quanto era egli bello, con quella sua chioma dorata e tutta inanellata, che
scendeva lateralmente dalla fronte e pareva che inanellasse ed intrecciasse
assieme i pensieri della sua mente con gli affetti del suo cuore!
Aveva fronte serena e spaziosa,
in cui si rimirava come attraverso d’un tersissimo cristallo l’interno della
sua mente, in cui si spaziava e signoreggiava l’infinita sua sapienza nel suo
imperturbabile ordine di celestiale pace; in vista di ciò, oh, come si
rasserenò la mia mente e come si tranquillizzò il mio cuore, al cospetto del
mio graziosissimo Gesù, tanto che le mie passioni vennero a rendersi così represse
da non farmi sentire più la minima loro molestia. Ah, sì, se solo al vedere
Gesù così bello è tanta l’infusione di pace che si comunica all’anima, che sarà
mai vedere e possedere la sua divinità? Credo che non si possa vedere Gesù così
bello se l’anima non stia nella più perfetta calma, nella più profonda umiltà e
nel più ardente amore di lui, tanto che al minimo alito di turbamento Gesù si
ritira dall’anima. Invece poi, quando l’anima nel suo interno prova una pace e
calma imperturbabile, ad onta che intorno a sé vi è ogni disastro e la guerra
più fiera, Gesù così bello non è solo in vista di lei, per farla continuare
sempre imperturbata, ma ancora cerca in lei il suo dolce riposo, che non gli
viene dato da altri già conturbati.
Io, quindi, in quell’aspetto lo
miravo e rimiravo, e non mi saziavo mai di rimirarlo e di esclamare: “Oh,
quanto son belli i suoi occhi purissimi, scintillanti di luce ancor più pura,
ma non come quella del nostro astro solare, che se lo si volesse fissare
offenderebbe la nostra vista!”.
Quella del mio Gesù, no; mentre è
più che luce del sole, si può fissare benissimo lo sguardo, senza che vengano
ad indebolirsi le pupille dei nostri occhi al mirare quello splendore, anzi si
sentono più fortificate. Se lo sguardo si affissa a guardare la pupilla degli
occhi di Gesù, di un colore celeste scuro, non si sa più distaccare dal mirare
un tanto misterioso prodigio di bellezza, che un solo sguardo di Gesù basta a
farmi uscire fuori di me stessa e farmi correre dietro di lui, battendo ogni
via, per valli, piani e monti, sia attraverso i cieli, che internandomi nei più
cupi abissi della terra; anzi, basta una sola occhiata di Gesù per trasformarmi
in lui e farmi sentire in me stessa un non so che di divino, che tante volte mi
ha fatto esclamare:
“O mio bellissimo Gesù, o mio
tutto, se soltanto per pochi minuti in cui ti fai così vedere da me, comunichi
all’anima mia tanta pace, per cui si possono soffrire torrenti e mari di pene,
di dolori, di martìri e sofferenze le più umilianti, con la più perfetta
tranquillità di spirito, che è sempre in un misto di pace e di dolori, che sarà
in paradiso godere la tua beatifica visione, senza miscela di dolori?”.
Chi può dire, poi, quale e quanta
è la bellezza del suo volto adorabile? La sua carnagione è pari alla neve,
tinta leggermente di un color di rose le più belle. Nelle sue guance porporine
si scorge la grandezza della sua persona in aspetto maestosissimo, del tutto divino,
che nel contempo incute timore e riverenza, ed insieme vi dà tanta confidenza
che, messa a paragone di quella che si potrebbe trovare nelle umane creature,
vi sarebbe quella differenza che passa tra il nero ed il bianco, o tra le cose
più amare e le più dolci di quaggiù; ossia, qualsiasi altra confidenza di
creatura è un’ombra sola di quella confidenza che s’infonde da Gesù in me… Ah,
sì, la confidenza di Gesù verso l’anima si affaccia sul suo volto santo, che
mentre è così maestoso, è pure tanto amabile, in modo che questa sua amabilità
vi attira tanto che l’anima non ha alcun dubbio di non essere ben accetta a
Gesù, che non sdegna mai la sua creatura per quanto brutta e peccatrice sia, se
nell’accesa fiamma dell’amore ritorna nelle sue braccia. Che dirò, poi, dei
lineamenti del naso, della bocca e labbra di Gesù? Graziosissimo è il naso, che
scende finissimo dalle bionde sue sopracciglia, e leggermente si allarga in
punta proporzionata al sacratissimo volto. La sua bocca, poiché piccola ed atteggiata
a dolcissimo sorriso, con le sue labbra finissime d’un colore scarlatto, è
soave e graziosissima, e mentre si apre per parlare sembra che contenga qualche
cosa di preziosità, che mente umana non può esprimere a parola, giacché la
comprende superiore a qualsiasi immaginabile detto di quaggiù. Solo dalla voce
si arguisce quella dolcezza e soavità di paradiso, che è una profusione armoniosa
e sì celestiale da rapire il cuore più restio alla voce della grazia. Ah, sì,
la voce del mio diletto è sì soavemente penetrante, che innamora toccando ogni
fibra del cuore, in cui si producono, in meno che si dica, i più vivi e caldi
affetti, tanto che l’anima resta di primo tratto come rapita. Ma chi può dir
tutto? È tanto piacevole la sua voce, che i piaceri tutti della terra, a confronto
di una sola parola articolata del mio Gesù, sono meno che niente; solo è da
dirsi che, presi tutti insieme, non sono altro che misera parvenza, in
confronto della dolce voce di Gesù. Questa è ancora potentissima nell’operare
le più grandi meraviglie; nello stesso atto che parla, produce all’anima
l’effetto che vuole in essa.
Ah, sì, è bella la bocca di Gesù,
ma sovranamente bella nell’atto di parlare, in cui si vedono quei denti così nitidi
e ben aggiustati, che ti procurano la più grande ammirazione, e ti manda un
alito di amore così palpitante che incendia, saetta e consuma, nel cuore di chi
ascolta la sua voce, ogni affetto che non sappia di cielo. Più belle sono le
sue soffici mani, bianche e delicatissime, aventi le dita così terse e diafane
che, toccando ogni cosa, le muove con tale maestria che è un vero incanto… Oh,
quanto sei bello e tutto bello, o mio grazioso e dolce Gesù! Perdonami se ho
ardito parlare della tua bellezza così malamente, ché quanto ho detto, messo a
paragone della tua vera bellezza, è un puro niente di quel bello tutto tuo.
Veramente, ho ritrattato[44]
con tanti miei spropositi quella bellezza, di cui non son degni né capaci di
parlare adeguatamente nemmeno gli angeli tuoi; ma che vuoi? È stata la santa
obbedienza che me l’ha ingiunto. Ho fatto alla men peggio per contentarla; se a
te non è riuscito gradito, non solo perdonami, ma fai in modo che sia
dall’ubbidienza quanto prima bruciato, perché non si addicono alla tanta tua
bellezza questi miei spropositi e sconciature.
33 - Per la
prima volta l’anima esce dal corpo, attratta irresistibilmente da Gesù.
Sofferenze che in tale stato Gesù comunica all’anima.
Se non ci fosse stato un severo
precetto di obbedienza, dico francamente che giammai mi sarei indotta a continuare
l’attuale umiliazione di mettere su carta le strane scene della mia vita, le
quali si fanno di giorno in giorno sempre più insolite e quasi, come ad altri
sembreranno, affatto bizzarre. Ciò nondimeno, non potendo fare diversamente, mi
accingo a dire che il mio diletto Gesù, dopo che si fece vedere, ed in certo
qual modo contemplare in quell’aspetto poco anzi descritto così malamente da
me, emanò dalla sua bocca un alito soavissimo e di olezzante fragranza di
paradiso, che m’investì tutta, sia l’anima che il corpo, ed in virtù di quell’alito
mi trasse dietro di sé, ed in meno che si dica fece uscire fuori l’anima mia da
ogni parte del corpo, dandomi un corpo semplicissimo, tutto risplendente di
purissima luce, ed appresso a lui presi il suo rapidissimo volo, girando la
grande vastità dei cieli. Ora, essendo la prima volta che mi succedeva questo
meraviglioso fenomeno, mentre l’anima usciva dal corpo, incominciai ad
esclamare: “Adesso sì che è venuto il Signore a prendermi, per cui,
certamente, ora muoio!”.
Quando mi vidi fuori del corpo,
l’anima mia provava la medesima sensazione di quando era ancora nel corpo, con
questa differenza, che il corpo unito all’anima percepisce ogni sensazione per
mezzo dei sensi, ed il tatto rimette [le sue percezioni] alla capacità delle potenze dell’anima, mentre in
questo caso l’anima prende da sé ogni sensazione e comprende all’istante tutto
ciò che attraversa e penetra, fosse anche la più astrusa ed impercettibile
cosa, e questa, sia che stesse lontana o da vicino, sempre però che lo voglia
Iddio. La prima cosa che sentì l’anima mia nell’uscire dal corpo, fu un certo
timore e tremore nel seguire il volo del mio diletto Gesù, che continuava a
tirarmi dietro a quel suo alito di paradiso mentre mi diceva: “Se tanta pena hai
tu provato stando qualche ora nella privazione della mia visuale presenza, adesso
vola e vieni meco, ché voglio sempre consolarti ed inebriarti del mio amore”.
Oh, quanto fu bello arieggiarsi
l’anima al modo di Gesù lungo la volta dei cieli! Mi sembrava come se poggiassi
a Gesù, e che Gesù mi sostenesse a fine di non farmi precipitare e per tenermi
sempre dietro di lui, che, sebbene mi precedesse, pur nondimeno era stretto
meco, in modo che io lo seguivo poggiata a lui ed egli a me, mentre col suo
dolce alito mi sosteneva e tirava dietro di sé. In breve dico che in me c’è
tutta la rappresentazione visibile dell’accaduto, ma non vi è l’espressione per
manifestarla. Dopo aver girato l’immensità dei cieli, il mio diletto Gesù, che
trova le sue delizie nella compagnia degli uomini, fece sì che mi trovassi in
sua compagnia in certi luoghi in cui l’iniquità degli uomini più inondava di
nefandezze. Oh, quanto si cambiò allora l’aspetto dolcissimo del mio diletto
Gesù! Oh, quanta pena non entrò velenosamente ad amareggiare il suo
sensibilissimo cuore! Io allora lo vidi con più chiarezza delle altre volte
soffrire indicibili sofferenze; vidi il suo adorabile cuore ansare come quello
d’un moribondo che muore di spavento, e poi quasi svenuto; e nel vederlo
ridotto in quel sì miserabile stato, gli dissi: “Mio adorabile Gesù, quanto ti
sei cambiato! Tu mi dai la figura d’un moribondo; appoggiati a me, fammi
partecipe delle tue acerbissime pene; il mio cuore più non regge a vederti solo
e tanto soffrire”.
Allora Gesù, quasi riprendendo il
respiro, mi disse: “Ah, sì, diletta mia, a te sta l’aiutarmi, ché non ne posso
più”. E così dicendo mi trasse più intimamente a sé, e versò dalle sue labbra
nella mia bocca un’amarezza tale da procurarmi pene del tutto mortali, e tanto da
sentirmi come se tanti coltelli, punture di lancia, frecce, dardi e saette,
penetrassero da parte a parte l’anima mia. In questo stato di sofferenze, che
degli strazi è il più atroce, il mio diletto Gesù fece entrare di nuovo l’anima
mia nel mio corpo, e mi disparve. Chi può dire, ora, le pene strazianti che
sentì il mio corpo al contatto dell’anima, che rientrava in esso? Solo Gesù lo
può dire, che tante e poi tante volte me le ha comunicate e poi mitigate, che
altri al mondo non solo non può alleviare, ma nemmeno immaginare a fondo ciò
che si soffre. Da questo punto narrativo della mia anima, che in appresso chi
sa quante volte uscendo dal mio corpo ha seguito il mio diletto, si può congetturare
come la morte tante altre volte si è burlata di me, miserabile, tanto sono
indegna di morire ancora, ma verrà, verrà presto…, verrà quel tempo in cui non
più si burlerà di me, ma sarò io che mi burlerò di lei dicendole: “Una volta ho
scherzato teco, ma così bene ti ho sferzata e sfiancata da renderti di mille e
cento [volte] più che la pariglia, [anzi] completa vincita”.
E a ragione dico ciò, perché se
non fosse stato per Gesù - il quale, talvolta, dopo aver comunicato direttamente
le sue strazianti pene all’anima mia, mi ha fatto riavere, sia con
l’avvicinamento al suo cuore che è vita per me, o col prendermi fra le sue
braccia che per me sono fortezza, oppure col versarmi un dolcissimo liquore
dalla sua bocca - certamente sarei già morta, giacché le pene comunicate direttamente
all’anima sono chissà quanto più strazianti di quelle comunicate al corpo.
34 -
Partecipazione che Gesù comunica a Luisa delle sue indicibili amarezze e dolori
per le diverse specie di peccati con cui è offeso.
Gesù quindi, allorché vedeva che
naturalmente non potevo più durare in vita, perché giungevo sino agli ultimi
estremi di vita, mi aiutava da sé[45]
per non farmi soccombere, che [diversamente] mi avrebbe fatto esalare l’anima
con l’ultimo respiro. Talvolta, poi, Gesù agiva direttamente mercé l’opera del
confessore a cui ispirava di venire più presto a farmi riavere. Ma dico la
verità, che quelle pene, mercé l’ubbidienza si mitigavano in certo qual modo,
ma non così come quando operava Gesù su di me ed in me. Ricordo benissimo che
il più delle volte, quando Gesù voleva comunicarmi le più spasimanti pene,
allora faceva uscire l’anima dal corpo, e menandola seco, lui mi faceva notare
i tanti peccati che venivano commessi dagli uomini, sia di bestemmia che contro
la carità, e di qualsiasi altra specie, [e] mi versava parte di quell’amaro veleno
che egli già sentiva tutto in sé come effetto causato dai tanti peccati. A mio
modo di pensare, posso dire, senza dubbio di errare, dall’effetto prodotto in
me, che il peccato della disonestà è quello che più offende ed amareggia il
cuor di Gesù.
Versando egli in me una
particella di quella sua amarezza, sentivo che entrava in me una materia sì nauseante,
marciosa, puzzolente ed amareggiante, sino a farmi sentire esalare dal mio
corpo tale fetore che mi faceva toccare talmente lo stomaco, che se non prendevo
subito qualche cosa per rovesciare quel marciume misto al cibo, venivo meno. E
tutto ciò non bisogna credere che avvenisse soltanto quando Gesù, in genere, mi
faceva notare le nefandezze che si commettono soltanto da coloro che sono
stimati grandi e pubblici peccatori, ma ancora, ed in particolar modo, allorché
mi tirava dietro di sé nelle chiese, in cui pure viene offeso il mio amabile
Gesù. Oh, come toccavano sì malamente il suo cuore quelle opere in sé sì sante,
ma esercitate sì strapazzatamente; quelle orazioni vuote di spirito interno;
quella finta pietà, apparentemente devota; quella ipocrisia, pareva che
facessero più insulto che onore al mio Gesù. Ah, sì, quelle opere così
malamente eseguite nauseavano quel cuore sì santo, puro e retto. Oh, quante volte
non ha fatto meco doglianza, dicendomi: “Figlia mia, vedi, anche da parte di
chi si dice devoto, quante offese e quanti insulti mi si fanno, fin nei luoghi
santi ed anche nel ricevere gli stessi sacramenti! Perciò invece di ricevere
grazie e di uscire di chiesa purificate, queste anime escono più imbrattate di
colpa, e da me, quindi, non benedette”.
E nello stesso momento mi ha
fatto notare certe persone che si comunicavano sacrilegamente; oltre di che, sacerdoti
che celebravano il santo sacrificio della messa per abitudine, per spirito
d’interesse ed in peccato mortale, che fa anche orrore a dirlo. Oh, quante
altre volte Gesù mi ha fatto vedere scene sì dolorose al suo cuore, da farlo
quasi agonizzare! Talvolta, mentre il sacerdote celebrava sì sacrosanto mistero
di amore [e] consumava la vittima, ostia di propiziazione, Gesù era costretto
ad uscire presto presto dal suo cuore, infangato di spirituali miserie. Altre
volte, poi, perché chiamato a discendere dall’alto dei cieli ad incarnarsi
nell’ostia mercé le parole potenziali del sacerdote, nauseava l’ostia non
ancora consacrata, perché tenuta fra le mani impure e sacrileghe di chi, con
autorità di lui stesso, lo intimava a discendere con esitazione; e Gesù, per
non venir meno alla sua parola, s’incarnava in quell’ostia, che stillava
marciume d’impurità prima, e poi stillava sangue di deicidio. Oh, quanto mi
appariva allora compassionevole lo stato sacramentale di Gesù! Mi sembrava come
se volesse fuggire da mezzo a quelle mani immonde, ma [era] pure costretto
dalla stessa sua promessa a starsene, sino a tanto che le specie del pane e del
vino non fossero ben consumate, in quello stomaco, più nauseante ancora di
quelle mani che sì indegnamente lo avevano più volte indegnamente toccato. Ma
al consumarsi le sacre specie se ne veniva a me, ed aprivasi meco lamentandosi
così: “Ah, sì, figlia mia, fammi versare in te una porzione della mia
amarezza, ché più non posso contenerla da solo in me; abbi tu compassione del
mio stato, che è divenuto troppo doloroso. Abbi dunque pazienza; soffriamo un
poco insieme”.
Ed io: “Signore, sono pronta a
soffrir teco, anzi, se mi fosse data la capacità di prendere meco tutte le tue
amarezze, oh, quanto lo farei volentieri per non vederti più soffrire”.
Gesù allora, mentre io così
dicevo, versava dalla sua bocca nella mia quella parte di amarezza che potevo
contenere in me, e soggiungeva: “Figlia mia, è un nulla ciò che ho versato in
te delle mie amarezze, come tu [sei] capace di ricevere; ma quante e quante
altre anime vorrei che fossero disposte al medesimo sacrifizio che tu hai fatto
per amor mio! Non perché io potessi versare in esse tutta l’amarezza che ha
subito il cuor mio, ma almeno per avere quella soddisfazione di essere contraccambiato
in amore e benevolenza tutta figliale”.
Eppure non si può esprimere a
parola quanto quel copioso versamento di Gesù era amaro, velenoso e stomachevole,
per il marciume sì fetente e nauseante, che alle volte, per quanto sforzo
facessi, il mio stomaco si rifiutava a sostenerlo, e mentre cercavo di mandarlo
giù, un forte conato me lo respingeva su, fino alla gola; ma l’amore che
sentivo per Gesù non [me] lo faceva sempre versare, perché aiutata e sostenuta
dalla sua grazia. Chi può dire, ora, le sofferenze che mi producevano questi
versamenti di Gesù? Erano tali e tante che, se non mi avesse sostenuta,
fortificata ed invigorita, sarei già stata certo vittima della morte.
Eppure ripeto che Gesù non
versava in me che la minima parte di quell’amarezza sorbita da lui, giacché la
creatura non può contenere di amarezza e di dolcezza insieme, tanta quanta ne
può contenere l’amabilissimo mio bene. Perciò egli solo sorbisce e tollera la
piena amarezza che [gli] viene cagionata dal peccato. Con dolore, quindi, ho
sempre esclamato a questa considerazione: “Oh, quanto è mai brutto e micidiale
il peccato! Ah, se tutti nella piena conoscenza di esso provassero ancora
[nella sua] essenza quel suo effetto velenoso ed amareggiante, affinché
avendolo ben conosciuto lo evitassero come orribile mostro che sbuca
dall’inferno!”.
35 -
Partecipazione che Gesù fa a Luisa delle sue ineffabili dolcezze, facendola
assistere a scene consolantissime dei sacrosanti misteri della nostra
religione.
Ora, se l’ubbidienza mi ha
indotta a dire in succinto circa le scene dolorose che il mio sempre amabile
Gesù mi ha fatto notare, per farmi partecipe delle sue amarissime pene, non
posso passare sotto silenzio ancora quelle scene consolantissime che rapivano
il mio cuore, allorquando mi metteva a parte delle ineffabili ed inaudite
dolcezze spirituali, col farmi vedere i buoni e santi sacerdoti che fervorosamente
e con spirito di vera umiltà si portavano alla celebrazione dei misteri
sacrosanti della nostra religione. Vedendo celebrare questi, con profonda
considerazione [di] quanto di prezioso si svolge nel breve spazio di una
mezz’ora, mi sentivo spesso spesso di esclamare nella pienezza del mio affetto
verso il mio diletto Gesù: “Oh, quanto è alto, grande, eccellente e sublime il
ministero sacerdotale, a cui è data sì eccelsa dignità, non solo di trattare
con te, mio Gesù, così da vicino, ma ancora d’immolarti all’eterno tuo Padre
come vittima propiziatoria di amore e di pace!”.
Oh, quanto mi riusciva consolante
il mirare e il rimirare insieme un santo sacerdote celebrante la santa messa, e
Gesù in lui; era trasformato in modo tale da vedersi una sola persona, anzi,
pareva che non il sacerdote, ma Gesù stesso celebrasse il divino sacrificio, e
tanto che alle volte la persona di Gesù faceva occultare affatto in sé il sacerdote,
tanto che io vedevo solo Gesù che celebrava la santa messa mentre io
l’ascoltavo… Allora sì che era commoventissimo sentire Gesù recitare con tale
unzione di grazia quelle preci, dignitosamente muoversi ed eseguire quelle
sante cerimonie, così punto per punto da suscitare in me le più eccellenti
meraviglie d’un sì alto e sì santo ministero. Chi può dire quante grazie io
ricevevo, quanto mi riusciva [consolante] veder celebrare le messe con
devozione ed attenzione tutta divina, e quanti lumi e carismi divini io comprendevo
allora, e che ora vorrei passare sotto silenzio? Ma non posso fare a meno di dirne
in succinto qualche cosa, giacché l’ubbidienza me lo impone, e più che ogni
altro, Gesù stesso, che mentre sto scrivendo, movendosi nel mio interno, ha
preso a rimproverarmi che per svogliatezza avrei voluto omettere ogni cosa. Ed
ora, con la massima fiducia in lui perché voglia suggerirmi quanto sto per
scrivere, ho esclamato:
“Oh, quanta pazienza ci vuole con
te, o mio buon Gesù! Ebbene, ti contenterò, mio dolce amore, ma lo farò aiutata
dalla tua grazia, giacché mi sento non solo indegna di parlare su di un mistero
sì profondo e sì sublime, ma quanto ancora incapace di dire alcunché, per
quanto concerne sì alto mistero”.
Dico adunque, ora, che mentre
ascoltavo il divin sacrifizio, Gesù mi faceva capire che nella messa,
considerata bene sino al fondo del mistero che si svolge, vi è racchiuso tutto
il mistero della nostra sacrosanta religione. Ah, sì, la messa ci fa notare
tutto e ci parla tacitamente al cuore di tutto l’infinito amore di Dio, con espansione
inaudita, elargito a vantaggio degli uomini. Essa ci ricorda sempre la compiuta
nostra redenzione; ci fa ricordare parte per parte le pene che Gesù patì per
noi, ingrati al suo amore; ci fa comprendere che egli, non essendo ancor
contento di morire una sola volta sulla croce per noi, vuole diffondersi sempre
più nell’amore immenso, tutto se stesso, mercé l’istituzione di questo perenne
sacrifizio, per continuare il suo stato di vittima ancora, nella santa
eucaristia. Mi ha fatto capire, Gesù, che la messa e la santa eucaristia sono
perenne memoria della sua morte e della sua risurrezione, e che comunica non
solo alla nostra anima, ma ancora al nostro corpo, quell’antidoto d’una vita
immortale.
La messa, quindi, e l’eucaristia,
ci dicono che i nostri corpi disfatti ed inceneriti mediante la morte, risorgeranno
nel giorno finale a vita immortale, che per i buoni sarà gloriosa, e per i
perversi ricolma di tormenti, giacché questi non essendo vissuti con Cristo,
non risorgeranno in lui, mentre i buoni, essendo stati in vita nell’intimità
con Cristo, risorgeranno quasi a pari dello stesso Gesù. Mi fece, quindi, ben
comprendere che la cosa più consolante che si racchiude nel sacrifizio della
messa - il più eccellente di tutti gli altri [misteri] della nostra santa
religione - è Gesù in sacramento e la sua risurrezione; questa, in concomitanza
con la passione e morte dello stesso Gesù, misticamente si rinnova sui nostri
altari, tante volte per quante volte si celebra il sacrosanto sacrifizio della
messa; e Gesù in sacramento, velato sotto gli azzimi sacramentali, si dà
realmente ai comunicanti per essere loro compagno e vita, lungo il pellegrinaggio
di questa vita mortale, e gloria e vita sempiterna, mercé la sua grazia, nel
seno della Santissima Trinità, a cui parteciperanno le nostre anime unite ai nostri
corpi. Questi misteri sono sì profondi, che soltanto nella vita immortale ci
sarà dato comprenderli appieno. Ora, Gesù in sacramento ci dà una parvità[46]
di quella comprensione che ci sarà data lassù nei cieli, e lo fa in più modi, e
quasi toccare con mano.
In primo luogo, la messa ci mette
nella considerazione della vita, passione e morte di Gesù, a cui tiene dietro
la sua gloriosa risurrezione, con la differenza però che tutto ciò fu eseguito
dall’umanità di Cristo e si compì nel corso di 33 anni, realmente scorsi nelle
diverse vicissitudini della vita, mentre nella messa, misticamente ed in breve
spazio di tempo, si rinnova esso tutto, in stato di vero annientamento, in cui
le specie sacramentali contengono Gesù vivo e vero, sino a tanto che non
saranno consumate; ma poscia non esiste più la reale presenza di lui sacramentato
nei nostri cuori, ma ritorna nel seno del suo Divin Padre, come quando
risuscitò da morte. E poi, consacrate di nuovo nella messa altre specie, discende
di nuovo a prendere lo stato di vittima di pace e di amore propiziatorio, per
cui si rinnova il suo stato sacramentale per vantaggio di noi viatori e per soddisfazione
e gloria del suo eterno Padre. Così, in sacramento, ci ricorda la risurrezione
dei nostri corpi alla gloria, giacché, come egli, cessando lo stato
sacramentale risiede nel seno di Dio Padre, così le anime umane, cessando lo
stato della vita presente, passeranno a fare eterna dimora nel cielo, nel seno
di Dio, mentre i nostri corpi resteranno consumati al pari delle specie
sacramentali, quasi che non avessero più esistenza; ma poscia, con prodigio
dell’onnipotenza [di Dio], acquisteranno nel dì dell’universale resurrezione la
vita, [e] congiunti alla propria anima andranno assieme a godere, se buoni,
l’eterna beatitudine di Dio; in caso contrario andranno lungi da Dio, a
soffrire i più atroci ed eterni tormenti.
Se tutto ciò che si è detto è
effetto meraviglioso che scaturisce come da fonte limpidissima dal sacrifizio
della messa, come poi i cristiani non si avvezzano per farne profitto? Si può
avere cosa più consolante e salutare, dal nostro buon Dio, per un cuore che
ama, giacché non solo nutrisce l’anima a fine di renderla degna del cielo, ma
comunica al corpo quella prerogativa per cui potrà a suo tempo bearsi degli
eterni contenti del suo Dio? A me sembra che in quel gran giorno succederà
[come] quel fenomeno naturale che si presenta alla vista di chi sta
contemplando il cielo, che è tutto stellato, mentre s’appressa l’ora della
comparsa del sole. Che cosa avviene mai? Il sole, apparendo nella sua
smagliante luce, assorbisce in sé la luce di tutte le stelle, e mentre queste
scompaiono alla vista dell’osservatore, resta ognuna nella sua luce propria e
al proprio posto, tanto che queste, al tramontar del sole, come se ricevessero
novella vita, si fanno di nuovo a risplendere nel firmamento. Così delle anime:
investite, come stelle, della luce comunicata loro dal suddetto sacrifizio e
sacramento di amore, allorché si troveranno al giudizio universale nella valle
di Giosafat, prima che arrivi Gesù, sole eterno di giustizia, ognuna di esse sarà
osservatrice di tutte le altre anime, ed in ciascuna si osserverà quella luce acquistata
e comunicata da sì santo sacrifizio e da sì sacrosanto sacramento di amore, ma
al comparire di Gesù giudice e sole eterno di giustizia, nella sua immensa luce
assorbirà in sé tutte le anime beate che risplendono come stelle, e le farà
sempre esistere in lui, facendole nuotare nel mare immenso di tutte le
perfezioni di Dio. E delle anime prive di questa divinissima luce, che ne sarà
mai? Andrei troppo per le lunghe se volessi rispondere a questa domanda, però
se il Signore lo vorrà lo farò in altra occasione, come mi riserbo di dire
qualche altra cosa che Gesù mi ha fatto conoscere circa il suddetto oggetto
d’amore.
Dico, ora, soltanto, che Gesù mi
ha fatto comprendere che i corpi uniti alle anime che hanno luce risplendente,
saranno in eterno uniti con Dio; quelli che invece saranno uniti alle anime
nerissime e caliginose, per mancanza di luce non procacciata mercé la
partecipazione dovuta e voluta a questo sacrifizio e sacramento di amore,
saranno gettati e sprofondati, privi della luce della grazia, nelle più fitte tenebre,
a seconda della loro ingratitudine commessa scientemente contro sì gran donatore;
ivi, sotto la schiavitù del principe delle tenebre, Lucifero, saranno
tormentate in eterno dal rimorso più terribile e straziante.
Ora, rifacendomi da capo, dico
che in queste uscite che faceva la mia anima dal corpo, sebbene Gesù mi mettesse
a parte delle sue acerbissime pene che soffriva per la mala corrispondenza al
sacrifizio e sacramento di amore da parte di tanti ingrati, ciò nonostante,
mercé la luce di grazia che sempre si infondeva da Gesù in me, io ero a dovizia
accesa di sante brame di volermi sempre più unire a lui. Gesù, ancora da parte
sua, mi rinnovava spesso le dolci promesse già dette circa le mistiche nozze
che quanto prima voleva far meco, per cui mi sentivo animata tante volte a
sollecitarlo col dirgli: “Deh, o sposo dolcissimo, fa presto; non più si meni a
lungo la mia intima unione con te. Vedi che io non ne posso più; le mie brame
sono così accese che mi sento del tutto divorare. Deh, stringiamoci con più
forti vincoli di amore, in modo che nessuno ci possa separare, anche per un
istante solo”.
Ma Gesù, che pur m’infondeva
l’accesa brama di effettuare questo mistico sposalizio, mi ripeteva: “Tutto ciò
che è terreno deve togliersi, tutto, tutto, non solo dal tuo cuore, ma bensì
anche dal tuo corpo. Tu non sai capire quanto è nocevole la minima ombra
terrena, e di quanto impedimento sia questa all’amor mio”.
A tali parole di Gesù mi feci
ardita, dicendogli subito: “Signore, a quel che pare, ci ho ancora qualche cosa
da togliere per piacere perfettamente a te, ma perché non dirmela? Tu lo sai se
io non sia pronta a fare tutto quello che vuoi”.
Ma mentre così dicevo, ebbi un
raggio di luce da Gesù, per cui mi avvidi che Gesù voleva parlare di un anello
di oro che avevo al dito, in cui vi era l’immagine sua crocifissa; ed io
immediatamente gli dissi: “O sposo santo, sono più che mai disposta a toglierlo
dal dito, se tu lo vuoi”.
Ed egli: “Sappi che dovendo io
darti un anello più prezioso e più bello, in cui sarà impressa più al vivo la
mia immagine, in modo che ogni volta che lo guarderai nuove frecce di amore
riceverà il tuo cuore, il tuo anello non ti è più necessario”.
Ed io allora, più che contenta,
giacché non sentivo in me alcuna passione, prontamente me lo tolsi, dicendogli:
“Ecco, sposo santo, ti ho contentato; dimmi se c’è altra cosa che sia d’impedimento
alla nostra indissolubile ed eterna unione che vuoi far meco”.
Dopo una lunga aspettazione e
diligentissima preparazione, frammista a soavissime consolazioni, e di non poco
patire, giunse finalmente il sospirato giorno della mistica unione con Gesù,
diletto sposo dell’anima mia. Come ben mi ricordo, pochi giorni mancavano a
compiere l’anno in cui Gesù mi tenne continuamente in letto. Era il giorno
della purità di Maria Santissima[47].
La notte precedente, il mio amante Gesù mi si fece vedere con insolito affetto
e tutto festoso, e parlandomi con più intimità prese fra le sue mani il mio
cuore, lo guardò e riguardò più volte, e dopo averlo ben bene esaminato e come
spolverato lo rimise al suo posto; indi prese una veste di una immensa
bellezza, che pareva come se avesse un fondo tutto di oro finissimo, screziato
a vari colori, e con questa mi vestì; prese ancora due preziose gemme, come se
fossero orecchini, ed ingemmò le mie orecchie; il collo e le braccia li ornò di
monili di oro e di gioie preziose, e dopo mi cinse la testa di una bellissima corona
d’immenso valore, arricchita di gioie le più preziose, risplendenti di vivissima
ed insolita luce. A me, poi, pareva che quelle luci producevano fra loro un
suono sì armonioso, che a chiare note facevano comprendere che parlassero della
bellezza, della potenza, della bontà, della carità e maestà di Dio, e di tutte
le virtù dell’umanità del mio sposo Gesù. Chi può dire, ora, ciò che io compresi
mentre l’anima mia nuotava in un mare immenso di consolazione? Ciò sarebbe del
tutto impossibile a dirsi. Passo perciò a dire ciò che mi diceva Gesù, mentre
mi cingeva la fronte: “Sposa dolcissima, questa corona di cui ti cingo la
fronte ti è data da me, acciocché nulla ti manchi per farti degna di essere mia
sposa; ma me la cederai dopo eseguito il nostro sposalizio, per ridartela in
cielo al punto della tua morte”.
Finalmente prese Gesù un velo,
con cui mi coprì dalla testa sino ai piedi, e cosi mi lasciò, nella
considerazione più profonda di me stessa, in quella di un tanto e sì prezioso
abbigliamento fatto da Gesù stesso alla mia miserabile persona, ed in ultimo,
in quella considerazione dei diversi significati concernenti ciascun ornamento
con cui Gesù volle abbigliarmi nella precedente notte del nostro mistico sposalizio.
In quanto alla mia persona, dico che non c’è stato mai un fatto ed esigenza
della mia vita che mi abbia fatto trovare in un episodio così stravagante, da
farmi sentire il grave peso che un Dio possa dare ad una creatura che si dica
amante del suo Dio. Oh, che effetto veramente strano non ebbe a soffrire allora
il mio spirito! Infatti, invece di sentirsi sublimato all’eccelso atto di Gesù,
compiuto sulla mia persona, avvenne tutto il contrario, in modo da farmi
toccare la nullità di me stessa. L’annichilamento che sentivo di me stessa fu
tale, che mi credetti fuori del mio proprio essere, in modo tale che mi venne
in mente essere veramente questo il morire; ed in questo annientamento ricorsi
al mio diletto Gesù, pregandolo che mi avesse usato novella sua misericordia,
giacché nella mia grande confusione non pensavo che era un Dio colui che
abbigliava di tanti preziosissimi monili l’ultima delle sue predilette ancelle,
alle quali non si addice non solo un tanto abbigliamento, ma ancora e soprattutto
che da servente nuziale faccia un Dio[48],
quel Dio al cui cenno tutte le creature obbediscono; e quindi lo supplicai che
mi avesse usata venia, nella sua misericordia.
In quanto, poi, al significato
che si racchiudeva in tanti abbigliamenti, presi ognuno separatamente, li passo
sotto silenzio, giacché poco ricordo dopo tanto tempo. Solo dico che il velo
col quale mi avvolse Gesù dalla testa ai piedi fu di spavento ai demoni, i
quali, mentre stavano alla vedetta di quanto Gesù operava sulla mia persona,
non appena mi videro ricoperta da quello, restarono talmente spaventati ed
impauriti che non ardirono, non solo di appressarsi a me, ma quanto che se ne
fuggirono atterriti per non più molestarmi, avendo perduto essi ogni audacia e
temerità.
Sono sempre da capo e al medesimo
ritornello, a dire che per quanto io trovi difficile mettere su carta tutto
quanto è passato tra Gesù e me, pure, volendo stare all’ingiunta obbedienza,
mi conviene vincere ogni ritrosia. Riprendo quindi il filo della narrazione
dell’abbigliamento della mia povera persona, eseguito nella vigilia della
purità di Maria Santissima dallo stesso mio amante Gesù, il che fu di gran
spavento e terrore ai demoni, i quali, atterriti, se ne fuggirono, mentre gli
angeli di Dio, presi nello stesso tempo da insolita venerazione verso di me, ed
in modo tale che io ne restai confusa e piena di rossore come se avessi
commesso qualche grande sregolatezza, si appressarono a me e mi tennero
compagnia e guardia fino al ritorno del mio amante Gesù. La mattina seguente,
dunque, Gesù tutto maestoso se ne venne a me con più insolita affabilità e
dolcezza insieme, con Maria Santissima e santa Caterina, e fece segno agli angeli
che cantassero un dolcissimo inno, tutto celestiale; e mentre questi cantavano,
santa Caterina mi si appressò per assistermi nella celebrazione delle mie
mistiche nozze con Gesù, mentre la mia dolce Mamma, Maria Santissima, facendomi
un dolce rincoramento, mi prese la mano per farmi mettere al dito, da Gesù, il
preziosissimo anello nuziale. Compiuto quest’atto, Gesù, con la più ineffabile
sua bontà, mi abbracciò e ribaciò più volte, e ciò lo fece fare ancora dalla
sua e mia Madre Santissima. Mi tenne quindi in un celestiale colloquio di
amore, in cui mi manifestò tutte le finezze ed attrattive di amore che egli sente
verso di me; ed io, immersa nella più grande confusione, considerando la nullità
del mio amore, gli dissi: “Gesù, ti amo, ti amo; tu lo sai quanto io ti amo”.
La Santissima Vergine mi fece,
indi, considerare e poi ben comprendere la straordinaria grazia che Gesù mi aveva
fatta, con unirmi indissolubilmente a lui, e mi esortò alla più tenera
corrispondenza di amore che dovevo avere verso il mio sempre amabile sposo
Gesù.
Finalmente, il mio sposo Gesù si
fece a darmi novelle regole di vita, per farmi vivere più intimamente [unita] a
lui, seguendolo più perfettamente [di quanto] non ho fatto per il tempo già
passato. Queste regole che mi furono date da Gesù, non mi è facile dir[le] bene
in modo tecnico, ma solo in succinto ed a seconda della mia applicazione e
dell’esercizio pratico che giornalmente, con la grazia di Dio, non è stato da
me mai omesso.
1) Dico, dunque, che Gesù innanzi
tutto m’ingiunse un distacco totale da tutto il creato e fin da me stessa,
quasi che dovessi vivere nel perfetto oblio di tutte le cose, per fare in modo
che il mio interno si disponesse ad aver sempre fisso il dolce ricordo di lui,
ed un affetto vivo e palpitante di amore verso di lui, affinché, compiacendosi
di tutti gli atti, formasse nel mio cuore stabile dimora. Fuori di lui - mi
disse - non dovevo conoscere più nessuno, né amici, e neppure me stessa; solo
in lui doveva risvegliarsi la rimembranza di tutto e di tutti, giacché in lui
non può non trovarsi la creatura; e per arrivare a ciò, aggiunse che dovevo
agire sempre con santa indifferenza e noncuranza di quanto potesse avvenire
intorno a me, cioè operare sempre rettamente e con la massima semplicità, non
tenendo conto del pro e del contro che potesse venirmi dalle creature. In
pratica, poi, se talvolta tutto ciò non facevo, il mio dolce Gesù,
riprendendomi severamente, mi diceva: “Se non giungerai al distacco effettivo,
non solo, ma affettivo ancora, non potrai essere tutta investita della mia
luce; ma se invece ti svestirai d’ogni affetto terreno, diverrai come un tersissimo
cristallo, che attraverso di sé fa passare la pienezza della luce; così la mia
divinità, che è luce, entrerà tutta in te”.
2) In secondo luogo mi disse che
io non dovevo più vivere in me stessa, ma sola e tutta in lui, vivendo cioè
distaccata da me stessa; dovevo aver sempre cura d’investirmi del vero spirito
di fede, mercé il quale dovevo procurare di conoscere sempre più me stessa, per
diffidare della mia propria capacità, ché non son buona a far nulla da me, e
conoscere sempre più il mio Gesù, per poter sempre più confidare in lui.
“E dopo che avrai conosciuto te
stessa e chi sono io - mi disse - in conseguenza avverrà che spesso spesso uscirai
fuori di te stessa, per tuffarti nel mare immenso della mia provvidenza. Tu
quindi, come una piccola sposa di cui lo sposo è tanto geloso che non vuole
permetterle di prendere il minimo piacere con altri, ti terrai sempre stretta a
me; e come quella se ne sta con la faccia sempre rivolta verso lo sposo, per
far che non possa dubitare di lei, così tu mi darai assoluto dominio su di te,
tanto se volessi vezzeggiarti, colmarti di carismi, di baci, di amore, come
pure se volessi batterti, affligger[ti] ed infliggerti qualsiasi pena. A tutto
dovrai assoggettarti per amor mio, sempre nella tua piena libertà, perché
avremo in comune pene e gioie; e faremo anzi a gara chi di noi due saprà
prendere più pene su di sé, per niun altro scopo che di piacerci e farci
contenti a vicenda”.
3) “In terzo luogo, non deve
stare in te la tua volontà, ma soltanto la mia, che dovrà stare e signoreggiare
come un re nel suo real palazzo; altrimenti si faranno tosto sentire i
disaccordi di un inetto amore, da cui si solleveranno fitte ombre che
getteranno in te quelle disarmonie e quella dissomiglianza di operare, non
voluta dalla comune nobiltà che deve assolutamente regnare tra me e te, mia
sposa; e questa nobiltà regnerà in te se di tanto in tanto cercherai di entrare
nel tuo nulla, cioè, se giungerai ad avere perfetta conoscenza di te, non per
fermarti qui, ma, conosciuta la tua nullità, dovrai far di tutto e quanto prima
[per] entrare nella infinita potenza della mia Volontà, da cui attingerai tutte
le grazie di cui avrai bisogno per sollevare te in me, per fare il tutto con me
senza tener conto di te, che del tutto voglio che scomparisca in me”.
4) “In quarto luogo, da ora
innanzi voglio che tra te e me non ci debba essere quel ‘tu’ ed ‘io’; quindi,
non più si dirà ‘farai tu’, ‘farò io’, ma ‘faremo noi’. Quel ‘tuo’ e ‘mio’ deve
ancora scomparire, ma di tutto si dirà ‘nostro’, giacché tu, come mia sposa
fedele, prenderai parte comune e guiderai le sorti del mondo. Tutti i redenti
del mio sangue son divenuti figli e fratelli miei, e come son miei, saranno ancora
figli e fratelli tuoi, i quali, come figli, saranno da te amati come da vera
madre. È vero che molte pene ci costeranno questi fratelli e figli, perché la
maggior parte son divenuti molto discoli, assai traviati, e molti ancora
licenziosi; ma tu prenderai come me le loro meritate pene su di te, ed a costo
dei più dolorosi sacrifici cercherai [di] metterli in salvo, facendo in modo
che me li condurrai al mio cuore, coperti dai meriti delle tue sofferte pene,
ed aspersi tutti del tuo e del mio sangue; in vista di cui, il mio Padre
celeste non solo userà loro misericordia e perdono, ma ancora, se saranno
perfettamente contriti, molti come il buon ladrone prenderanno presto presto
eterno possesso del paradiso.
Finalmente, [nella] misura che ti
distaccherai da tutto ciò che non è puramente mio, ti troverai sempre più immersa
nell’assoluta mia Volontà, in cui acquisterai la pienezza dell’amore mio, mercé
la conoscenza della mia Essenza, che di giorno in giorno si farà sempre più
viva in te; ed allora più che mai, come al riverberante riflesso della luce si
vedono in uno specchio le immagini, così in me troverai realmente ordinate
tutte le creature aventi spirito d’intelligenza e di amore, in modo tale che ad
un sol colpo d’occhio le vedrai tutte e conoscerai lo stato di coscienza di
ciascuna di loro, per cui tu, poi, come madre più che amorosa, nel vero spirito
di misericordia che è spirito mio e della Madre mia, farai il massimo sacrifizio,
immolandoti per esse; e questo sacrifizio sarà come un ammanto che tutta ti
coprirà, come mia vera imitatrice e fedele sposa”.
Chi può dire, ora, le finezze di
amore che il mio amabile Gesù mi ha prodigalmente, anzi eccessivamente, fatto
dal quel giorno in cui contrasse meco il mistico sposalizio e mi diede quelle
novelle regole di vita? Oh, quante volte e quante, trasportando la mia anima
con sé, lui mi ha fatto entrare in paradiso, per quindi udire i cantici dei
beati spiriti, che incessantemente inneggiano inni di gloria e di ringraziamento
alla Divina Maestà! Ed io ho contemplato in Dio i diversi cori degli angeli, i
diversi ordini dei santi, che sono tutti immersi nella divinità di Dio, il
quale nella sua immensità li ha quasi assorbiti ed immedesimati tutti in lui.
Mirando poi intorno al trono di Dio, mi pareva vedere tante risplendentissime
luci, infinitamente più risplendenti del sole, che facevano mirabilmente vedere
e comprendere tutti gli attributi e virtù di Dio, tutti inerenti alla sua
infinita Essenza, comune alle Tre Divine Persone. Compresi inoltre che i beati
spiriti, pur specchiandosi in tutte quelle luci, ora nell’assieme ed ora
passando successivamente dall’una all’altra, restano rapiti in quella e da
quella luce, ma non giungono mai a comprendere perfettamente Dio, perché è
tanta la maestà, l’immensità e la santità di Dio, che mente creata, per tutti
gli interminabili secoli dell’eternità, non arriverà a comprendere Dio, che è
per eccellenza l’Essere increato ed incomprensibile. Ora, da quanto vidi ed
appresi, dico che gli spiriti angelici ed i beati comprensori, specchiandosi in
quella luce, venivano a partecipare alle virtù di quelle[49].
Come noi, esposti nel pieno meriggio del sole, veniamo non solo investiti dai raggi
del medesimo, ma ancora riscaldati, così gli angeli e santi del paradiso, al
cospetto dell’eterno sole Dio, sono investiti dalla luce eterna, in guisa tale
che rassomigliano a Dio; con questa differenza, però: che tutto ciò che Dio
contiene in sé è essenzialmente suo per natura ed essenzialmente infinito,
mentre gli spiriti angelici e i beati comprensori hanno per partecipazione
tutto ciò che contengono ed in quantità limitata, e a seconda della propria
capacità.
Sicché Dio è l’infinito,
l’increato ed eterno sole, che tutto se stesso dà senza che venga a perdere
nulla di sé, mentre le creature vengono fatte partecipi di tutto, per cui
rassomigliano all’eterno sole, reso in loro sole di piccolissima mole o
grandezza. Per quanto però io abbia detto, sembrami d’aver detto tanti
spropositi, giacché ciò che si possa apprendere in quel beato soggiorno, non si
può assolutamente ripetere nella nostra limitata favella, e perciò si ha il
concetto, l’idea, ma mancano i vocaboli ed espressioni per dire realmente come
si ha appreso[50]
in sé la cosa. L’anima, quindi, se uscita dal corpo per poco viene trasportata
in quel beato regno, ritornando poi nel suo proprio carcere del corpo, le è
impossibile dire tutto ciò che ivi ha veduto e compreso; eppure nella mente ha
tutta l’impressione di ciò che ha percepito.
A me sembra che avvenga all’anima
- che abbia avuto in sé l’impronta di ciò che Iddio voglia farle comprendere,
nel tirarla nella patria celeste, per poco che facesse[51]
- quella impressione che può avere un bambino che appena sa balbettare, dopo
aver assistito ad un grande spettacolo teatrale; vorrebbe dire tante cose circa
le cose che più hanno fatto impressione nell’animo suo, ma non riuscendo a
dirne una, alfin, vergognandosi, resta tutt’affatto muto. Così io dovrei,
piuttosto, restarmene muta, perché non so dire altro che spropositi su
spropositi, se non fosse per l’ubbidienza che mi s’impone. Perciò continuo a
dire che alle volte mi trovavo in quella beata patria a passeggiare insieme a
Gesù, mio sposo diletto, in mezzo ai cori degli angeli e dei santi, e siccome
ero novella sposa, tutti uniti ci facevano corona, ci corteggiavano e
partecipavano nel tempo stesso alle gioie del nostro eseguito sposalizio. Mi
pareva allora come se mettessero quasi in oblio i loro contenti per occuparsi
dei nostri; e Gesù, mostrandomi ai santi, diceva loro: “Quest’anima è divenuta
un trionfo ed un portento del mio amore, mercé la sua corrispondenza alla mia
grazia”; e additandomi poi agli angeli diceva loro: “Vedete che tutto ha superato
il mio amore per lei”; quindi mi faceva mettere al seggio di gloria, di cui
Gesù mi aveva fatta degna, e mi diceva: “Ecco il tuo posto di gloria; nessuno
te lo potrà togliere”. Allora io credevo che stessi per non tornare più sulla
terra; ma, ahimè, mentre ero di ciò quasi convinta, ecco che ad un cenno di
Gesù mi ritrovavo, in meno che si dica, rinchiusa nel muro di questo corpo.
41 - Pena e
amarezza insopportabile di Luisa, nel dover vivere ancora nel carcere del
corpo, esiliata dalla patria celeste.
Chi può dire, ora, quanto penoso
riusciva al mio spirito il dover restare nel corpo, poiché tutte le cose
terrene, messe in confronto di quelle del cielo, parevano, anzi, mi davano la
sensazione di un vero marciume? E fin anche le cose che ad altri dilettano i
sensi, a me riuscivano tanto fastidiose e piene di amarezza; tanto che le
persone più care e più ragguardevoli, a cui chissà quante cortesie e gentilezze
avrebbero altri usate per farle trattenere in loro conversazione, a me
riuscivano non solo indifferenti, ma tediose. Ma il solo guardarle come
immagini di Dio me le faceva sopportare, benché l’anima non avesse provata la
benché minima ombra di soddisfazione e di contento. Ed è appunto per questo che
il mio cuore si era reso tanto inquieto ed irrequieto, che non facevo altro che
lamentarmi col mio Gesù, tra le continue ansie e desideri del cielo; e nel mio
interno provavo tale pena, tale amarezza e tale uggia delle cose di quaggiù,
che il tutto mi rodeva l’anima, in modo tale da credere impossibile poter
continuare a vivere quaggiù. L’ubbidienza però, stando a giorno di tutte le
cose mie, mi arginò e frenò così bene, con l’assoluto comando di non dover
desiderare più il morire, ma stare all’ubbidienza per quando lo avesse voluto
Iddio. E così feci, e per quanto era in poter mio, cercai allontanare dalla mia
mente anche il pensiero della morte, nonostante che nel mio interno si fosse impressa
una continua giaculatoria di ansie e desideri ardenti verso la patria celeste;
e perciò il mio cuore, vinto in gran parte dall’ubbidienza, si chetò, ma non
del tutto, giacché di tanto in tanto vi facevo delle scappatine; ed in questo,
confesso la verità, difettai non poco. Ma che potevo io fare, se mi riusciva
quasi impossibile frenarmi del tutto? Ed è perciò che riuscì per me quasi un
martirio vero quel continuo lottare, per usare ogni mezzo, affin di frenare le
mie ansie, ma che - ripeto - mi riusciva quasi impossibile.
Il mio amato Gesù, ancora, mi
diceva: “Sposa mia, quietati; qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?”.
Ed io: “Voglio stare sempre con te; non mi regge l’animo di stare più da te
separata, non solo per un giorno, ma neppure per un istante solo; a qualunque
costo perciò voglio venir teco”.
“Ebbene - mi diceva Gesù - se è
per questo, ti contenterò con lo starmi sempre con te”. Ed io a lui: “Se così
fosse, sì che mi contenterei, ma qui però tu ti fai perdere di vista, e quindi
è lo stesso come se mi lasciassi, mentre in cielo non è così, poiché là non
potrai mai eclissarti da me, poiché l’esperienza mi è una prova certa di quanto
dico”.
42 - Eroismo
di Luisa nell’accettare di ritornare nel suo corpo, sulla terra, lasciando il
cielo tante volte.
A chi non lo sappia, dirò che
Gesù sa ben scherzare con la creatura, come tante volte ha scherzato con me; ed
ecco come: mentre mi trovavo in queste benedette ansie, Gesù se ne veniva a me
tutto frettoloso, e mi diceva: “Vuoi adesso venir meco?”. Ed io: “Dove?”. Ed
egli: “Al cielo”. Ed io: “Me lo dici davvero?”. “Ma sì; fa presto - mi diceva -
non più indugiare”. “Ebbene, se è così, andiamo pure - rispondevo - benché tema
che tu abbia voglia di burlarmi”. E Gesù allora: “Ma no, ma no; te lo dico
davvero: andiamo, che voglio portarti meco”.
Sì dicendo, tirava l’anima a sé
in modo che me la sentivo uscire dal corpo, in men che si dica, e seguendo Gesù
prendevo il volo verso il cielo. Oh, come e quanto era contenta allora l’anima
mia; credevo che dovessi lasciare per sempre la terra, mentre un sogno mi
sembrava la vita trascorsa nel patire tollerato per amore di Gesù; e mentre si
arrivava al più alto dei cieli e già si sentiva il delizioso canto dei beati
comprensori, e sollecitavo Gesù che facesse presto ad introdurmi in quel beato
soggiorno, egli lentamente ne diminuiva la corsa per allungare il tempo. In
vista di ciò, nel mio interno cominciava il sospetto che non dovesse essere
vera l’entrata che dovevo fare con lui nella patria celeste; e fra me dicevo:
“Questo mi pare che sia uno scherzo di Gesù”; e per assicurarmi gli dicevo di
tanto in tanto: “Gesù caro, fa presto; perché ti sei rallentato nella corsa?”.
E lui: “Vedi, vedi là un
peccatore che sta per perdersi? Scendiamo un’altra volta in terra; andiamo a
far prova di ridurre quell’anima a penitenza; chissà che non si converta.
Preghiamo dunque assieme l’eterno mio Padre che gli usi misericordia; non vuoi
che quelli[52]
si salvi? Aspetta un altro poco in vita; non sei tu pronta a soffrire qualsiasi
pena per la salvezza di un’anima che mi costa tanto sangue?”.
Ed io, a queste parole di Gesù
dimenticavo me stessa, obliavo la corsa fatta verso il cielo, il canto
ascoltato dei celesti comprensori, e rispondevo a Gesù: “Sì, sì, qualunque cosa
tu vuoi son pronta a soffrire, purché salvi quell’anima”.
Allora Gesù, in un batter
d’occhio, mi faceva trovar con lui presso quel peccatore, e cercando ogni modo
per convertirlo, gli si metteva innanzi alla mente le più possenti ragioni per
la sua salvezza e per fare che si arrendesse alla grazia, ma vane purtroppo
riuscirono le nostre speranze.
Gesù allora, tutto afflitto, mi
diceva: “Sposa mia, vuoi tu prendere su di te le pene a lui dovute? Se tu entri
un’altra volta nel corpo per soffrire, la divina giustizia potrà placarsi, e
così gli potrò usare misericordia. Come hai già visto, le nostre parole non lo
hanno scosso punto, le ragioni neppure; non ci resta fare altro che soffrire le
pene a lui dovute, [le] quali sono i mezzi più potenti per soddisfare la divina
giustizia offesa e per far arrendere il peccatore alla grazia della sua
conversione”.
Così dicendo Gesù, e consentendo
io al suo dire, mi trovavo di nuovo nel corpo. Quali sofferenze sentissi, allorché
mi trovavo a contatto del mio corpo, mi è impossibile [dirle]; basta dire che
il corpo, come se non potesse più contenere il mio spirito, me lo sentivo
distendersi e dilatare tutto, mentre lo spirito, in pari tempo, si sentiva come
compresso, depresso e privo di vita, e quasi in atto di esalare l’anima; ma non
lo potevo. Solo Gesù mi era testimone di quanto io soffrivo allora, e potrebbe
dire quanto strazianti ed atroci pene tollerava l’anima ed il corpo mio. Ma
viva Dio, che dopo qualche giorno di sofferenze, Gesù mi faceva vedere quel
peccatore convertito, quell’anima già salva, e mi diceva: “Sei tu contenta
come lo sono io?”. Ed io: “Sì, sì”. Ma chi può dire quante volte Gesù ha
ripetuto meco questi scherzi? Talvolta mi faceva entrare in paradiso, e dopo
poco mi diceva: “Sposa mia, tu non ti sei ricordata di farti dare l’ubbidienza
dal confessore, per venirtene con me; ora fa d’uopo che vi ritorni al corpo per
prendere codesta ubbidienza”.
Ed io: “Ero certamente obbligata
ad ubbidire al confessore finché l’anima si trovava nel suo corpo ed ero sotto
la sua direzione, ma ora che sono con te sento il dovere di ubbidire solamente
a te, mio sposo, che sei veramente il primo fra tutti i confessori”. E Gesù,
placidamente: “No, no, sposa mia; voglio che tu ubbidisca al confessore”. E
così, ora per un pretesto, ed ora per un altro, mi ha fatto tante e poi tante
volte tornare di nuovo nel mio corpo.
Questi scherzi di Gesù, però, mi
riuscivano di un’amarezza tale, da essere presa da un certo che di risentimento
ed impertinenza, per la qual cosa non più così spesso Gesù me li rinnovò. Ed in
questo stato, continuamente penante in letto, e tra le alternative, ora di
ansia [di] volermene andare con Gesù, mio sposo, in paradiso, ora [di] desiderio
ardentissimo di volerlo tenere sempre meco in terra, ed ora per il ritorno che
faceva l’anima nell’immedesimarsi al mio povero corpo, fu continuo il mio
martirio.
43 - Gesù
prepara Luisa alla rinnovazione dello sposalizio mistico, in cielo, nella
sanzione della Santissima Trinità: le parla, quindi, delle virtù teologali. La
fede.
Finalmente una mattina, dopo il
periodo di questi tre anni, Gesù mi fece benignamente intendere che lo sposalizio
fatto meco in terra voleva ratificarlo nella sanzione del Padre e dello Spirito
Santo, al cospetto di tutta la corte celeste, e m’ingiunse quindi che io stessa
dovevo ben prepararmi ad una sì segnalata grazia; e dal canto mio feci quanto
era in mio potere per ben dispormi. Ma in verità, essendo io tanto miserabile
ed inetta a fare anche un’ombra di bene, con istanza continua supplicai
l’altissimo artefice, che egli stesso mettesse mano all’opera della più santa
purificazione dell’anima mia, altrimenti mai sarei riuscita a farlo come si
richiedeva da me. E questa grazia mi venne accordata nella vigilia della
natività di Maria Santissima[53];
ed ecco come: in quella mattina, il mio sempre amabile Gesù se ne venne tutto
premuroso, per dispormi egli stesso a quanto avevo richiesto; e non so perché
cominciò a fare un continuo via vai da me; ed infatti, frettolosamente veniva,
mi parlava della fede, e tosto mi lasciava sola. E mentre mi parlava, mi
sentivo infondere una tale vita di fede, che l’anima mia, così grossolana qual
era prima che avesse parlato Gesù, me la sentivo così semplicissima da poter penetrare
fino in Dio. E quindi, ora miravo la potenza, ora la santità, ora la bontà, ed
ora altro attributo divino. Resa così l’anima mia, dicevo in un mare di
stupore: “Onnipotente Iddio, quale onnipotenza innanzi a te non resta disfatta?
Santità eccelsa di Dio, quale altra santità, per quanto sublime essa sia,
ardirà comparire al tuo cospetto?”.
Discendendo poi a considerare la
mia miseria, e toccando il mio nulla e la nullità delle cose terrene, che dinanzi
a Dio sfuggono come ombra di nebbia alla raffica del vento, mi scorgevo appena
come piccolissimo microbo, avvolto da lievissima polvere, che per essere distrutto
e disfatto basterebbe la piccolissima opera di qualsiasi altro vermiciattolo.
Scorgendomi così, non ardivo più di trovarmi al cospetto della tremenda maestà
di Dio, ma la sua infinita bontà, come calamita, mi tirava a sé, e nella sua
infinita bontà, esclamava l’anima mia: “Oh, quanta santità, quanta potenza e quanta
misericordia si racchiude in Dio, il quale ci attira a sé con la sua
equivalente bontà!”. E dico questo, perché mentre mi pareva che la santità
tutto lo circondasse, che la potenza tutto lo sostenesse, che la misericordia
tutto lo commuovesse e che la bontà tutto lo animasse da dentro, da fuori lo
circondasse, alimentando la sua potenza e misericordia; considerando
singolarmente ciascun attributo, li trovavo tutti dello stesso valore, però del
tutto incomprensibili, immensurabili, ecc., a mente umana. Mentre mi trovavo
immersa in sì alta considerazione, tornava di nuovo il mio Gesù, e prendeva a
parlarmi della speranza cristiana, dicendomi dapprima: “Per ottenere la fede,
bisogna credere. Senza credenza non può darsi fede. Come in cima all’uomo vi è
il capo, che deve dirigere l’uomo in ogni sua operazione, così in cima di ogni
altra virtù c’è bisogno della fede che ordina tutto; ma come il capo senza il
senso della vista non potrebbe esimersi dalle tenebre e da ogni altra
confusione, in modo che se volesse dirigere qualsiasi operazione dell’uomo
nello stato di totale cecità, lo spingerebbe dove non lo avrebbe spinto se avesse
avuto la vista, così l’anima senza la fede non potrebbe fare altro che andare
di precipizio in precipizio. Ora, come la vista serve di guida all’uomo in ogni
sua operazione, così la fede all’anima è luce illuminativa, senza della quale
non si può percorrere la strada che mena alla vita eterna”.
Ora, per aversi la fede, fa
d’uopo aversi prima tre cose: il germe di fede, bontà dello stesso germe e
sviluppo del medesimo. Il germe viene a gettarsi in noi mercé la notizia che si
ha circa l’oggetto di fede, giacché non si può certo pensare ad una cosa se non
si abbia avuto prima, almeno, qualche conoscenza della medesima. La bontà del
germe di fede deve riporsi in chi getta in noi questo stesso germe, giacché
potrà essere vero germe di fede se sarà degna di fede la persona che ce lo dà;
falso germe, se venisse falsificato da chicchessia fin nella radice. Se poi
sorgesse in noi qualche incertezza dell’oggetto di cui ci dà[54]
notizia, oppure circa la non esatta notizia, deve tenersi come oggetto dubbio
di fede. Assicurato dunque del germe della fede e della bontà del medesimo, fa
mestieri[55]
che venga coltivato per farlo crescere e ben sviluppare sino alla maturità,
giacché allora cessa di essere oggetto di fede, quando si ha l’intima
persuasione della verità.
Dal mettere nella bontà del germe
della fede ogni sua fidanza ed ogni nostra industria che il germe cresca e
sempre più si sviluppi sino alla maturità, si viene a produrre in noi quella
virtù, sorella della fede, qual è la santa speranza di vedere raggiunto il
termine della fede e della stessa speranza, nell’oggetto di fede già conquistato.
Sicché io posso dire che la notizia di Dio getta in me il seme della fede; da
questo seme, ben coltivato, nasce, cresce e [si] sviluppa sempre più la luce
che si riproduce dal germe della fede. La luce della fede mi dà tutte le
particolarità di questo Dio, sommo mio bene; mi rivela la sua bontà,
l’attrattivo amore con cui mi chiama a sé per fruire di sé, mi fa vedere in
prospetto ancora tutti i benefizi che mi può fare. Sicché la notizia della sua
esistenza, per me fa il germe della fede; la fede crescente in me mi avvicina
sempre più a questo Ente Supremo, facendomi conoscere in parte la smisurata
eccellenza d’ogni suo attributo, chi egli sia in sé e fuori di sé, ed ancora
ciò che egli mi può dare, il che getta in me il seme della santa speranza; da
questo seme ancora, ben coltivato, verrà il possesso, perché chi fermamente
crede, spera ed opera, già possiede. La fede e la speranza operativa gettano il
germe dell’amore verso l’Ente sommamente benefico, e questo Ente, in ricambio,
fa nascere in noi il germe della carità cristiana, mercé la quale si diviene operanti,
simile all’Uomo-Dio.
Ora, rifacendomi da capo, dico
che Gesù, parlandomi della santa speranza, mi faceva comprendere che questa virtù
somministra all’anima una veste adamantina, per cui non solo si rende
invulnerabile agli strali scoccati dai suoi nemici, ma ancora imperturbabile a
qualsiasi evento, giacché tutto ciò che potrà avvenirle lo riceverà con
tranquillità d’animo, sapendo bene che il tutto è stato disposto da Dio, nostro
sommo bene. Oh, quanto è bello vedere quest’anima investita della bella virtù
della speranza, poiché, diffidando ella di se stessa, la si vede tutta fidente
ed appoggiata al suo diletto, per cui, sfidando i più fieri nemici, con la
massima semplicità e prudenza diviene regina delle[56]
sue passioni, giacché ha tutto ben ordinato nel suo interno, e con tale
maestria che Gesù stesso ne resta invaghito; ed allora, perché la vede operare
con ferma speranza in lui e quindi sempre più coraggiosa ed inviolabilmente
invitta e forte nel superare ogni ostacolo e cimento, le comunica novelle grazie,
aiuti e soccorsi.
Ora dico che mentre Gesù mi dava
lezione sulla speranza, comunicava altresì al mio intelletto una chiarissima
luce, ma subito si appartava, mentre io mi trovavo tutta immersa in questa luce
ed occupata a considerare quanto concerneva questa bella virtù. Ma chi può dire
ciò che di essa io comprendevo? Dirò solo che tutte le virtù servono ad
abbellire l’anima; non hanno però in sé quel germe, che nato e cresciuto si
avvinghia sempre più a Dio, e per cui la speranza dice all’anima: “Avvicinati
al tuo Dio, e sarai da lui illuminata; avvicinati a lui e sarai purificata,
ecc.”; e così la fede viene sempre più ad aumentarsi, la purità ad acquistare
quel candore tutto celestiale; senza di cui[57],
[l’anima] sarà vacillante nella fede ed incostante nelle altre virtù, mentre
seguendo la speranza nelle sue ascensioni spirituali, ogni virtù si rende
sempre ferma e stabile, come quegli alti monti che non possono muoversi dal
loro sito. A me sembra che l’anima investita della santa speranza si rende
immobile come monti altissimi, ai [quali] non nuoce né le intemperie dell’aria,
né gli ardori del sole, né i venti più impetuosi, né gli straripamenti di
laghi, mari e fiumi, cagionati da impetuosi alluvioni allo sciogliersi di
grandi masse di neve; ed inoltre, a quest’anima investita di speranza non nuoce
né la tribolazione, né la tentazione, né la povertà, né l’infermità, ed altri
incidenti della vita possono giungere a sgomentarla neppure per un istante
solo. Ed a se stessa ella dice: “Tutto posso tollerare, tutto soffrire ed
operare, fidente e sperante in Gesù”.
La santa speranza, dunque, rende
l’anima quasi onnipotente ed immobile, invincibile e quasi immutabile, giacché
il sempre amabile Gesù, in vista di essa, somministra all’anima la
perseveranza finale, sino a tanto che non abbia preso possesso dell’eterno
regno dei cieli; ed allora, deponendo l’anima ogni fede ed ogni speranza, tutta
si tuffa nell’immenso oceano del suo sommo ed eterno bene.
Mentre mi sperdevo e mi affogavo
nel mare immenso delle divine speranze, il mio diletto Gesù, facendosi da me rivedere,
mi parlava della carità, che è fra tutte la più eccellente, che deve con le
altre due virtù [affratellarsi] ed in modo tale da rendersi come una sola
virtù, mentre tra loro sono tre virtù distinte.
“Ed infatti, se per poco guardi e
consideri bene il fuoco, ne avrai subito una pallida idea di queste tre virtù unite
tra loro, poiché non appena che si venga ad accendere il fuoco, la prima cosa
che si presenta al nostro sguardo è la luce, che inonda di vivida luce tutto il
dintorno, la quale è simbolo della fede che io ho infuso nell’anima cristiana
mercé il santo battesimo. In secondo luogo, senti che si diffonde tutt’intorno,
unitamente alla luce, ancora il calore; ma poi, man mano che questa viene a
illanguidirsi, fin a quasi a spegnersi, senti che il calore che emana [questo]
fuoco acquista maggior vigore, fino a tanto che non si consuma tutto. Così è
delle tre virtù teologali: la fede si accende nell’anima alla prima notizia che
ella ha circa l’Ente Supremo; poscia cresce e si sviluppa, mercé l’ascensione
perenne che fa l’anima verso Dio, suo sommo bene, per cui viene ad acquistare
la luce intellettuale che espansivamente si effonde da ogni attributo divino
verso la sua creatura.
Questa creatura, illuminata da
tale splendore di viva fede, ambisce [l’acquistabile] dell’oggetto, il che le
dà fiducia di potersi procacciare un tanto bene, che è Dio; cerca, quindi,
d’investigare la via più idonea alla facilità di tanto acquisto e, tutta piena
di speranza, valica da mane a sera, da un monte all’altro, traversando ogni
valle ed estesissime pianure, traghetta laghi e fiumi, naviga per i più alti ed
immensi mari, per la durata di mesi ed anni, ad unico scopo di acquistarsi non
solo la benevolenza, ma il possesso ancora del suo Dio; e questa brama operativa
di pervenire al possesso di Dio viene appellata amore, congiunto alle due
sorelle fede e speranza. Eccoti, o mia diletta sposa, che nelle tre virtù
teologali, fede, speranza e carità, ti ho adombrata la Trinità delle Divine
Persone, di cui tu, presto e senza dubbio, farai perenne acquisto, col
procurarci in te stabile e perpetua dimora”.
Dopo [un] intervallo di pochi
minuti, il mio sempre amabile Gesù si fece vedere di nuovo, e proseguì a dirmi:
“Sposa mia, se la fede è luce e serve di vista all’anima, la speranza è
l’alimento della fede e somministra all’anima quella energia e brama ardente
di conquistare quei beni che sono in prospetto della fede, ed in più dà
all’anima il coraggio di affrontare ardue imprese, ma sempre con tranquillità
di spirito e con perfetta pace [l’anima] si rende perseverante nel perlustrare
ogni via e mezzo adatto che le possa dare buona riuscita. La carità, poi, è la
sostanza da cui emerge la luce e l’alimento della fede, senza della quale non
si potrebbe avere né fede né speranza, come a pari, senza del fuoco non si
potrebbe avere né la luce né calore. Ed essa, come unguento lenitivo si espande
e penetra per ogni dove, recando ad effetto di maturità le brame della speranza
e le vedute della fede, giacché nelle dolcezze del suo amore rende balsamico e
dolce il patire, e tanto da far giungere l’anima all’avidità di [questo]
patire”.
L’anima, dunque, che possiede la
vera carità, operando ella nell’amore e per l’amore di Dio, diffonde attorno a
sé quell’odore celestiale che ha attinto dallo stesso Dio, in modo che se
tutte le virtù rendono l’anima quasi solitaria e rustica, la carità, essendo
sostanza emanante luce, calore e odore soavissimo, non solo infonde in tutti, come
unguento balsamico, gli effetti più che aromatici, ma unisce, anzi, fonde i
cuori, mercé l’immenso amore che ella ha verso Dio. È [questo] che fa soffrire
con gioia i più acuti tormenti, tanto che l’anima che si trasforma tutta
nell’amore, giunge sino a non poter più vivere senza del nudo patire, e quindi
ad esclamare quando ne è priva: ‘O mio sposo Gesù, sostienimi coi fiori,
stivami con l’acerbità dei pomi, cioè del patire, giacché l’anima mia languisce
vieppiù per te e non posso soddisfarla se non nel dolce tuo patire! Deh, dammi,
Gesù, maggiormente l’aspro tuo patire, giacché più non regge il mio core, a
vederti tanto soffrire per la veemenza d’amore, che sostiene il tuo cuore per
nostro amore!’. E Gesù a me: “La carità mia è fuoco che brucia e che consuma, e
quando si appiglia a qualche anima tutto fa ella: mette in non cale le stesse
virtù, giacché tutte le converte e le stiva intimamente a sé, in modo da
rendersi regina di tutte le virtù, regnando e signoreggiando su tutte, e non
mai può indursi a cedere ad altre la supremazia”.
Chi può dire ciò che tenne dietro
a[58]
quelle dolci ed attrattive parole di Gesù? Solo posso dire che in me si accese
tale brama di patire da rendersi, direi, quasi naturale l’agognare qualsiasi
pena e sofferenza, tanto che d’allora in poi ritenni come la più grande
sventura l’esserne priva. Dopo che io feci le solite riflessioni su quanto mi
fu detto da Gesù, si fece egli di nuovo da me vedere e sentire, dicendomi:
“Sposa mia, ora fa bisogno che tu abbia quella predisposizione e prevalenza di
animo, che ti faccia maggiormente toccare e aderire all’annientamento di te
stessa; questo deve precedere quel grande ed incentivo desiderio che hai di
voler sempre più patire. Sappi che l’annientamento di te stessa ti fa meritare
non solo la grazia del patire, ma dispone l’anima a saper tutto ben patire, in
tutto ciò che potrà toccarla molto da vicino. Oltre a ciò, il desiderio di
patire supplisce al vero e reale patire, ed in mancanza di questo,
l’annientamento di te stessa ti servirà di penoso ammanto, che supplirà a
qualsiasi più alto e più aspro patire”.
Finalmente, mentre me ne stavo
considerando dapprima quel parlare dolce di Gesù, che infonde nell’anima molto
più di quella verità che manifesta a parole, mi eccitavo quindi con ardenti
brame di ricevere la grazia di potermi rendere tutta, tutta sua, ed a seconda
della sua Volontà, egli ritornò, ed in men che si dica mi tirò fuori di me
stessa, e l’anima mia, seguendo le attrattive deliziose del suo amore, superava
appresso a lui qualsiasi difficoltà che s’incontra nell’attraversare i cieli, e
quasi senza accorgersi dell’eseguito tragitto dalla terra, si trovò in
paradiso, al cospetto della Santissima Trinità e di tutta la corte celeste, per
indi procedere alla rinnovazione del mistico sposalizio eseguito già in terra
tra Gesù e l’anima mia nel giorno della purità della Vergine Maria, sua Madre,
la quale, unita a santa Caterina, assistette a quella prima cerimonia. Invece
ora, festa della natività della stessa Santissima Vergine, undici mesi dopo,
Gesù vuole che si abbia la sanzione delle Tre Divine Persone, e perciò mise
fuori un anello fregiato da tre preziosissime pietre, di cui la prima bianca,
la seconda rossa, la terza verde; poscia lo consegnò al Padre, che lo benedisse
e poi lo restituì all’Unigenito suo Figlio, e mentre lo Spirito Santo mi teneva
la mano destra, Gesù mise al mio dito anulare il suddetto anello, e subito dopo
fui ammessa al bacio delle Tre Divine Persone, le quali, una dopo l’altra,
m’impartirono una speciale benedizione. Chi potrebbe dire la confusione che
provai, sia quando mi trovai al cospetto della Santissima Trinità, che durante
l’effettuazione della suddetta cerimonia? Dico soltanto che il trovarmi al
cospetto della Trinità ed il cadere bocconi a terra fu un atto solo, e sarei
rimasta così prostrata chissà quanto, se il mio Gesù, sposo dell’anima mia, non
mi avesse incoraggiata a rialzarmi ed a recarmi dritta alla loro presenza; il
che, se procurava da un canto il massimo giubilo e contentezza al mio cuore, da
[un] altro mi sentivo come schiacciata ed annientata dinanzi a tanta maestà,
[la] quale m’incuteva riverenziale timore e gioia ineffabile ed inesprimibile,
nella eterna luce che emanava l’Essenza e santità di Dio Padre, Figliolo e
Spirito Santo.
Delle altre cose mi conviene far
silenzio, per non dire altri spropositi, più di quanti ne ho detti finora, giacché
il nostro umano linguaggio non ha vocaboli capaci a far comprendere, sia con la
parola che con gli scritti, tutte le impressioni divine che toccarono l’anima
mia.
48 –
L’inabitazione delle Tre Divine Persone nell’anima, di cui prendono possesso e
alla quale si danno in possesso. Fu allora che fecero a Luisa il dono del Divin
Volere.
Passo, quindi, a narrare ciò che
seguì al ritorno della mia anima nel corpo, il quale mi tenne quasi del tutto
nell’attrattiva virtuale di quanto era avvenuto in me, e come morta sentivo
tanti dolori e pene che mi facevano quasi presagire prossima la mia morte. Se
non che Gesù, dopo pochi giorni, mi fece riavere del tutto; e ricordo che nel
fare la comunione, facendomi perdere i sensi del corpo, con le potenze
dell’anima mi avvidi essere dinanzi a me la Santissima Trinità come la vidi nel
cielo, e subito le potenze dell’anima si prostrarono ad adorarla, facendomi
confessare il mio proprio nulla, giacché mi sentii allora talmente sprofondata
in me stessa, che non ardivo balbettare nemmeno una parola, quando una voce di
mezzo a loro si fece a dirmi: “Fatti coraggio; non temere. Siamo per
confermarti nostra e prendere totale possesso del tuo cuore”. Mentre sentivo
questa voce, vidi la Santissima Trinità che entrava in me e s’impossessava
del mio cuore, dicendomi: “Eccoti che nel tuo cuore formiamo la stabile e
perenne dimora nostra”.
Quale fu il cambiamento che
avvenne in me, non saprei spiegarlo, perché mi sentivo come divinizzata, non
vivente più io in me, ma bensì Loro vivevano in me ed io in Loro, tanto che a
me parve come [se] il mio corpo divenisse allora abitazione del Dio vivente in
me, e sentivo quindi la reale presenza delle Tre Divine Persone, che sensibilmente
agivano nel mio interno[59];
sentivo la loro voce che uscendo fuor di me si [ri]percuoteva chiara e sonora
al mio udito. E tutto ciò avveniva precisamente come quando vi sono persone in
una stanza attigua ad un’altra, da cui si sente chiaramente tutto ciò che esse
dicono fra loro, sia per la prossimità del luogo, sia per le voci che, sonore,
si fanno sentire al di fuori della propria stanza. Fu allora che il mio diletto
Gesù si fece a dirmi che io dovevo cercare sempre lui in ogni bisogno, non altrove
e non fuori di me, ma sempre dentro di me, anzi nell’intimo del cuore; e
difatti, d’allora in poi l’ho sempre cercato nel mio cuore e l’ho trovato; ed
altre volte ancora, essendo uscito fuor di me, nel chiamarlo mi ha tosto
risposto e svelatamente parlato, come possono parlare fra loro due persone.
Devo però confessare che talvolta egli si è nascosto talmente in me da non farsi
più sentire, ed allora, dopo averlo invocato e cercato per qualche tempo, non
sentendolo in me né muoversi né pronunciare parola, mi son fatta ardita di
girare cielo, terra e mare, per andare in cerca di lui; ma mentre, talvolta, mi
trovavo nella foga della corsa, ed altre volte nella foga delle lacrime per
l’intensità delle brame, e nelle pene le più inenarrabili per averlo perduto,
Gesù ha fatto sentire la sua voce nel mio interno: “Io sto qui con te, non mi
cercare altrove; sono in te a riposare, ma veglio su te”.
Ed io, tra la meraviglia ed il
contento di sentirlo dentro di me, gli dicevo: “Gesù, mio bene, come mai questa
mattina mi hai fatto girare e rigirare cielo, terra e mare, a fine di
ritrovarti, mentre te ne stavi dentro di me? Perché non mi hai detto almeno
‘sono qui’, che io non mi sarei tanto e poi tanto affaticata nel cercarti dove
non eri? Vedi, dolce mio bene, cara mia vita, vedi un po’ come sono stanca, non
ho più forza, mi sento venir meno… ; deh, sostienimi fra le tue braccia, che mi
sento morire!”.
Gesù, allora, tutto carità, mi
sollevava, prendendomi fra le sue braccia, per farmi qualche volta riposare, ma
in ogni modo mi restituiva le forze perdute. Altre volte, poi, mentre Gesù se
ne stava così nascosto in me ed io nel bisogno lo cercavo, lui si faceva vedere
dentro di me e poi usciva da dentro il mio cuore; ma nell’atto di uscire, non
più Gesù, ma tutte e Tre le Divine Persone, svelatamente io vedevo, ed ora in
forma di tre graziosissimi bambini, ora un solo corpo con tre teste distinte,
ma di una stessa bellezza unica e al[60]
tutto attraente… Chi può dire, ora, il mio contento, specialmente quando questi
tre bambini si facevano stringere fra le mie braccia? Io baciavo ora l’uno, ora
l’altro, e questi mi ricambiavano dei loro baci; e poi, uno si appoggiava alla
mia spalla destra, l’altro alla sinistra, ed il terzo mi si metteva di fronte.
Mentre io così mi beavo di loro, tra la più grande ammirazione e meraviglia che
si possa mai dare alla creatura dal suo Dio, veniva ad accrescere la mia meraviglia
vedere che mentre miravo l’uno, miravo in quest’uno tre, e viceversa:
guardando tutti e tre, se ne formava uno. L’altra meraviglia era, poi,
nell’atto che, mentre tenevo uno fra le mie braccia, o tutti e tre insieme,
sentivo sempre il medesimo peso, giacché tanto di peso sentivo nel tenere uno quanto
a tenerli tutti e tre insieme; e di più sentivo tanto amore per ciascuno di loro,
quanto verso tutti e tre, e tanto mi attirava a sé ciascuno separatamente,
quanto mi attirano tutti e tre insieme. Uno era il modo di attrazione, poiché
come era quello dell’uno, era quello dell’altro... Ed ora che le cose che, non
per dire[61],
avrei dovuto passare sotto silenzio, giacché ne ho dette molte ed a lungo, non
posso non ubbidire a chi prese a dirigere l’anima mia, e continuo.
Ritornando ora daccapo, dirò che
mentre Gesù si benignava di parlarmi spesso della sua passione, cercava predisporre
l’anima mia all’imitazione della sua vita, dicendomi: “Sposa mia, oltre allo
sposalizio già compiuto, ci resta ora da fare un altro, appellato sposalizio
della croce. Sappi che le virtù allora si rendono dolci ed amabili, quando
vengono avvalorate e fortificate nell’innesto della croce. Prima della mia
venuta in terra, le pene, gli obbrobri, i dolori, la povertà, la malattia ed
ogni specialità di croci, erano tenute in conto di una vera confusione ed
infamia, ma dacché furono sofferte da me, tutte vennero ad essere santificate e
divinizzate dal mio contatto, sicché cambiarono aspetto, in quanto che si resero
dolci e gradite, e l’anima che ha il bene di averne qualcuna si stima più che
onorata, e questo avviene perché ha ricevuto la mia divisa, rendendosi così
figliuola di Dio. Sperimenta invece il contrario chi guarda e si ferma nella corteccia
della croce, che trovandola molto amara, ne prende disgusto e ne dà lamento,
giacché la riceve come se le fosse data a torto; ma chi vi ha penetrato dentro,
trovandola molto gustosa e salutare, forma in lei la sua felicità. Sposa mia,
non altro io bramo che di crocifiggerti quanto prima, sia nell’anima che nel
corpo”.
Mentre Gesù così parlava, io [mi]
sentivo infondere tale brama di essere con lui crocifissa, che spesso spesso andavo
ripetendo: “Gesù mio, amor mio, fa presto a crocifiggermi teco”. E quando egli
tornava, la prima domanda che gli facevo e che ritenevo più importante, era
circa le pene e i dolori dei miei peccati e la grazia di essere crocifissa con
lui; e mi sembrava che, ottenendo questo, avrei potuto stimarmi quanto mai
soddisfatta, perché credevo che con ciò avrei ottenuto tutto.
Una mattina, finalmente, il mio
amatissimo Gesù si presentò a me dinanzi, in forma di crocifisso, e mi disse
che voleva veramente crocifiggermi con lui; e mentre ciò diceva, io vidi che
dalle sue sacratissime piaghe uscivano raggi di luce, in cui si scorgevano i
chiodi, che si dirigevano verso di me; ed in quel mentre era tanto il desiderio
perché Gesù mi crocifiggesse, che mi sentivo tutta consumare dall’amore del
patire, ma però in quel momento fui sorpresa da un grande timore che mi fece
tremare da capo a piè, e cominciare indi a sentire tale annientamento di me
stessa, che mi credetti del tutto indegna di ricevere sì rara grazia, per cui
non osavo più dire: “Signore, crocifiggimi teco”.
Gesù, intanto, pareva che
attendesse il mio consenso per comunicarmi sì segnalata grazia, ed in questo conflitto
la durai un pezzo; ma mentre nell’intimo dell’anima mi faceva sentire sì
grande ed ardente desiderio di chiedere tale grazia, dall’altra sentivo tutta
la mia indegnità, e la natura fremente, tremante e spaventata, si arrestava dal
domandare a Gesù di essere crocifissa. E mentre ero in questo stato d’animo, il
mio diletto Gesù intellettualmente m’incitava ad accettare tale grazia, tanto
che conoscendo allora il suo Volere, mi feci animo a dirgli: “Sposo santo e
crocifisso amor mio, deh, ti prego, che mi voglia al fine concedere la grazia
di essere anch’io crocifissa con te; e nel tempo stesso ti prego che non faccia
comparire esteriormente alcun segno della grazia che mi fai. Sì, dammi presto
ogni tua sofferenza e dolore, dammi le tue piaghe, ma che tutto ciò che possa
avvenire su di me sia ad altri nascosto, ma solo noto tra te e me”.
E così la grazia chiesta mi fu
accordata; e tosto quei raggi di luce, assieme ai chiodi, si spiccarono da Gesù
crocifisso e vennero a ferire me, trapassandomi mani e piedi, mentre un altro
raggio di luce più risplendente, assieme ad una lancia, venne a trapassarmi il
cuore. Chi potrebbe dire il mio grande contento e dolore insieme, sopra ogni
altro dolore, che provai in quel fortunato momento? Per quanto grande fu il
timore e tremore che mi aveva invasa poco prima l’anima, altrettanto fu grande
la pace, il contento ed il dolore che provai; e quest’ultimo fu tanto acuto,
che io mi sentivo nelle mani, nei piedi e nel cuore, da farmi presentire già
prossima la morte. Le ossa delle mani e dei piedi me le sentii frangere in minutissimi
pezzi, giacché sperimentavo l’azione del chiodo dentro a ciascuna ferita; non
posso però non asserire ancora che tali piaghe mi procuravano sì dolce contento
da non saperlo esprimere a parole, e la mia meraviglia si fece vivissima nel
sentirmi comunicare tale energia e forza che, mentre per il dolore mi sentivo
morire, venivo dallo stesso dolore sostenuta ed invigorita in tal modo da non
farmi morire. E di più, mentre esteriormente niente compariva, corporalmente
sentivo i più spasimanti dolori; ed allorché venne il confessore per chiamarmi
all’obbedienza, e dovette quindi sciogliermi le braccia che per l’attrazione
dei nervi erano impietrite, provai dolori mortali in quei punti dove i raggi
di luce insieme ai chiodi e [alla] lancia mi avevano toccata. E questi[62]
per obbedienza comandò che cessassero subito; ed infatti, mentre questi[63]
erano tanto acuti da farmi totalmente smarrire i sensi, all’istante si
mitigarono di molto.
O prodigio della santa
obbedienza, tu sei stata tutto per me! Oh, quante volte non mi sono trovata in
contrastabile conflitto con la nostra sorella morte, e l’obbedienza, facendomi
calmare l’atrocità d’ogni spasimo e dolore di morte, mi restituiva tosto la
vita; e dico francamente che se questi [dolori], all’obbedienza del confessore
non si fossero mitigati alquanto, difficilmente mi sarei assoggettata
all’autorità di esso. Ma sia sempre benedetto il Signore, che tale potestà concesse
ai suoi ministri, di far sottrarre anche dalla morte la sua preda. Perciò mi
auguro che tutto sia stato di sua maggior gloria e di salvezza delle anime.
Devo ancora far notare che,
allorché uscivo dal mio mortale assopimento, dei suddetti segni nulla più si
vedeva sul mio corpo, mentre tornando ad assopirmi vedevo chiaramente impresse
le piaghe del mio Gesù, per cui mi sembrava come se le piaghe di Gesù
crocifisso si fossero come incastonate nelle mie mani, piedi e cuore, in tal modo
da farmele vedere come se fossero quelle stesse del mio Gesù. Di quanto ho
detto sin qui, non riguarda altro che lo sposalizio di croce e delle pene che
soffrii nella prima crocifissione, perché delle altre sopportate nel corso
degli anni seguenti sono tali e tante, che mi sarebbe impossibile numerarle
tutte; ma giacché si vuole che metta qualcosa su carta, dirò alla men peggio le
più principali e che più mi toccarono da vicino, in riguardo alle su accennate
crocifissioni sopportate sino al 1899.
Innanzi tutto, però, è da notarsi
che ogniqualvolta Gesù tornava dopo avermi fatta soffrire la crocifissione, ripetutamente
io gli dicevo: “Mio diletto Gesù, deh, dammi il vero dolore dei miei peccati, affinché
consumati dal dolore e pentimento di averti offeso, possano essere cancellati
dall’anima mia ed anche dalla tua memoria. Sì, mio bene, dammi tanto dolore per
quanta arditezza v’è stata in me nell’offenderti; anzi, fa che il dolore superi
ogni affetto nutrito per il peccato, affinché eliminato, anzi distrutto dal
dolore, possa io più intimamente stringermi a te”. E Gesù, mentre una volta gli
chiedevo tale grazia, benignamente mi disse: “Giacché tanto ti dispiace
d’avermi offeso, voglio io stesso disporti al dolore. Così potrai comprendere
la bruttezza del peccato e l’acerbità del dolore che reca al mio cuore. Perciò
fa di dire insieme con me queste parole: “Se io trapasso il mare, nel mare
sempre tu sei, sebbene non ti vedo; calpesto la terra e tu mi stai sotto i miei
piedi; peccai”. E Gesù, sottovoce, quasi piangendo, soggiunse: “Eppure ti amai,
e nello stesso tempo ti conservai”.
Mentre Gesù mi suggeriva le dette
parole, venivo a comprendere tante cose che mi è impossibile ridire tutto… Dico
solo che prima d’ogni altro compresi l’immensità, la grandezza e la presenza
di Dio in ogni cosa, e che mercé questo suo attributo non sfugge a lui nemmeno
l’ombra del nostro pensiero; e di più, [compresi] il mio nulla, che messo a confronto
di una maestà sì grande e sì santa, si riduce [a] meno che ombra.
Nella parola ‘peccai’, compresi
la bruttezza del peccato e la mia malizia e temerità, per l’enorme affronto fattogli
col posporlo alla soddisfazione di un momento; quindi fui presa da sì veemente
dolore nel sentirmi quelle parole: “Eppure ti amai e conservai”, che mi sentii
morire, poiché mi fece egli comprendere l’immenso amore che mi portava, anche
nell’atto stesso in cui lo mettevo al disotto di un lieve piacere, per cui
l’offendevo e quasi uccidevo. Ah, Signore, per quanto sei stato buono con me,
altrettanto ingrata e cattiva sono stata io per te! Deh, muoviti a pietà di me,
col farmi sempre sentire tanto dolore dei miei peccati, per quanto è stato, è
e sarà sempre, il tuo amore verso di me!
51 - Luisa
ottiene col suo patire che un uomo ucciso non si dannasse, e non solo, ma che
restasse in vita.
Dal momento che il mio
amabilissimo Gesù mi fece ben comprendere quanta malizia v’è in chi commette il
peccato, e quanta malizia ed arditezza vi racchiude in sé chi osa stimar Iddio
meno di un vilissimo piacere, non solo mi guardavo dal commettere qualsiasi
minimo difetto, ma paventavo ancora l’ombra del peccato che involontariamente
avesse potuto menomamente affacciarsi alla mia mente. In quanto poi a quelli
commessi per il passato, sentivo tale ribrezzo e rossore, da farmi credere, fra
tutti, la più scellerata, in modo che d’allora non facevo altro, quando mi
compariva il mio Gesù, che chiedergli sempre più dolore dei miei peccati e
l’attuazione della crocifissione promessami. Ed una mattina, mentre si faceva
sentire sempre viva in me la brama di voler sempre più patire, venne
l’amabilissimo Gesù, e tirandomi fuori di me stessa, trasportò l’anima mia a
far vedere un uomo che veniva ucciso a colpi di rivoltella e già era per esalare
l’anima sua, il quale stava per divenire preda dell’inferno. Allora Gesù, nella
sua più profonda mestizia, mi fece compenetrare in tal modo in sé, sino a farmi
comprendere l’acerbissimo schianto del suo cuore per la perdita di quell’anima.
Oh, se il mondo conoscesse quanto soffre Gesù per la perdita eterna delle
anime, son sicura che gli uomini, per risparmiare almeno a Gesù quel sì
straziante dolore, userebbero tutti i mezzi possibili per non andare
eternamente perduti! Ora, mentre con Gesù mi trovavo in mezzo a quella esplosione
di palle, egli mi si strinse maggiormente d’appresso e mi sussurrò
all’orecchio: “Sposa mia, non vuoi tu offrirti vittima per la salvezza di
quest’anima e prendere su di te le pene che merita costui per i suoi gravissimi
peccati?”.
Ed io: “Ben volentieri, mio Gesù,
prendo su di me tutto ciò che egli ha meritato, a patto però che tu lo salvi e
gli restituisca la vita”. Sì dicendo, Gesù mi fece tornare nel corpo, e mi
sentii immersa in tali e tante sofferenze, che io stessa non so come potetti
ancora sopravvivere. Mi trovavo intanto da più di un’ora in questo stato di sofferenze,
quando il mio Gesù permise che venisse il confessore a chiamarmi all’obbedienza
e farmi riavere, ma trovandomi tanto sofferente, stentatamente potette ottenere
di essere ubbidito; e domandata da lui la causa di tante sofferenze, gli narrai
tutto ciò che poc’anzi avevo visto, indicandogli di più il punto del paese in
cui era avvenuto l’omicidio; e questi, a sua volta confermò l’omicidio,
accaduto proprio nel luogo da me indicato, ed aggiunse che tutti lo ritenevano
come morto. Io però gli dissi che non poteva ritenersi per morto, dal momento
che Gesù mi ha promesso non solo di salvargli l’anima, ma quanto che lo
manterrà in vita; e tanto vero che per ottenere ciò ho dovuto molto lavorare
con la grazia del Signore a non far uscire il suo spirito dal corpo. Si venne
infatti poi a sapere che, per quanto lo si era ritenuto da tutti per morto,
cominciando indi a riaversi, a poco a poco si rimise in salute, e tanto che
vive tuttora. Sia sempre benedetto il Signore.
Ritornando ora alle ardenti brame
che sentivo, di essere crocifissa con Gesù, e ciò per amore verso del mio sommo
bene, e per espiazione e riparazione del mio passato, Gesù se ne venne da me,
facendomi di nuovo uscire come altre volte fuori di me stessa; trasportò
l’anima mia sino ai luoghi santi dove egli patì la sua dolorosa passione, e
girando per quei santi luoghi ci si fecero innanzi alla vista molte croci, ed
il mio diletto Gesù mi disse: “Sposa mia, se tutti sapessero che bene
inapprezzabile contiene in sé la croce, e come rende l’anima preziosa, tutti
indispensabilmente la agognerebbero, poiché chi ha il bene di possederla si
acquista con essa una gemma d’inestimabile valore. Basta solamente dirti che
io, venendo dal cielo in terra, non scelsi le ricchezze e i piaceri della vita,
ma bensì ebbi come più care ed intime sorelle la croce, la povertà, le
ignominie ed il più crudo patire, tanto che a vista di esse ho sempre
ardentemente desiderato che presto si appressasse il tempo della mia passione e
morte di croce, giacché in questa io riposi la salvezza delle anime”.
Mentre Gesù così parlava, mi
faceva provare tutto il gusto e gioia insieme, che egli ebbe a partecipare nel
suo patire, ed in modo tale che le sue parole m’infiammarono il cuore di
desiderio sì ardentissimo di patire e di sì santo trasporto e brama insieme,
perché mi rendesse al più presto simile a lui crocifisso; per cui cercai con
quanta voce e forza contenevo in me, di supplicarlo così: “Deh, sposo santo,
dammi il patire, dammi la tua croce, acciò possa conoscere meglio quanto mi
ami, che altrimenti sarò sempre a vivere nell’incertezza se il tuo amore sia
tutto per me, che ho [rinunciato] a tutto per te”.
Allora Gesù, compiacendosi più
che mai delle mie suppliche, permise che mi distendessi su di una di quelle
croci già vedute, e quando fui ben distesa lo supplicai che fosse venuto a
crocifiggermi; ed egli amorevolmente prese un chiodo e cominciò a trapassare
con quello la mia mano, e di tanto in tanto mi domandava: “Che, ti duole assai?
Vuoi che non continui?”.
“No, no, dilettissimo, continua;
benché mi dolga, son pur contenta che tu mi crocifigga”. Ma nello stesso momento
ebbi quasi un presentimento che Gesù non avesse più a continuare, per cui mi
feci a dirgli: “Gesù, Gesù, fa presto, fa presto, non la prendere così per le
lunghe!”. E così avvenne, poiché quando egli prese ad inchiodarmi l’altra mano,
le braccia della croce si raccorciarono, mentre prima erano adatte all’uopo; e
così Gesù mi schiodò l’altra mano e mi disse: “Sposa mia, fa bisogno di trovare
altra croce; perciò alzati e rinfrancati per ora”. Come descrivere, ora, la
mortificazione che provai in me? Fu tanta che nella mia più grande confusione
esclamai: “Ah, sì! Non sono ancora degna d’un tanto patire…!”. E dire che
questi scherzi si ripetettero per parecchie volte, in modo che se talvolta le
braccia della croce erano adatte, disadatta era la lunghezza della stessa, mentre
altre volte faceva sì che mancasse qualche cosa necessaria al compimento della
mia crocifissione. Insomma, per non crocifiggermi Gesù trovava sempre qualche
pretesto, per rimandarla ad altro tempo. Oh, quanta amarezza non ha provato
l’anima mia in questi ripetuti contrasti col mio Gesù, e quante volte non mi
sono giustamente lamentata con lui, perché mi negava tutto il vero suo patire;
per cui spesse volte, e con l’animo più che mai amareggiato, gli dicevo:
“Diletto mio, a quel che pare, il tutto finisce in burla! Ed infatti, mi dicesti
che mi avresti portata una volta per sempre in cielo, e tante volte mi hai
fatta ritornare alla terra per abitare questo corpo. Mi dicesti ancora che
amavi crocifiggermi, per far che mi rassomigliassi a te, eppure mai mi fai
giungere alla completa crocifissione!”.
E Gesù: “Si farà, si farà presto;
non dubitar di me, che si farà”.
53 - I Pregi
della croce. Al posto della croce avuta finora, Luisa ne riceve un’altra assai
più grande.
Finalmente una mattina, nel giorno
dell’esaltazione della croce[64],
venne Gesù, e tutto frettoloso mi trasportò di nuovo nei luoghi santi di
Gerusalemme, e dopo avermi fatto considerare tante cose concernenti il mistero
e le virtù della croce, si fece affabilmente a dirmi: “Vuoi tu, diletta mia,
essere tutta bella? Contempla la croce, che essa ti darà i lineamenti più belli
che si possono trovare e in cielo e in terra, tanto da far innamorare Iddio,
che pure in sé contiene tutte le infinite bellezze. Vuoi tu essere ripiena di immense
ricchezze, e non per breve tempo, ma bensì per tutta l’eternità?
Ebbene, se in te è entrata la
brama di possedere il cielo con tutte le sue ricchezze, innamorati sempre più
della croce, che essa ti somministrerà tutte le ricchezze, cominciando dai
minutissimi centesimi, quali sono le più piccole sofferenze e di qualsiasi
specie, sino alle più incalcolabili somme, quali le procurano le croci più pesanti.
Intanto gli uomini, poiché son divenuti tanto avidi nel procacciarsi il minimo
guadagno d’un mero soldo temporale, che presto dovranno poi abbandonare, non si
danno alcun pensiero di acquistare un centesimo di bene eterno; e quando io,
avendo compassione di loro per la spensieratezza che hanno per tutto ciò che
riguarda il bene eterno, benignamente porgo loro l’occasione di profittarne,
questi, invece di essermi grati, si sdegnano verso di me e mi offendono con la
loro ostinazione. Vedi figlia mia, quanta cecità nella povera umanità? Nella
croce invece vi sono racchiusi tutti i trionfi ed i più grandi acquisti e vittorie.
Tu, intanto, non aver altra mira se non la croce, perché questa basterà e
supplirà a tutto. Voglio perciò quest’oggi contentarti, col crocifiggerti completamente
su quella croce che finora non bastava a farti ben distendere. Questa croce,
sappi, è quella che ha attirato su di te le dolci attrattive del mio amore e
che m’induce a crocifiggerti completamente su di essa. Quella croce, perciò,
che hai tollerata sin ora, me la porterò in cielo, per averla come pegno del
tuo amore e mostrarla a tutta la corte celeste come testimonianza del tuo
amore per me; ed io, in luogo di questa, farò discendere dal cielo su di te
un’altra più grave e dolorosa, affin di appagare le tue ardenti brame di patire,
e per far sì che presto vengano a completarsi gli eterni miei disegni su di
te”.
Dopo aver ciò detto Gesù, si
presentò a me dinanzi quella croce altre volte da me vista, ed io, piena di
gran contento, mi appressai subito a lei, la presi per deporla a terra, e
quindi mi distesi su di essa; e mentre così mi disponevo per essere crocifissa,
si aprì il cielo, e tosto vi discese l’evangelista san Giovanni, che portò la
croce di cui Gesù mi aveva già parlato; indi, arrivò la Regina Mamma con
moltissimi angeli, che facevanle corona, ed allorché si fecero appresso a me mi
tolsero da sopra quella croce e mi adagiarono sull’altra portata da san Giovanni,
che era più grande. Un gelo di morte s’impossessò di tutta la mia persona, pur
sentendo nel cuore una nuova fiamma d’amore, che tanto mi faceva agognare il
patire della croce. Un angelo, intanto, ad un cenno di Gesù prese tosto la
prima croce e se la portò verso il cielo, mentre egli[65],
dopo ciò detto, di propria mano cominciò a crocifiggermi; e mentre la Regina
Mamma mi assisteva, gli angeli e san Giovanni si fecero d’appresso per porgere
i chiodi ed altro necessario all’uopo, alla mia crocifissione. Nell’atto di
crocifiggermi, il benignissimo Gesù mostravami tale contento e gioia, che avrei
voluto soffrire non una, ma mille crocifissioni ed altre pene ancora, per accrescergli
sempre più quel dolce contento; e nello stesso tempo mi sembrava vedere come se
il cielo fosse tutto parato a novella festa di gloria per me, e ciò per aver
procurato a Gesù quel contento, ed alle anime del purgatorio liberazione e
copioso suffragio, ed ai peccatori pentimento del mal fatto, oltre alla conversione
di parecchi altri, giacché il mio diletto sposo Gesù fece a tutti partecipi
[di] quel bene che si operava mercé la mia buona disposizione a tutte le sofferenze
che sono inerenti alla crocifissione.
Quando poi tutto fu compiuto, mi
sentii come nuotare in un mare di contenti, misto ad un mare di pene e di dolori
inauditi. La Regina Mamma, volgendosi a Gesù, gli disse: “Figlio mio, oggi è
giorno di gloria; perciò voglio che le partecipiate tutte le vostre pene, e
che, a compimento di quanto si è fatto, venga il suo cuore trapassato dalla
lancia, ed alla testa le si rinnovi la coronazione di spine”. E Gesù, obbedendo
alla Mamma, prese una lancia e con essa mi trapassò il cuore da parte a parte,
mentre gli angeli, prendendo una corona di spine, gliela porsero alla Vergine
Santissima, la quale, nel massimo suo contento ed a mia grande soddisfazione,
me la conficcò benignamente nel capo. Che giorno memorabile non fu mai quello
per me! Può veramente dirsi giorno di sommo gaudio e di sommo dolore, giorno
d’indicibili pene e d’ineffabili gioie! In quanto al mio contento, basta dire
che Gesù in tutta l’intera giornata non si mosse d’accanto a me, per sorreggere
la mia naturale fralezza, la quale, senza la sua grazia, sarebbe venuta meno
per l’acerbità delle pene e sofferenze; e per maggior mio contento, Gesù
permise che le tante anime del purgatorio, che mercé l’applicazione delle mie
pene erano state inviate al paradiso, vi scendessero dal cielo unitamente agli
angeli, affinché circondando il mio letto mi ricreassero coi loro celestiali
canti, specie con quello cosiddetto ‘il cantico di allegrezza’, che si fa in
rendimento di grazie a Dio lassù nei cieli, e detto ancora ‘inno di ringraziamento’.
Dopo cinque o sei giorni
d’intensissime pene, con mio grande rammarico mi accorsi che di giorno in
giorno cominciarono a decrescere, e sarebbero del tutto cessate se non avessi
fatto calda insistenza presso il mio sposo Gesù, che avesse almeno
temporeggiato, per cui sentii in me sì eccessivo amore al dolce patire, che mi
feci[66]
a manifestarlo al mio buon Gesù, e nello stesso tempo a supplicarlo, affinché
mi rinnovasse la già subita crocifissione; e Gesù, dal canto suo compiacendosi
di me, di tanto in tanto mi contentava, trasportando di nuovo l’anima mia nei
luoghi santi di Gerusalemme, e quando più, quando meno, mi partecipava le pene
subite da lui lungo i giorni della sua passione e morte in croce. Mi faceva
quindi soffrire, ora la sua flagellazione, ora la coronazione di spine, ora mi
faceva provare le sofferenze che egli ebbe a soffrire nel portare il pesante
legno della croce al Calvario, e talvolta ancora la crocifissione. Compiacendosi
Gesù di farmi soffrire ora l’uno, ora l’altro di questi misteri, e talvolta in
un solo giorno tutta intera la sua passione, procuravami l’aumento del sommo
mio contento e dell’estremo mio dolore. Invece mi riusciva più che mai penoso e
straziante al mio cuore allorché mi toccava vedere Gesù soffrire, ed io priva
di [ciò], ma soltanto spettatrice del tanto suo patire, per cui smaniavo
dall’ansia di poter entrare almeno a parte dei suoi dolori. Oh, quante e quante
volte non mi sono trovata con la Regina Mamma, a veder soffrire Gesù pene
acerbissime, a causa delle offese che si perpetrano da uomini malvagi, e più
malvagi degli stessi Giudei che lo catturarono e gli diedero la morte! Ah, sì,
fu allora che più che mai mi convinsi che è pur vero che, per chi ama, riesce più
facile soffrire che veder soffrire la persona amata!
E fu appunto per questo che io mi
sentivo spinta dall’amore verso il mio diletto Gesù a supplicarlo che mi
rinnovasse spesso spesso queste crocifissioni, e ciò per alleviargli, almeno in
parte, le sue pene; e Gesù mi diceva: “Diletta mia, la croce ben sopportata ed
ardentemente bramata fa ben distinguere i predestinati dai reprobi, i quali
sono sì ricalcitranti ad ogni patire. Sappi che nel giorno dell’universale
giudizio, gli amanti della croce, al vederla comparire, oh, quanto non si
rallegreranno, mentre i reprobi saranno presi ed assaliti da orribile spavento.
Fin da ora, diletta mia, si può
senza dubbio asserire se quel tale dev’essere uno dei salvati o eternamente perduto,
poiché se questi al presentarsi la croce l’abbraccia e con rassegnazione e
pazienza mi segue, e di tanto in tanto la bacia, ringraziando Colui che
gliel’ha inviata, è segno evidente e più che sicuro di essere costui nel numero
dei salvi; ma se all’opposto, al presentarsi la croce, la persona s’irrita, la
disprezza, e vorrebbe ad ogni costo sottrarsi da essa, già meritata a causa
delle sue dissolutezze, può tenersi come segno certo che cammina per la via
dell’inferno. E quindi, i reprobi, se a vista della croce mi offendono in vita,
nel giorno del giudizio più che mai mi bestemmieranno, vedendo comparire la
croce, che incuterà loro l’eterno terrore. La croce poi, figlia mia, è il distintivo
del vero cristiano. Essa dice tutto, perché come un libro aperto fa distinguere
a chiare note e senza inganno di sorta il santo dal peccatore, il perfetto
dall’imperfetto, il fervoroso dal tiepido. La croce comunica inoltre, a chi è
ben disposto, tale luce, che fin d’ora non solo fa distinguere il buono dal
reo, ma fa ancora conoscere chi dev’essere più o meno glorioso in cielo, e chi
deve occupare in esso un posto più o meno eminente. Oltre a ciò, tutte le virtù
dinanzi all’eccellenza della croce si fanno dimessamente umili e riverenti; e
sai quando acquistano maggior lustro e splendore? Allorché si sono ben bene
innestate con essa”.
Come poter esprimere a parola le
tante fiamme d’amore verso la croce, che Gesù col suo parlare infuse nel mio
cuore? Basta dire che fui presa da tali smanie di patire, che se Gesù non avesse
appagato il mio cuore col rinnovarmi spesso spesso la crocifissione, mi sarei,
certo, martirizzata fra i più atroci tormenti dell’amore. Aggiungo che, alle
volte, dopo avermi rinnovato Gesù queste crocifissioni, mi diceva:
“Diletta del mio cuore, giacché
brami sì ardentemente la fragranza che emanano i dolori della mia croce, io non
solo ti appago col crocifiggerti l’anima, comunicandoti ogni dolore, ma
desidero suggellare anche il tuo corpo col suggello evidente delle mie
sanguinose piaghe, se non fossi così ritrosa di poter manifestare a tutti quanto
tu mi ami. A tal fine, voglio insegnarti la seguente preghiera, che tu farai
per ottenere questa grazia:
‘Io mi presento al trono della
Santissima Trinità, e siccome bagnata nel sangue di Gesù Cristo, ardisco prostrarmi
in segno di profonda adorazione e supplicarla che, per i meriti delle
preclarissime virtù di Gesù e della sua divinità, voglia concedermi la grazia
di essere sempre crocifissa’ ”.
Siccome, poi, ho avuto sempre
avversione a tutto quello che avesse potuto comparire esternamente, come tuttora
persiste, così nell’atto che Gesù m’infondeva maggior brama di essere
crocifissa a piacer suo, non ardivo oppormi a che mi avesse crocifissa
nell’anima e nel corpo; ma ravvisando subito quanto accettavo spensieratamente
nella foga, con animo risoluto dicevo a Gesù: “Sposo santo, segni esterni non
appariscano mai in me; e se talvolta senza alcuna riflessione avessi accettato
cosa appariscente, non ho avuto però mai l’animo di acconsentirvi, poiché tu
sai quanto io abbia amato sempre la vita nascosta. Perciò ti prego, allorquando
vorrai rinnovarmi la crocifissione, che quei dolori siano permanenti e senza
alcun alleviamento di sorta. Questo solo io bramo, questo mi basta, e non segni
esterni, i quali mi farebbero distruggere dalla vergogna”.
Se molto mi tormentava il
pensiero che certi segni esterni potessero manifestarsi esternamente, tanto più
che senza considerazione avevo implicitamente acconsentito alla Volontà di
Gesù, non meno mi tormentava il pensiero dei peccati trascorsi; e per questo
tornavo spesso spesso a domandare a Gesù il dolore e la grazia della loro
remissione, per cui giungevo a dirgli che allora sarei rimasta tranquilla e
contenta, quando egli mi avesse detto di sua bocca: “Ti sono perdonati tutti i
tuoi peccati”.
E Gesù benedetto, che nulla sa
negare quando ciò che si domanda ridonda a nostro spirituale vantaggio, facendosi
una mattina più condiscendente del solito, mi disse: “Questa mattina voglio io
stesso fare l’ufficio di confessore. A me tu confesserai tutte le tue colpe, e
nell’atto di far ciò ti farò comprendere uno per uno tutti gli affronti che mi
hai arrecato e tutti i dolori causati a me coi tuoi peccati. S’intende che tu
comprenderai tanto, per quanto è accessibile all’intelligenza e volontà umana,
che cosa sia in sé il peccato, affinché prenda la risoluzione di piuttosto
morire che tornare ad offendermi. Quindi, entra nel tuo nulla; considera per
poco, che il nulla se l’ha preso[67]
col Tutto, e che il Tutto avrebbe potuto far scomparire
dalla faccia della terra il nulla, resosi tanto infame da prendersela col suo
Creatore; ciononostante, questo nulla non solo è stato dal Tutto tollerato, ma ancora amato. Esci ora fuori del tuo nulla, e
con trasporto d’amore verso l’amante tuo Signore, recita il Confiteor”.
Io, entrata nel nulla di me
stessa, venni a scorgere tutta la mia miseria e tutte le colpe commesse, e
trovandomi dinanzi alla reale presenza di Cristo giudice cominciai a tremare a
verga a verga, fino a mancarmi la forza di poter pronunziare le parole del Confiteor; e sarei rimasta immersa nella
più grande confusione, senza dire una parola, se il Signor mio Gesù Cristo non
mi avesse infusa novella forza e coraggio col dirmi: “Figlia del mio amore, non
temere, ché se ti sono ora giudice, ti sono ancor padre. Coraggio dunque ed
andiamo avanti”. Per cui, tutta piena di confusione e di umiliazione recitai il
Confiteor; e siccome mi vedevo tutta
coperta di colpe, dando un’occhiata su tutto il passato, vi scorsi come più
grave l’affronto recato al mio Signore con l’aver nutrito in me qualche atto di
mera superbia, e quindi gli dissi: “Signore, mi accuso dinanzi alla tua maestà,
di aver peccato di superbia”.
Gesù allora mi disse: “Avvicinati
al mio amoroso cuore, tendi le orecchie e sentirai lo strazio crudele che hai
fatto con questo peccato al mio generoso cuore”; ed io, tutta tremante, tesi
l’orecchio sul suo cuore… Ma chi può dire ciò che sentii e compresi in pochi
istanti? Il mio cuore fremente d’amore cominciò a pulsare sì forte, che a parer
mio mi sembrava come avesse voluto rompersi il petto; e difatti mi parve poi
come se si spezzasse per il dolore, e facendosi a brani a brani restasse quasi
distrutto. E dopo di aver provato tutto ciò, esclamai più volte: “Ahi, quanto è
crudele la superbia umana, che se avesse potere giungerebbe a distruggere lo
stesso Essere Divino!”.
La superbia umana me la
raffiguravo allora come un vermiciattolo che, avendo l’agio di essere ai piedi
d’un gran re, si sollevasse e gonfiasse, in modo tale da credersi qualcosa di
grande, e che preso quindi da somma audacia, cominciasse a poco a poco ad
arrampicarsi, strisciando su per gli abiti del re, fino a giungere alla sua testa,
[e] vedendola cinta da aurea corona, volesse toglierla dal suo capo per cingere
il suo, ed indi, poi, spogliarlo delle sue vesti regali, detronizzarlo ed
infine usare ogni mezzo per togliergli la vita. Questo verme, che non conosce
nemmeno il suo essere, tanto che nella sua superbia non giunge nemmeno a
pensare che per essere disfatto basterebbe soltanto che il re si accorgesse dell’audace
suo progetto per calpestarlo sotto uno dei suoi piedi, facendogli così crollare
in un solo istante tutti i suoi sogni dorati, illudendosi troppo dei quali
nella sua testa riscaldata dalla superbia, muoverebbe a sdegno e compassione
insieme chi fosse meno orgoglioso di esso, il quale sarebbe tenuto non solo per
l’essere più malvagio ed ingrato, ma ancora per il più temerario e presuntuoso.
Ero appunto io, che mi vedevo, quel misero vermiciattolo ai piedi del Re
divino, per cui mi sentivo riempire l’anima da tale confusione e dispiacere
dell’affronto arrecatogli, da provare nel mio cuore lo strazio atroce sofferto
da Gesù a causa della mia superbia.
Dopo ciò, Gesù mi lasciò sola, ed
io continuai a considerare la bruttezza del peccato di superbia, che mi cagionò
tali pene e così al vivo, che mi è impossibile esprimere a parole. Quando ebbi
ben bene considerato quanto mi era stato detto da Gesù, vi tornò egli e mi fece
continuare la confessione, ed io, più tremante di prima, feci l’accusa dei miei
pensieri, delle mie parole, eseguiti non secondo la sua espressa Volontà, oltre
ai peccati di causa [ed] omissione; e tutto fu accusato da me con tale pena ed
amarezza di animo, che mi sentii come esterrefatta nella piccolezza del mio
essere, per la baldanza ed audacia avuta nell’offendere quel Dio sì buono, il
quale nell’atto stesso che gli arrecavo affronti, mi assisteva, mi conservava e
mi alimentava; e se qualche sdegno avessi potuto notare in lui verso di me, a
null’altro si riduceva che all’odio sommo che egli ha del peccato. All’opposto,
la sua bontà verso di me, peccatrice, è stata sempre immensa, e tanto che
giunse a scusarmi innanzi alla divina giustizia, mettendo in vista la mia
incapacità e fralezza, per cui mi faceva ottenere in cambio novelle grazie e
forza a meglio operare, il che era come togliere quel muro di divisione che era
sorto a causa del peccato tra la mia anima e Dio. Oh, se tutti conoscessero la bontà
di Dio e la bruttezza del peccato, da tutti gli uomini sarebbe tosto esiliato
dalla faccia della terra; i quali, presi da forte rimorso e dolore per il
peccato, o morrebbero, oppure conoscendo l’infinita bontà di Dio si
getterebbero in essa, come in un mare immenso di grazie le più elette, destinate
a loro bene e santificazione.
Allorché Gesù vide che per la
gran pena ed amarezza del peccato non potevo più continuare, si ritirò da me, lasciandomi
immersa nella considerazione del male fatto col peccato, ed in quella più profonda
ancora della sua bontà, nello scusarmi presso la giustizia del Padre suo,
facendomi ottenere novelle grazie. Dopo un lungo tratto, Gesù tornò di nuovo
per farmi continuare l’accusa, la quale, di tanto in tanto interrotta, ebbe fine
dopo sette ore all’incirca. E quando l’amabilissimo Gesù mise termine alla mia
accusa, smise l’aspetto di giudice e riprese quello di padre amorosissimo; e
siccome mi ero ridotta sino all’estremo sfinimento di forze e di vita per il
dolore provato per le offese fatte al mio Dio, e più ancora per la comprensione
che il mio dolore, per quanto fosse stato grande, non era poi sufficientemente
bastante a farmi dolere come mi conveniva, Gesù, per rincorarmi, mi disse:
“Voglio io supplire per te, applicando all’anima tua il merito del mio dolore,
sofferto là, nell’orto di Getsemani; solo questo può bastare a soddisfare la
divina giustizia da te offesa”.
Mi parve quindi di essere più
disposta a ricevere da Gesù l’assoluzione dei miei peccati; e perciò, tutta umiliata
e confusa ai suoi piedi, gli dissi: “Sommo Iddio, per quanto sommo è il male
che io ho fatto verso di te commettendo il peccato, altrettanto infinitamente
somma ritengo la tua misericordia che mi perdona. Vorrei però che le potenze ed
i sensi miei divenissero un numero infinitamente grande, e che come tante
lingue lodassero ed elogiassero un osanna perenne alla tua infinita misericordia.
Deh, Padre Santo, perdonami il gran torto fatto a te peccando, e rimettimi
nella tua paterna grazia!”. E Gesù: “Promettimi di non più peccare, con l’allontanare
da te ogni ombra di male, che potesse di nuovo offendermi”. “Ah, sì, prometto
mille e mille volte, piuttosto morire che offendere mai più te, mio Creatore,
mio Redentore e mio Salvatore, mai più, mai più”. Allora Gesù alzò la benedetta
sua destra e pronunziò le parole dell’assoluzione, facendo scorrere sull’anima
mia un fiume del suo preziosissimo sangue.
Dopo che Gesù ebbe lavata l’anima
mia nel suo preziosissimo sangue, mercé le parole dell’assoluzione, mi sentii
come rinata a nuova vita, e più che mai inondata dalla piena della sua grazia,
che mi lasciò poi tale impressione, da non poterla più dimenticare. Basta dire
che ogniqualvolta me ne rammento, sento dapprima come sorgere nell’anima mia
un’insolita gioia, e poi corrermi un brivido per tutta la persona, al riflesso
della grazia fattami dal mio Signore, la quale in tutte le sue più minute
circostanze mi si affaccia continuamente alla mente, come se or ora si fosse
eseguita. Ripiena quindi del passato ricordo, con tutti i suoi più minuti
particolari, mi fa entrare in un profondo raccoglimento ed ansiose brame di
poter corrispondere, il più che mi sia possibile, alle tante e sì singolari
grazie che il Signore mi ha fatto e continua tuttora a farmi, sia per
rinvigorirmi nello stato di vittima, che per ben dispormi a vivere nella sua
Divina Volontà, per cui si richiede somma divina grazia e somma attività da
parte mia, che essendo nulla, devo prendere il tutto da Dio, e quindi trafelare
e travagliare per trasfonderlo in altri, come al par di un medico che
s’impegnasse d’iniettare il sangue di un individuo sano nella vene di un ammalato,
per ridonargli la sanità corporale.
Al pari di questi devo ancor io
prendere da Dio la sua grazia, applicarla agli spiriti infermi, per far poi tutto
tornare a Dio. E per fare che ciò avvenisse in me, il mio amabilissimo Gesù mi
trasse dapprima a sé, col farmi prima distaccare da tutto ciò che menomamente
mi distraesse da lui; indi mi ridusse allo stato di vittima perenne, disposta
sempre, ogniqualvolta lo volesse, a prendere su di me una parte di quelle
pene, dolori e sofferenze, di cui è continuamente sovraccarico il pazientissimo
Gesù, sia per soddisfare la divina giustizia, già tanto offesa dal continuo
prevaricamento del genere umano, che per impedire che potesse mettere mano ai
suoi più spietati flagelli. A me, poi, per rinfrancarmi delle forze perdute, mi
usa grazie delle più singolari, come, fra le altre, quella della suddetta
assoluzione, la quale mi è stata impartita da Gesù più volte, e nella quale ha
preso ora l’aspetto d’un sacerdote che, come tale, prima mi confessava, facendomi
sentire differenti effetti nell’anima, e dopo, terminata la confessione, si
faceva conoscere qual egli era; ed ora prendeva l’aspetto del confessore, tanto
che, credendo di parlare con lui, gli aprivo il mio cuore per fargli conoscere
lo stato dell’anima mia, coi suoi timori, dubbi, pene, angosce e necessità, ma che
poi, dalle risposte che mi dava e dalla soavità della sua voce, tramezzata,
però, ora da quella del confessore ed ora dalla sua, dal tratto affabile e
dagli effetti interni che io provavo, differentemente da quelli ordinari,
venivo a scoprire che quelli non era altro che Gesù. Altre volte poi, mi si manifestava
da principio in un modo tutto ineffabile, e mi faceva fare la confessione, sia
ordinaria che straordinaria, ed infine mi assolveva. Se dovessi dire tutto quanto
è passato tra Gesù e me, non solo andrei troppo per le lunghe, ma quanto che
sarebbe preso per favola; perciò passo a dire altro, e che sia di più manifesto.
Ricordo che, dopo tutto quel che
ho detto, Gesù mi tenne avvisata della seconda guerra che doveva avvenire tra
l’Italia e l’Africa, nove mesi prima che s’ingaggiasse tra loro; ed ecco come.
Il benedetto Gesù, facendomi uscire fuor di me stessa, mi trasportò dietro di
sé, facendomi percorrere una lunghissima via, tutta disseminata di cadaveri
umani, immersi nel proprio sangue, che a guisa di fiume inondava quella via, i
quali, come Gesù mi fece vedere con mio sommo orrore, erano abbandonati ed esposti
ad ogni intemperie dell’aria ed alla rapacità di animali carnivori, giacché non
c’era chi si brigasse di dar loro sepoltura. Ed io allora, tutta spaventata, mi
feci a domandare al mio Gesù: “Sposo santo, cosa vuol dire tutto ciò che ora mi
fai vedere?”.
E Gesù mi rispose: “Sappi che nel
prossimo anno vi sarà guerra. Gli uomini si sono dati ad ogni vizio ed abbandonati
alle più carnali passioni per offendermi, ed io voglio fare le mie giuste
vendette sulle loro medesime carni che puzzano tutte di peccato”. Io non ebbi
alcun dubbio di quanto mi asseriva Gesù; ciò nonostante speravo che, nel corso
dei nove mesi, gli uomini carnali avrebbero messo freno alle loro passioni, e
Gesù in vista del loro ravvedimento avrebbe sospesa la preavvisata guerra. Ma
che dire di tanti e tanti, che infangati nelle loro passioni, invece di ravvedersi
peggioravano sempre più? Tanto che, passato quel periodo di prova accordato dal
buon Gesù, si cominciò a sentirsi dapprima parlar di guerra e, subito dopo, che
veramente tra l’Italia e l’Africa aspramente si combatteva, con evidente danno
d’ambo le parti. Allora io, più che mai, mi offrii al buon Gesù, affinché
avesse risparmiato tante vittime; ma per quanto lo pregassi ed incessantemente
lo supplicassi che avesse avuto pietà di tante anime che, morendo in guerra, si
sarebbero trovate al cospetto di Dio non in stato di grazia, e quindi sarebbero
state precipitate nell’inferno, ma Gesù non mi diede punto ascolto; ma facendomi
uscire fuori di me, l’anima mia seguendolo si trovò in un istante a Roma, in
cui ascoltai la voce di tanti e tanti presuntuosi, che dicevano di essere
affatto convinti che l’Italia avrebbe riportato vittoria sull’Africa…
Gesù intanto, dopo aver
attraversato le vie di Roma, ed ivi ascoltato quanto ho su detto, mi fece
penetrare unita a lui nell’aula del Parlamento, in cui i deputati tenevano
calorose dispute, sul modo che dovessero[68]
tenere per menare innanzi la guerra ed assicurarsi quindi della bramata
vittoria; e si procedeva nella discussione con tanta ampollosità di parole,
fanatismo e superbia, che facevano compassione a sentirli. Ma quel che mi fece
più impressione fu nel sentire che costoro erano tutti settari, e che agivano
sotto la pressione del demonio, a cui avevano venduto le loro anime, affin di
accaparrarsi l’esito felice della guerra. Nel conoscere intanto tutto ciò, mi sentii
raccapricciare, e tutta dolente esclamai: “Che uomini tristi e malvagi, in
tempi più tristi di loro!”. A me sembrava che tra loro regnasse il regno di
satana, giacché tutta la loro fiducia, anziché riporla in Dio e nella propria
attitudine richiesta all’uopo, la riponevano tutta nel demonio, da cui si
attendevano sicura vittoria. Ora dico che, mentre essi stavano immersi nelle
più vive e calorose discussioni, per riunire le varie divergenze, per cui [una]
tendeva ad allontanarsi sempre più dall’altra man mano che si discuteva tra
loro, il benedetto Gesù, che senza essere veduto era in mezzo, a udire le loro
infelicissime proposte, versò lacrime amarissime sul loro misero stato. Ed
essi, dopo che ebbero alla men peggio tirato consiglio, ma senza Dio, sul modo
pratico di procedere in guerra, come se la vittoria fosse già dell’Italia,
presuntuosi più che mai, menavano vanto della sicurezza della vittoria. Gesù
allora, come se quelli stessero intenti ad ascoltarlo, disse loro in tono di
minaccia: “Voi tutti vi fidate di voi stessi, ed io perciò vi umilierò,
affinché possiate constatare quanto è il danno che si riporta agendo senza invocare
l’aiuto e l’intervento divino, che è l’autore d’ogni bene. Questa volta quindi
la vittoria non sarà dell’Italia, ma a lei toccherà invece totale sconfitta”.
Chi può dire, ora, quanto soffrì
il mio cuore a queste parole di Gesù, e i mezzi usati presso il mio amabile Gesù
perché si placasse, o che almeno la guerra non andasse più oltre? Come sempre
mi offrii vittima di espiazione, affinché versasse su di me le più acerbe pene
e i dolori più spasimanti, a patto che risparmiasse l’Italia da un tanto flagello.
Ma Gesù mi disse: “Terrò sempre duro, in modo che l’Africa avrà la vittoria
sull’Italia. Solo ti accordo che l’Africa vincitrice non si riversi sulla terra
italiana per continuare il combattimento, come giusto castigo che merita
l’Italia, sia per la vita molto licenziosa che vive, sia per la fede già
perduta, per cui non spera in Dio, ma nel diavolo”.
Il tutto già narrato, con altre
circostanze, fu da me esposto all’obbedienza del confessore, il quale rispose:
“Non mi pare vero che l’Italia abbia ad essere sconfitta dall’Africa, poiché
l’Italia nella sua civiltà possiede ogni specie di armi offensive e difensive,
per cui la vittoria dov’essere nostra anziché dell’Africa incivile, che è assolutamente
priva di armi atte alla guerra”. Ma quando, purtroppo, il risultato di questa
venne a confermare quanto Gesù mi aveva assicurato, questi soggiunse dicendomi:
“Figlia mia, non c’è consiglio, non c’è prudenza né forza che valga, se non è
attinta da Dio”.
Potrei ora terminare la
narrazione di quelle cose più rilevanti, toccatemi dall’età di sedici anni
all’incirca [fino] ad oggi, se il confessore non mi avesse obbligata a mettere
su carta il modo che Gesù abbia tenuto meco nel parlarmi. Dapprima dico che
vari sono questi modi, ma io li riduco appena a quattro, che sono i seguenti:
Il primo modo che tiene Gesù nel far apprendere dall’anima ciò che egli vuole,
avviene quando fa uscire l’anima dal suo corpo, il che può avvenire in modo
istantaneo, oppure insensibile. Nel primo caso l’anima esce dal suo corpo come
in un baleno, ed è così repentino che il corpo si solleva come per seguire
l’anima, ma poscia rimane come morto, mentre l’anima segue Gesù, percorrendo
tutto l’universo, terra, mari, monti, cielo, e fin le regioni del purgatorio e
nella magione eterna di Dio, seguendo però sempre la direzione che prende Gesù.
Nel secondo caso, in cui l’anima esce dal corpo, è più quieto; ed infatti, pare
che il corpo insensibilmente resti come assopito al cospetto di Gesù, e
l’anima, nell’atto che Gesù parte, lo segue dovunque egli va.
Sia nel primo che nel secondo
caso, il corpo resta impietrito e delle cose esterne non sente più nulla,
ancorché si sconvolgesse tutto il mondo e le sue membra le punzecchiassero, le
bruciassero e le facessero anche a pezzi. Ed in questi due casi posso asserire
che mi son trovata fuori del corpo, e così lontana che dal luogo dove mi aveva
trasportata Gesù vedevo il confessore che andava verso casa per farmi riavere;
ed io, dagli ultimi confini della terra, dal purgatorio ed anche dal paradiso,
al comando di Gesù (che voleva da me perfetta obbedienza al confessore) in un
batter d’occhio mi ritrovavo nel corpo. Le prime volte però, temendo che non
facessi a tempo, mi angustiavo, mi affliggevo e tutta mi affaticavo per far che
mi ritrovassi nel corpo, nell’atto che il confessore mi avrebbe fatto riavere,
a mezzo dell’ubbidienza. Confesso però che mai mi son trovata a non fare a
tempo a rientrare nel corpo, allorquando il confessore si è recato presso il
mio letticciolo, e che se Gesù non avesse premurato l’anima mia a tornare nel
corpo, sarei stata restia alla voce del confessore, poiché si trattava,
nientemeno, di lasciare Gesù, mio sommo bene, per accorrere alla voce
dell’ubbidienza. Perciò, nel licenziarmi da lui, gli dicevo: “Vado dal
confessore, che mi chiama all’ubbidienza; ma tu, mio diletto, torna presto e
non appena se ne andrà via; te ne prego, non mi fare tanto aspettare”. Ora dico
che l’anima mia, in questi due casi, non ha bisogno che Gesù parli, per farsi
intendere, perché da una luce che comunica al mio intelletto mi fa tosto
comprendere quanto voglia imprimere in esso. Oh, quanto bene c’intendiamo,
quando ci troviamo tutti e due insieme! Questo modo intellettuale di Gesù, per
farsi intendere dall’anima, è rapidissimo. Basta dire che in un istante si
apprendono molte e sublimi cose, più che leggendo libri interi per tutta la
vita; è sì alto, poi, e sì sublime, che riuscirebbe impossibile a qualsiasi
intelligenza umana esprimere a parole tutte le impressioni di quanto si è appreso[69]
dall’anima in un istante solo. Oh, che maestro sapientissimo ed ingegnosissimo
è Gesù, che in un batter d’occhio fa apprendere tante cose, quante non arriverebbero
altri a farle comprendere nemmeno dopo anni ed anni di lezioni, giacché il
maestro terreno non ha la potenza, non solo di esplicare tutte le sue scienze,
ma neppure quella di attrarre a sé tutta l’attenzione del discepolo, né quella
d’infondere nella mente altrui alcunché senza sforzo e fatica. Gesù invece ha
tanta dolcezza, tanta affabilità di tratto e tanta soavità nel dire, che,
appena lo scorge, l’anima si sente talmente attirata a lui, che non può non
corrergli dietro con la massima velocità, per cui, senza avvedersene, si trova
trasformata in lui, in modo da non discernersi l’essere suo da quello divino.
Chi potrebbe dire ciò che l’anima
apprende in questo istante di trasformazione? Ci vorrebbe Gesù, o almeno
un’anima che avesse subìto di queste trasformazioni mentre era in vita, e che
ora si trovi in stato di perfetta gloria; giacché chi è circondato dal muro di
questo corpo, ancorché avesse posseduto quella luce divina per cui si sia
sentito tutto inabissato in Dio, pur possedendola, sentendosi nell’atto di
rientrare nel corpo come avvolto dalle più fitte tenebre, se volesse provare a
dire qualcosa gli riuscirebbe impossibile riferirla come gli è stata comunicata,
ma [lo farebbe] molto rozzamente ed imperfettamente. Per darne un’idea,
m’immagino un cieco nato, che un bel giorno avesse ricevuto la vista per pochi
istanti, e che in brevissimo tempo avesse percorso tutto l’universo mondo, in
cui velocemente avesse visto le cose più sorprendenti, sia in minerali, che
vegetali ed animali, oltre all’immensa distesa del cielo tutto tempestato
d’innumerevoli astri, ma che poi, dopo pochi istanti tornasse alla stessa cecità
di prima. Ora, dico: potrebbe questi riferire ad altri ciò che vide, e con
linguaggio al tutto appropriato? A quanti scherni non si assoggetterebbe, se
invece di formare un abbozzo volesse descrivere più minutamente tutto ciò che
fu da lui veduto appena e solo in pochi istanti?
E proprio così avviene dell’anima
quando, dopo aver spaziato per cielo e terra, nel rientrare nel corpo, essendo
tornata a non veder più nulla come quel povero cieco, amerebbe chiudersi nel
silenzio anziché parlare, sia per la vista perduta che per il timore di
spropositare. Così l’anima, rientrando nel corpo, vive gemente e sconsolata per
lo stato di violenza a cui deve sottostare, poiché mentre si sente violentata a
slanciarsi verso il suo sommo bene, per l’attrazione che Gesù fa all’anima, la
quale non brama altro che di star unita con Dio, anziché parlare in modo
disordinato di cose eccedenti la sua capacità e l’attuale suo stato, che è più
infelice di colui che abbia perduto la vista corporale.
Per obbedienza dico, però, forse
spropositando, che stando così le cose, vengo ora a spiegare come meglio posso
il secondo modo che tiene Gesù nel parlare all’anima, e cioè, che stando
questa nel corpo, fuori di esso vede la persona di Gesù, ora da bambino, or da
giovane, ora crocifisso, ecc., e Gesù, come noi altri, dalla sua bocca mette
fuori parole che sensibilmente l’anima sente giungere al suo udito, e questa a
sua volta risponde a Gesù, in modo che talvolta succede una conversazione tale
come la si può fare tra due persone. Ma la parola di Gesù, però, è molto
misurata, tanto che, appena, egli pronunzia quattro o cinque parole, ed altre
volte anche una sola, e rarissime volte [parla] a lungo; ma in quelle sì brevi
parole, quanta luce non infonde nell’anima! A me è sembrato vedere un
piccolissimo ruscello, che poi si è disteso in un vastissimo mare. Sicché una
parola di Gesù ha riportato in me tanta immensità di luce, da far sì che
l’anima restasse come assorbita da quella luce di verità, tanto da farla come
sua. Se a tutti i sapienti del mondo fosse dato ascoltare soltanto una parola
di Gesù, son sicura che tutti resterebbero stupiti, confusi e muti, ed incapaci
di saper che rispondere. Ora dico che con questo modo di parlare, Gesù
manifesta all’anima più facilmente le sue verità, poiché avendo egli usato un
linguaggio appropriato all’intelligenza di questa, lei non ha bisogno di andare
in cerca di vocaboli per comunicarle ad altri, giacché può usare benissimo
quelli stessi usati da Gesù. Quando invece l’anima apprende queste verità per comunicazione
al tutto intellettuale, si trova molto impacciata nel manifestarle ad altri,
perché le riesce impossibile esprimersi con la parola. Ecco perché Gesù, per
adattarsi alla natura umana, per lo più fa uso della parola, perché diversamente
questa [70],
ripeto, non si aprirebbe con altri, stando nel dubbio di errare; e parla
secondo la capacità ed il linguaggio di ciascun’anima.
Insomma, Gesù fa come un maestro
dottissimo e sapientissimo, il quale possiede in grado superlativo tutte le
scienze, e volendo impartire ad altri delle lezioni, parlerà certamente la
lingua conosciuta e parlata dall’alunno, altrimenti la verità scientifica non
sarebbe mai appresa da quello, o almeno ci sarebbe bisogno che prima gli
facesse apprendere quella lingua, e rifarsi quindi da capo, e poi insegnare quella
scienza che si era proposto di far imparare. Oh, quanto è buono Gesù, che pur essendo
sapientissimo si adatta alla capacità di tutti, e tanto da non sdegnare di
abbassarsi a far scuola a quegli ignoranti che volessero apprendere da lui le
verità necessarie per il conseguimento dell’eterna salute, e molto meno superbo[71],
se le sue verità le dovesse comunicare a persone dottissime ed in modo elevato,
giacché egli non ha altra mira se non che quella di far conoscere, apprezzare
ed eseguire le sue verità, non volendo che alcuno ne resti privo di queste.
Il terzo modo che adopera Gesù
nel far apprendere all’anima le sue verità, consiste nel partecipare a lei la
stessa sua sostanza. A me sembra che avvenga come quando Iddio creò il mondo
dal nulla, che ad una sola sua parola tutte le cose vennero all’esistenza,
mentre ad un’altra sua onnipotente parola tutto il creato fu messo in ordine,
quale ab æterno era stato da lui
prefisso. Così avviene dell’anima a cui Gesù le parli parole di vita eterna;
[egli] crea, nell’atto stesso che comunica le sue verità, perché volendo Gesù
che l’anima s’innamori della sua bellezza, le dice: “Vuoi tu sapere quanto io
sia bello? Per quanto il tuo occhio potesse scorrere su tutte le bellezze
sparse su tutta la terra e negli stessi cieli, mai troveresti bellezza simile
alla mia bellezza”.
In questo dire di Gesù, l’anima
si sente come se entrasse in lei un certo che di divino, a cui si sente di aderire
perché è attirata da Gesù come bellezza sopra ogni altra bellezza, ed insieme
[si sente] perdere ogni attrattiva per tutte le cose belle di quaggiù, giacché
per quanto belle e preziose fossero[72],
messe a paragone della bellezza di Gesù, vi scorge l’infinito divario, e quindi
si dà a questa[73],
in questa si trasmuta, a questa sempre pensa, di questa vorrebbe sempre parlare,
giacché di essa si sente tutta investita, innamorata ed anzi trasfusa; dico
ancor di più, che se il Signore non operasse un miracolo, l’anima cesserebbe di
vivere, facendole scoppiare il cuore di puro amore a vista della bellezza di
Gesù, per volarsene tosto appresso a lui lassù nel cielo per bearsi della sua
bellezza. Io stessa però, che ho provato tutte queste emozioni, con tutte le
attrattive della bellezza di Gesù, non so cosa mi dico; si tenga quindi il mio
detto come tanti spropositi, ma non posso però non sostenere che una impressione
soprannaturale non sia rimasta in me, ed in modo tale da farmi dedurre questa
verità: ogni bellezza terrena, a vista di quella del mio amabilissimo Gesù, viene
ad eclissarsi, come le stelle al comparir del sole, e quindi le bellezze delle
cose create, Gesù me le fa tenere come un’inezia e cosa da trastullo. Di quanto
ho detto della bellezza di Gesù, altrettanto e più ancora potrei dire della
purità, della carità, della bontà, della semplicità, e di tutte le altre virtù
di Gesù, come pure di tutti gli attributi di Dio, giacché parlando all’anima fa
entrare in essa, oltre alla parte comunicativa delle sue virtù, gli infiniti
attributi della sua divinità.
Un giorno, fra gli altri, Gesù mi
disse: “Vedi quanto io sono puro? Anche in te voglio questa purità”. A queste
parole di Gesù, accompagnate dallo splendore candidissimo della sua purità
tutta divina, sentii entrare in me tale purità, come se la purità di Gesù si
fosse del tutto trasfusa in me, in modo che cominciai d’allora a vivere come se
non avessi più corpo, perché mi sentivo tutta inebriata dalla sua fragranza, mi
assopivo all’olezzo suo balsamico, correva il mio spirito dietro al suo odore
di paradiso, mi ridestavo alla freschezza della sua aria pregna di aromi. Il
mio corpo, reso partecipe della purezza vitale dell’anima assieme alle sue
potenze, si rese molto semplice per la correttezza dei suoi sensi, giacché la
nausea dell’impurità s’impossessò tanto in[74]
me, che se d’allora in poi avesse potuto solo lontanamente percepire qualche
sensazione meno pura, involontariamente lo stomaco mi si ribellava, dando forti
conati di vomito.
L’anima, insomma, a cui Dio abbia
parlato della sua purità, viene a trasmutarsi in quella, e tanto che sente di
non poter più vivere in sé, ma vive ed agisce in Gesù, avendo egli preso
stabile dimora in lei. Perciò non posso fare a meno di dire che quanto ho detto
della bellezza e purità di Gesù trasfuse in me, sono meri spropositi, giacché
l’intelligenza e capacità umana sono incapaci ad esprimere con linguaggio umano
ciò che non lo potrebbe nemmeno il linguaggio angelico, tanta è la sublimità di
esse. Se non mi riesce, quindi, a ben esprimere dell’impressione[75]
avuta nell’ammirare la bellezza, purità, e tutte le altre virtù, così è da
dirsi degli attributi divini che il mio buon Gesù di tanto in tanto ha voluto comunicare
all’anima mia. Oh, quanto è desiderabile la partecipazione di esse virtù e
attributi di Dio che Gesù fa all’anima, in modo tutto creativo, mercé la
quale, l’anima si trova in possesso di quanto le è dato di apprendere, fosse
pure in un batter d’occhio. In quanto a me, darei tutto ciò che sta in tutto
l’universo mondo, se ne fossi padrona, per avere una sola di sì elette
comunicazioni, per cui l’anima si avvicina sempre più a lui[76],
sublimandola all’intuitiva comprensione dei beati ed angeli del paradiso.
Il quarto modo che tiene Gesù di
parlare all’anima, consiste tutto nella comunicazione dei cuori, mercé
l’esercizio continuo e mai interrotto nelle sue più eroiche virtù, essendo
allora l’anima sempre intenta a procurare il maggior compiacimento di Dio,
fatto ospite del suo cuore. Gesù internamente, stando in riposo, ma sempre
vigilante nell’intimo nascondiglio del suo[77]
cuore, la richiama talvolta al suo dovere senza articolar parola, giacché
essendosi l’uno e l’altra come fusi ed immedesimati insieme, gli basta un solo
moto interno per farsi comprendere; ma però altre volte Gesù fa uso anche della
parola, che fa giungere all’orecchio del corpo, facendole comprendere quanto egli
vuole. E questo modo di parlare di Gesù, che fa all’anima che lo abbia reso padrone
assoluto del suo cuore, succede spesso spesso avendo egli preso tutta a sé la
direzione di quest’anima, per cui la sveglia se la vede assopita durante l’adempimento
dei suoi doveri, la incita dolcemente a riprendere di buona voglia ciò che
avesse potuto trascurare per rincrescimento, e tosto fa sentire la sua parola
ammonitrice se la vedesse distratta, afflitta, sconsolata, oppure perdendo il
tempo, mancante alla carità, ecc. E questa sua parola basta a farla rientrare
subito in se stessa, per riconcentrarsi maggiormente in Dio a fare la sua Santa
Volontà.
E così avrei dovuto mettere
termine a[78]
tutte le grazie che il mio amabilissimo Gesù ha voluto copiosamente elargire a
me, ultima delle sue ancelle, nel corso di sedici anni all’incirca, dal momento
che io feci proposito di fare la novena del santo Natale con nove meditazioni
al giorno, concernenti i grandi misteri della sua Incarnazione. Se non che il
mio confessore, trovandosi a considerare l’inizio di questo manoscritto, e
proprio al punto ove io dissi: “Così io passavo la seconda ora di meditazione,
e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi
seccante…”, questi ora mi ha ingiunto di scriverle per esteso, affinché - come
egli mi dice - si venga a riempire quella lacuna già fatta contro il suo
volere. E poiché mi conviene sempre ubbidire, anche contro la mia ragione, che
è quella di non poter fare questo lavoro a causa della mia incapacità e
distanza di tempo, che mi ha fatto quasi dimenticare quanto Gesù mi faceva praticare,
senz’altro, fidente in lui, prendo la penna in mano e dico.
Dalla seconda meditazione passai
immediatamente alla terza, giacché la voce interna che sin dalla prima meditazione
mi si fece sentire sensibilmente mi disse: “Figlia mia, poggia la tua testa sul
seno della mia Mamma, e considera in esso la mia piccola umanità. Qui il mio
amore per la creatura quasi mi divora; sono gli incendi, gli oceani, i mari
immensi dell’amore della mia divinità, che m’inceneriscono, m’inondano, e che
eccessivamente oltrepassano ogni confine, tanto da sollevarsi ovunque e sino a
tutte le generazioni, dalla prima all’ultima creatura. E la mia piccola
umanità, pur divorata in mezzo a tante fiamme d’amore, si rende ancor essa
divorante nel medesimo amore. Ma sai che cosa il mio eterno amore mi voglia far
divorare? Ah, sì; ben lo saprai a prova: le anime tutte! Ed allora, figlia mia,
sarà contento il mio amore, quando le divorerà in sé tutte, giacché [io]
essendo Dio devo operare da Dio, abbracciando in tutto e per tutto ciascun’anima
che possa venire all’esistenza, poiché il mio amore non mi darebbe pace se vi
escludessi qualcuna. Sì, figlia mia, guarda bene nel seno della Mamma mia;
fissa il tuo sguardo nella mia umanità già concepita, e vi troverai ancora
l’anima tua concepita con me, e le fiamme del mio amore che ti hanno incendiata
tutta d’amore per me, ed allora faranno sosta quando ti avranno in me
consumata. Oh, quanto ti ho amato, ti amo e ti amerò in eterno!”.
Al sentire Gesù, che così mi
parlava, io mi sperdevo in mezzo a tanto amore e non sapevo come
corrispondergli; se non che una voce interna venne a scuotermi col dirmi:
“Figlia mia, ciò è nulla, in paragone di quanto si opera dal mio amore.
Stringiti perciò più a me; dà le tue mani alla mia cara Mamma, affinché ti
tenga viepiù stretta sul suo seno materno, e tu intanto dà un altro sguardo
alla mia piccola umanità concepita nel tempo per concepire le anime per l’eternità,
il che ti darà campo a considerare il quarto eccesso del mio amore, che si
rende operativo”.
“Figlia mia, se tu vuoi passare
dall’amore sì divorante all’amore mio operante, mi scorgerai immerso in un abisso
senza fondo di sofferenze. Considera che ogni anima in me concepita mi portò il
fardello dei suoi peccati, delle sue debolezze e passioni, ed il mio amore
m’impose a prendere il fardello di ciascuna, per cui, dopo aver concepito in me
le loro anime, concepii ancora le loro pene e le soddisfazioni che ognuna di
loro doveva dare al mio celeste Padre. Perciò non deve meravigliarti se la mia
passione fu concepita unitamente a me. Guarda bene nel seno della mia Mamma, e
vi scorgerai quanto e come sento al vivo lo strazio di tante pene! Guarda bene
la mia testolina, circondata da un serto di spine, le quali, trafiggendomi
crudelmente il capo, mi fanno versare dagli occhi fiumi di cocentissime ed
amarissime lacrime. Deh, muoviti tu a compassione di me con l’asciugarmi gli occhi,
versanti tante lacrime, tu che hai libere le braccia per potermelo fare!
E queste spine, figlia mia, non
sono altro che il serto crudele che mi formano le creature coi loro pensieri cattivi,
che si affollano nelle loro menti. Oh, quanto crudelmente essi mi pungono! Oh,
lunga coronazione di nove mesi! E come se questa non bastasse, mi crocifiggono
mani e piedi, giacché mi fanno soddisfare la divina giustizia per loro, che
percorrendo ogni via perversa e commettendo ogni ingiustizia nel traffico
transitorio della vita, passandola[79]
in ogni illecito guadagno; ed in questo stato non mi è possibile poter muovere
né una mano, né un dito, né un piede; sono sempre immobile, sia per la crocifissione
perenne che subisco, sia per lo spazio troppo ristretto in cui vivo. E questa
lunga crocifissione la subii ancora per ben nove mesi! Sai tu, figlia mia,
perché sia la coronazione di spine che la crocifissione mi si rinnovano ad ogni
momento? Perché il genere umano non smette mai di macchinare disegni malvagi e
compiere atti cattivi, i quali, prendendo forma di spine e chiodi, mi trafiggono
con quelle le tempie e con questi ripetutamente mani e piedi”.
E così Gesù nell’affanno e nel
dolore continuava a narrarmi ciò che nella sua piccola umanità soffriva di pene,
dolori e martiri, nel seno materno, il che tralascio per non rendermi troppo
lunga e perché non mi regge il cuore a narrare tutto ciò che il benedetto Gesù
ha sofferto in esso per nostro amore. Io non sapevo far altro che abbandonarmi
ad un dirotto pianto; ma tosto mi scuoteva di nuovo la sua flebile voce,
dicendomi internamente al cuore: “Figlia mia, oh, quanto vorrei abbracciarti
per ricambiarti l’amore penante che senti per me, ma non lo posso ancora, ché
come vedi sono racchiuso in questo piccolo spazio che mi obbliga all’immobilità.
Vorrei venire a te, ma ciò non mi è dato, perché non posso camminare per ora.
Figlia del mio primo amore penante, vieni tu spesso spesso a me ed abbracciami,
che poi, quando uscirò dal seno materno, verrò io a te e allora ti abbraccerò e
starò teco”.
E mentre con la mia fantasia
m’immaginavo di essere con lui nel seno della Mamma, e me lo abbracciavo e me
lo stringevo forte forte al mio cuore tutto addolorato, di nuovo mi faceva
sentire la sua voce, che internamente mi diceva: “Basta così per ora, figlia
mia; passa piuttosto a considerare il quinto eccesso del mio amore, che, sebbene
da tutti vilipeso e messo in non cale, non indietreggia mai, né fa sosta, bensì
sormonta tutto e va sempre avanti”.
Sentendomi chiamare da Gesù a
considerare il quinto eccesso del suo amore, tesi l’orecchio del cuore ad ascoltare
la flebile ma creatrice voce di Gesù, che internamente mi diceva: “Figlia mia,
non ti discostare da me, non mi lasciare solo. Il mio amore brama essere sempre
in compagnia; e questo, sappi, è un altro eccesso del mio amore, ché come la
mia divinità essenzialmente forma l’unione più intima che si possa dare, così
la mia umanità, ipostaticamente unita al mio Verbo eterno, non può naturalmente
non essere portata a deliziarsi della compagnia delle creature.
Notasti che non appena fui
concepito nel seno della mia Mamma, nel tempo stesso concepii alla grazia tutte
le umane creature, affinché concepite in me crescessero al par di me in
sapienza e verità. Ecco perché amo la loro compagnia e voglio stare in continua
corrispondenza d’amore con loro, e spesso spesso comunicare ad esse l’attestato
più palpitante del mio amore. Voglio continuamente essere in soave colloquio
d’amore con loro, per tenerle a giorno delle mie gioie e dei miei dolori; bramo
ancora far loro conoscere che son venuto dal cielo in terra, non per altro fine
che per renderle pienamente felici, e quindi bramo di stare in mezzo a loro
come un fratellino, per riscuotere benevolenza ed amore, per ridare a ciascuna
tutti i miei beni, il mio proprio regno, a costo dei più duri sacrifizi, non
escluso quello della mia morte per la loro vita. Bramo, insomma, trastullarmi
con loro, col colmarle di baci e delle più soavi carezze d’amore. Ma, ahimè,
sappi che in cambio del mio amore non ricevo altro che continui dolori e pene!
Ed infatti, vi è chi svogliatamente ascolta la mia parola di vita eterna; chi
schiva la mia compagnia; vi è chi si svincola dal mio amore, chi mi fugge, chi
fa il sordo, e perciò mi riduco al silenzio; ma vi è di più, chi direttamente
mi disprezza e mi oltraggia. I primi non si curano dei miei beni e del mio
regno, ricambiano i miei baci e carezze con la noncuranza e dimenticanza di me,
e quindi il mio trastullo che dovrei tener [con] loro si riduce al silenzio e
all’abbandono; ma i secondi, che sono i più, convertono il mio amore per loro
in amarissimo pianto, che naturalmente è sfogo del cuore, che non solo non è
appagato, ma bensì vilipeso, sprezzato ed oltraggiato. E dire, poi, che mentre
sono in mezzo a loro, sono sempre solo! Oh, quanto mi pesa la solitudine
forzata che mi procurano esse col loro abbandono, col farsi sorde anche ad una
mia parola, e con l’impedirmi ogni sfogo d’amore! Sono sempre solitario, mesto
e taciturno, perché se parlo non vengo punto ascoltato… Ah, figlia mia, supplisci
tu al defraudato mio amore, col non lasciarmi mai solo in questa mia
solitudine! Dammi il bene di farmi parlare col darmi ascolto, prestando il tuo
orecchio ai miei insegnamenti. Sappi che io sono il maestro dei maestri, e se
tu mi ascolti, oh, quante cose non apprenderai da me, e nel tempo stesso mi
farai cessare dal pianto col farmi teco trastullare. Dimmi, vuoi tu trastullarti
con me?”.
Ed io, dopo di essermi protestata
di essergli sempre fedele, mi abbandonavo in lui, amandolo nella mia più tenera
compassione verso di lui, che pur essendo tanto magnanimo da voler deliziare
con se stesso la creatura, da questa viene lasciato solo, senza alcun sollievo,
e nella più tetra solitudine. Ma mentre così passavo la mia quinta ora di
meditazione, la voce interna del mio Gesù si faceva di nuovo sentire al cuore:
“Basta, basta così; passa ora a considerare il sesto eccesso del mio amore”.
“Figlia mia, sia teco la mia
intimità. Avvicinati sempre più a me, e prega la mia cara Mamma che ti faccia
un po’ di posticino nel suo materno seno, affinché tu stessa possa constatare
lo stato doloroso in cui mi trovo”.
Col pensiero quindi m’immaginavo
che la mia Regina Mamma, a volermi attestare il suo materno e più grande affetto
verso di me, mi facesse congiungere nel suo seno al dolce ed affabile Gesù,
incarnato in lei, e mi raffiguravo come se fossi già nel suo seno, stretta
stretta col mio amabile Gesù. Ma era tale e tanta l’oscurità che ivi regnava,
che mi riusciva affatto impossibile vedere le sue fattezze, ma solo sentivo il
suo infocato sospiro d’amore, mentre nel mio interno seguitava a dirmi: “Figlia
mia, considera un altro eccesso del mio amore. Io sono la luce eterna, e non vi
è altra luce fuor di me più splendente. Considera per poco il sole, quando è
nel suo pieno splendore; eppure esso non è altro che un’ombra della mia luce
eterna. Ebbene, questa mia luce eterna per amore della creatura si eclissa
interamente in me per l’assunta umanità. Vedi tu in che oscura prigione mi ha
ridotto l’amore? Sì, è per amore della creatura che mi sono così confinato, ad
attendere che si faccia uno spiraglio di luce; ma ho dovuto pazientare per ben
nove mesi in sì fitta notte, ma notte senza stelle, senza riposo, ma sempre desto
in attesa della luce del sole che ancora non mi arriva… Che pena io provo! La
strettezza della prigione, che non mi dà campo di potermi menomamente muovere,
mi procura indicibile affanno; la mancanza di luce, che nulla mi fa vedere
ancora, mi dà tanta pena da togliermi fin anche il respiro, che ricevo languidamente
per mezzo del respiro della Mamma. Ma sai tu chi mi ha tratto in questa
prigione, chi mi ha tolto la luce, e chi mi fa sempre più languire nel mio
respiro? È stato l’amore che sento per la creatura; sono le tenebre delle colpe
delle creature, perché ogni colpa è una notte di più per me; è la durezza del
cuore umano, in cui non vi entra alcun ravvedimento; è la nera ingratitudine,
che come mostro infernale mi soffoca il respiro; tutti assieme mi formano un
abisso, senza fondo, di oscurità, di soffocamento, di dolori inauditi. Che
pena! Oh, eccesso del mio amore non corrisposto, tu mi hai fatto passare da una
immensità di luce eterna in una profondità di fitte tenebre, ed in tale
strettezza da farmi mancare la libertà del respiro!”.
Mentre Gesù tutto ciò mi diceva,
gemeva, ma con gemiti soffocati per la ristrettezza dello spazio, ed io mi
stemperavo in lacrime per la compassione, e volevo fargli un po’ di luce col
mio amore, come egli richiedeva. Ma chi può dire ciò che Gesù ed io soffrivamo
a vicenda, per amor delle creature? Ma in tanto dolore e pena, il mio sempre
amabile Gesù fece sentire nell’interno del mio cuore la sua dolce parola:
“Basta così per ora; passa piuttosto al settimo eccesso del mio amore”.
Quindi mi soggiungeva: “Figlia
mia, non volermi lasciare solo in tanta solitudine ed in tanta oscurità; non
voler uscire dal seno della Mamma mia, per ben considerare il settimo eccesso
del mio amore.
Ascoltami: nel seno del mio
celeste Padre io ero pienamente felice; non c’era bene che io non possedessi:
gioia, felicità, tutto era a mia disposizione. Gli angeli, riverenti, mi
prestavano culto di somma adorazione e tutti pendevano dei miei cenni. Ma
l’eccesso del mio amore per il genere umano, potrei dire, mi fece cambiar fortuna.
Mi spogliai di tutte le mie gioie e felicità, mi svestii di tutti i miei beni e
d’ogni celestiale comodità, per vestirmi di tutte le infermità delle creature,
a fine di procurar loro la mia felicità eterna, le mie gioie ed i miei contenti
eterni. Questo cambio, però, sarebbe stato ben lieve per me, se non avessi
trovato in loro la più mostruosa ingratitudine ed ostinata perfidia. Oh, come
il mio eterno amore restò sorpreso innanzi a tanta ingratitudine! Oh, quanta pena
mi dà l’ostinatezza e la perfidia dell’uomo, le quali sono per me più che
spine, le più pungenti al mio cuore, che sin dal mio concepimento ebbe a
soffrire inenarrabili punture, e continuerà sino all’ultimo momento della mia
vita. Guarda, guarda bene il mio cuoricino, in quante spine si trova; osserva
le ferite che gli fanno ed il sangue che a rivi sgorga da esso! Oh, che pena, e
quanti dolori io sento mai!
Figlia mia, non essermi ancor tu
ingrata, giacché l’ingratitudine è la pena più dura e più crudele per il tuo
Gesù. L’ingratitudine è più che chiudermi in faccia la porta del cuore, per
farmi restar fuori, tutto assiderato dal freddo disamorato. Eppure il mio
amore, a tanta perversità del cuore umano, non si è arrestato, anzi si atteggia
ad un altro amore più elevato, che mi fa divenire supplicante, gemente e supplicante
per loro; e questo, figlia mia, è l’ottavo eccesso del mio più possente amore”.
“Figlia mia, non mi lasciar solo;
continua a poggiare le tua testa sul seno della Mamma, che anche dal di fuori
sentirai i miei gemiti e le mie suppliche; ma vedrai che né i miei gemiti, né
le mie suppliche, moveranno a compassione del mio amore l’ingrata creatura, e
mi vedrai allora, ancor piccino, stendere la mia mano come il più povero dei
mendicanti e chiedere per pietà le loro anime, a titolo almeno di elemosina.
Spero che in questo modo potrò attirarmi i loro affetti ed i loro cuori, assiderati
dall’egoismo. Il mio amore, figlia mia, vuol vincere a qualunque costo il cuore
dell’uomo, ed è perciò che vedendo [che] questi, dopo aver usato il settimo
eccesso del mio amore, ne era ancor restio, facendo il sordo col non curarsi né
di me, né dei miei beni, mi son deciso a spingermi più oltre. Il mio amore
avrebbe dovuto arrestarsi innanzi a tanta ingratitudine; ma no, vuole uscire
anche fuori dei suoi limiti, e fin dal seno materno fa giungere la mia voce
supplichevole ad ogni cuore; uso i modi più insinuanti, le parole più dolci e
penetranti e le preghiere più commoventi, per toccare le fibre del cuore umano
e per ottenere… sai tu che cosa? Il cuore delle creature. Ad [essa] dico:
‘Figlia mia, dammi il tuo cuore, che è mio, ed io ti darò tutto ciò che vuoi ed
ancor me stesso, purché mi dia in cambio il tuo cuore. Benché freddo d’amore,
io lo riscalderò al contatto del mio cuore e lo farò andare in fiamme, da far
distruggere in te ogni affetto che non sa di cielo. Se son disceso dal cielo
per incarnarmi nel seno materno, sappi che l’ho fatto appunto per farti
entrare nel seno del mio celeste Padre. Deh, non me lo negare, non rendere
deluse le mie speranze, che per te saranno certezza d’infiniti beni’.
Ciononostante, vedendo la
creatura ancor restia al mio amore, che anzi mi volse le spalle e se ne
allontanò da me, ho cercato di fermarla, e coi gemiti più teneri e supplichevoli,
e congiungendo le mie manine, ho cercato di scongiurarla, dicendole con voce
soffocata da singhiozzi: ‘Deh, vedi, anima mia, che io non sono altro che il
piccolo mendico, che null’altro ti chiede in elemosina che solo il tuo cuore?
Figlia mia, possibile che non voglia tu comprendere che questo mio modo di
agire non è altro che l’eccesso più grande del mio amore non corrisposto? Che
il Creatore, per attirare al suo amore la creatura, prenda la forma di piccolo
bambino, per non incutere timore, e s’induca a chiedere [in] elemosina il
deformato suo cuore, e vedendola ricalcitrante e restia a non volerglielo dare,
la prega, la supplica, geme e piange…, non ti muove a compassione? Non rammollisce
il tuo cuore?’. Eppure, figlia mia, la creatura ragionevole pare che abbia
perduto affatto l’uso di ragione, ché mentre dovrebbe restare annegata nelle
fiamme del mio divino amore, cerca invece di disfarsene, per andare in cerca
dei più bestiali amori, per cui dovrà precipitare nel caos infernale, in cui a
mille doppi piangerà in eterno”.
A queste parole di Gesù mi
sentivo tutta intenerire e nel tempo stesso raccapricciare e rabbrividire,
pensando all’umana ingratitudine, e poi alle tristissime conseguenze eterne e
irreparabili. Mentre ero immersa in questa duplice considerazione, la voce del
mio Gesù internamente si fece sentire nel mio cuore così: “E tu, figlia mia,
non vorresti darmi il tuo cuore? Vorresti tu forse che anche per te io pianga e
mi stemperi in gemiti e suppliche, affine di ottenere il possesso del tuo
cuore?”. Ma mentre Gesù mi diceva tutto ciò singhiozzando, preso il mio cuore
da un’ineffabile tenerezza per il non corrisposto suo amore, e tutto palpitante
dal più vivo e non mai sentito amore, gli risposi: “Mio diletto Gesù, non piangere
più; sì, sì che ti ridono non solo il mio cuore, ma tutta me stessa. Non esito
a dartelo, ma per renderti un dono più gradito vorrei prima togliere dal freddo
cuore mio, tutto ciò che non è tuo. Dammi perciò la grazia efficace per renderlo
simile al tuo, affinché [tu vi] possa prendere stabile e perenne dimora”.
Dopo ciò, Gesù senz’altro
aggiunse: “Figlia mia, è tempo che per ora passi più oltre. Entra a considerare
il nono eccesso del mio amore”.
“L’attuale mio stato, figlia mia,
si fa sempre più doloroso. Se tu mi ami, procura che il tuo sguardo sia sempre
fisso in me, affinché possa ben apprendere tutto ciò che ti ho insegnato, affin
di apprestare al tuo piccolo Gesù un qualche sollievo alle tante pene che soffre;
fosse anche una tua parola di amore, una tua carezza o un affettuoso bacio,
affinché il mio cuore abbia il dolce contento di sentirsi corrisposto con
amore, che darà tregua al mio amarissimo pianto ed alle dure afflizioni che qui
soffro. Senti, figlia mia, l’uomo, dopo d’avergli dato tante prove di amore
mercé gli otto eccessi del mio amore, avrebbe dovuto piegarsi al contatto del
vero e sublime mio amore, ma invece mi contraccambia sì malamente da farmi così
passare ad un altro eccessivo amore, che per me sarà il più doloroso se non
verrò corrisposto.
L’uomo sinora non si è dato per
vinto, ed è perciò che all’ottavo eccesso di amore faccio seguire il nono, che
consiste tutto nelle ansie, le più amorose, nei sospiri più infuocati di amore
per lui, e nei desideri più ardenti di volermi poter sprigionare dal seno
materno, affin di corrergli dietro, e dopo averlo fermato sulla china del male,
bramo abbracciare e baciare quest’uomo ingrato del mio amore, per far che
s’innamori della mia bellezza, della mia verità e dei miei beni eterni, dei
quali voglio renderlo eterno possessore ad ogni costo. Questo mio inestimabile
disegno riduce la mia piccola umanità, non ancor nata, ad un’agonia tale, da
farmi giungere all’ultimo anelito della mia vita, che se non fosse stata soccorsa
e sostenuta dalla mia divinità, che da lei è inseparabile per l’unione
ipostatica, già a quest’ora avrebbe esalato l’ultimo suo respiro. La divinità,
comunicandole continuamente dolci sorsi di novella vita, la fa resistere alla
continuata agonia di nove mesi, che si direbbero mesi più di morte che di vita.
Questo, figlia mia, è il nono
eccesso del mio amore, che non fu altro se non che un continuo agonizzare sin
dal primo istante in cui la mia divinità entrò in questo seno materno, per
prendere le spoglie umane, per ivi nascondere l’essenza della stessa mia
divinità, altrimenti invece di amore incuterei timore alla creatura che vuole
sposarsi al mio amore. Ma, ahimè, che lunga agonia non fu per me, quella di
aspettare per ben nove mesi questa creatura! Oh, come l’amore mi soffoca e mi
riduce ad un continuo morire! Ti ripeto, figlia mia, che se la mia umanità non
avesse avuto dalla divinità aiuto e forza a sostenere l’amore immenso che tutto
mi divora, si sarebbe purtroppo incenerita e consumata per l’amore operante,
che mi ha fatto addossare l’enorme fardello delle pene dovute ad ogni creatura,
insieme alle soddisfazioni richieste dalla divina giustizia e all’amore
supplicante, gemente e supplicante, che cosa mai? Il cuore freddo ed insensibile
delle creature. Ecco perché la mia vita nel seno materno si è resa tanto
dolorosa, da non sentirmi più capace di star lontano dalla creatura. Bramo ad
ogni costo di avvicinarla al mio seno, per farle sentire i miei palpiti
infocati d’amore; di abbracciarla col mio più tenero e sviscerato affetto,
affin di renderla padrona dei miei beni eterni... E sappi che se non venissi or
ora da te sollevato, prima ancora che potessi uscire alla luce del giorno
resterei affatto consumato dall’eccesso di questo mio novello amore. Guardami
fisso fisso nel seno materno, e vedi come son divenuto pallido pallido; ascolta
la mia voce che si rende, al par di un agonizzante, sempre più flebile; senti
il palpito del mio cuore che, tanto accelerato nel suo battito, ora è quasi
senza pulsazione. Guardati dal divagare lo sguardo da me, perché, osservami bene,
io mi sento che adesso adesso io muoio… Sì, io muoio, e muoio di puro amore!”.
In questo mentre ancor io sentii
venirmi meno la vita per amor di Gesù, e perciò si fece da entrambi profondo
silenzio, silenzio sepolcrale. Il mio sangue si agghiacciò ed arrestò nelle mie
vene, tanto che il mio cuore non me lo sentii più battere nel petto; il respiro
mi venne meno, e tutta tremante stramazzai di peso sulla nuda terra. In
quell’assopimento mortale soltanto la mia lingua balbettava: “Gesù mio..., amor
mio..., vita mia..., mio tutto, non morire, che io sempre t’amerò…, mai più,
mai più ti lascerò, a costo pure di qualsiasi sacrifizio. Dammi però sempre le
fiamme del tuo amore, per poterti sempre più amare e consumarmi al più presto,
tutta tua, di amore per te, sommo ed eterno mio bene”.
Allora sì, posso dire che mi
sentii più che morta per amore del mio Gesù, il quale, già nato per questa
nostra vita di morte, per farci prima assoggettare alla morte della nostra
volontà e poscia a quella vera vita e vita eterna, al suo primo tocco mi fece
rinvenire dall’assopimento in cui ero caduta, pronunziando queste soavissime
parole: “Figlia, rinata per il mio amore, su, levati alla vita della mia grazia
e del mio amore; corrispondimi in tutto, e come mi hai affatto compagnia con le
nove considerazioni sull’eccesso del mio amore, lungo la novena della mia
natività, così continua a fare altre ventiquattro considerazioni circa la mia
passione e morte di croce, distribuendole nelle 24 ore della giornata, nelle
quali scorgerai altri eccessi più sublimi del mio amore, e mi sarai di continuo
sollievo nelle dolorosissime pene che mi vengono dalle ingrate creature; ed in
vita sarai del tutto amante della mia sepoltura, ed in morte avrai l’ottima parte
della mia gloria”.
INDICE
Vol 2 J.M.J.
VOLUME 2°
Febbraio 28, 1899 (1)
Gesù le parla della fede.
Per ordine del confessore
incomincio a scrivere ciò che passa tra me e Nostro Signore giorno per giorno.
Anno 1899, mese di febbraio, giorno 28. Confesso la verità, gran ripugnanza io
provo; è tanto lo sforzo che devo fare per vincermi, che solo il Signore può
sapere lo strazio dell’anima mia. Ma, oh santa obbedienza, che legame potente
tu sei! Tu sola potevi vincermi e, superando tutte le mie ripugnanze, come
monti insuperabili, mi leghi alla Volontà di Dio e del confessore. Ma deh, o
sposo santo, per quanto è grande il sacrifizio, altrettanto ho bisogno d’aiuto;
non voglio altro, che m’introduciate nelle vostre braccia e mi sosteniate;
così, assistita da voi, possa dire la sola verità, per sola gloria vostra e per
mia confusione.
Questa mattina, avendo celebrata
la messa il confessore, ho fatto anche la comunione. La mia mente si trovava in
un mare di confusione per cagione di queste obbedienze che mi vengono date dal
confessore, di scrivere tutto ciò che passa nel mio interno. Appena ricevuto
Gesù, ho incominciato a dirgli le mie pene, specialmente la mia insufficienza,
e tant’altre cose; ma Gesù pareva che non si curava del fatto mio, e non
rispondeva a niente. Mi è venuto un lume nella mente ed ho detto: “Chi sa che
non sono io stessa la causa che Gesù non si mostra secondo il suo solito”.
Allora con tutto il cuore gli ho detto: “Deh! Mio bene e mio tutto, non
mostrarti meco sì indifferente, il cuore me lo fai spezzare per il dolore; se è
per lo scritto, venga [quel] che venga, mi costasse il sacrifizio della vita,
vi prometto di farlo”.
Allora Gesù ha cambiato aspetto,
e tutto benigno mi ha detto: “Che cosa tu temi? Non ti ho io assistito le altre
volte? La mia luce ti circonderà da per tutto, e così potrai tu manifestarla”.
Mentre così diceva, non so come,
ho visto il confessore vicino a Gesù, ed il Signore gli ha detto: “Vedi, tutto
ciò che fai passa nel cielo, perciò vedi la purità con cui devi operare,
pensando che tutti i tuoi passi, parole ed opere, vengono alla mia presenza, e
se son puri, cioè fatti per me, io ne prendo diletto grandissimo e me li sento
a me d’intorno, come tanti messaggeri che mi ricordano continuamente di te; ma
se sono per fini bassi e terreni invece, ne prendo fastidio”.
E mentre così diceva, pareva che
gli prendesse le mani e, sollevandole al cielo, gli diceva: “L’occhio sempre in
alto, sei del cielo, opera per il cielo”. Mentre vedevo il confessore, e che
Gesù così gli diceva, nella mia mente mi pareva che, se così si operasse,
succedeva[1]
lo stesso come quando una persona deve sloggiare da una casa per andare ad
un’altra: che fa? Prima manda tutte le robe e tutto ciò che essa tiene, e poi
se ne va essa. Così noi, prima mandiamo le nostre opere a prenderne il posto
per noi nel cielo, e poi, quando giungerà il nostro tempo, andremo noi. Oh, che
bel corteggio ci faranno! Or, mentre vedevo il confessore, mi ricordavo che mi
aveva detto che dovevo scrivere sulla fede, e il modo come il Signore mi aveva
parlato su questa virtù. Mentre così pensavo, in un istante il Signore mi ha
tirato talmente a sé, che mi son sentita fuori di me stessa nella volta dei
cieli, insieme con Gesù, e mi ha detto queste precise parole: “La fede è Dio”.
Ma queste due parole contenevano una luce immensa, che è impossibile spiegarlo;
ma come posso, lo dirò.
Nella parola fede comprendevo che la fede è Dio stesso. Come al corpo il cibo
materiale dà vita acciocché non muoia, così la fede dà la vita all’anima; senza
la fede l’anima è morta. La fede vivifica, la fede santifica, la fede
spiritualizza l’uomo e gli fa tenere l’occhio all’Ente Supremo, in modo che
niente apprende delle cose di quaggiù, e se le apprende, le apprende in Dio.
Oh, la felicità di un’anima che vive di fede! Il suo volo è sempre verso il
cielo; in tutto ciò che le succede si rimira sempre in Dio, ed ecco come: nella
tribolazione, la fede la solleva in Dio, e non se ne affligge, neanche mena
lamento, sapendo che non deve formare qui il suo contento, ma nel cielo. Così,
se la gioia, la ricchezza, i piaceri, la circondano, la fede la solleva in Dio
e le fa dire fra sé: “Oh, quanto sarò più contenta, più ricca nel cielo!”. Quindi,
di questi beni terreni ne prende fastidio, li disprezza, se li mette sotto i
piedi. A me sembra che ad un’anima che vive di fede, succede come ad una
persona che possedesse milioni e milioni di monete, ed anche regni interi, ed
un’altra che vorrebbe[2]
offrirle un centesimo. Or, che direbbe costei? Non l’avrebbe a sdegno, non
glielo getterebbe in faccia? Aggiungo: e se quel centesimo fosse tutto
infangato, qual sono le cose terrene? Di più: e se quel centesimo fosse dato
solo in prestito? Or, direbbe costei: “Immense ricchezze io godo e posseggo, e
tu ardisci d’offrirmi questo vil centesimo, così fangoso e solo per poco
tempo?”. Io credo che ritorcerebbe subito lo sguardo, e non accetterebbe il
dono. Così fa l’anima che vive di fede riguardo alle cose terrene.
Ora, andiamo un’altra volta
all’idea del cibo; il corpo, prendendo il cibo, non solo si sostiene, ma
partecipa della sostanza del cibo che si trasforma collo[3]
stesso corpo. Ora, così l’anima che vive di fede; siccome la fede è Dio stesso,
l’anima viene a vivere dello stesso Dio, e cibandosi dello stesso Dio viene a
partecipare della sostanza di Dio e, partecipando, viene ad assomigliarsi a lui
e a trasformarsi collo[4]
stesso Dio. Quindi, avviene all’anima che vive di fede, che: santo Iddio, santa
l’anima; potente Iddio, potente l’anima; sapiente, forte, giusto, Iddio,
sapiente, forte, giusta, l’anima; e così di tutti gli altri attributi di Dio.
Insomma, l’anima diviene un piccolo Dio. Oh, la beatitudine di quest’anima
sulla terra, per essere poi più beata nel cielo!
Compresi ancora [che] non altro
significano quelle parole che il Signore dice alle anime sue dilette, cioè: “Ti
sposerò nella fede”, che il Signore in questo mistico sposalizio viene a dotare
le anime delle sue stesse virtù. Mi sembra come due sposi, che unendo le loro
proprietà insieme, non si discerne più la roba dell’uno e dell’altra, e ambedue
si rendono padroni. Ma nel fatto nostro, l’anima è povera, tutto il bene è da
parte del Signore, che la rende partecipe delle sue sostanze.
Vita dell’anima è Dio, la fede è
Dio; e l’anima, possedendo la fede, viene ad innestare in sé tutte le altre
virtù, di modo che essa[5]
se ne sta come re nel cuore e le altre se ne stanno d’intorno come suddite,
servendo alla fede; sicché le stesse virtù, senza la fede, sono virtù che non
hanno vita. Pare a me che Iddio in due modi comunica la fede all’uomo. La prima
è nel santo battesimo. La seconda è quando Iddio benedetto, spiccando una
particella della sua sostanza nell’anima, le comunica le virtù di far miracoli,
come poter risorgere i morti, sanare gl’infermi, arrestare il sole ed altro.
Oh, se il mondo avesse fede, si cambierebbe in un paradiso terrestre! Oh,
quanto alto e sublime è il volo dell’anima che si esercita nella fede! A me
sembra che l’anima, esercitandosi nella fede, fa come quei timidi uccelletti
che, temendo di essere presi dai cacciatori oppure da qualche altra insidia, fanno
la loro dimora sulle cime degli alberi, oppure sulle alture; quando poi son
costretti a prendere il cibo, scendono, prendono il cibo, e subito se ne volano
nella loro dimora; e qualcuno più accorto prende il cibo e neppure se lo mangia
sul terreno, per essere più sicuro se lo porta sulle cime degli alberi e là se
lo inghiotte. Così l’anima che vive di fede: è tanto timida delle cose terrene
che, per paura di essere insidiata, neppure le degna d’uno sguardo. La sua
dimora è in alto, cioè sopra tutte le cose della terra, e specialmente nelle
piaghe di Gesù Cristo, e da dentro quelle beate stanze, geme, piange, prega e
soffre insieme col suo sposo Gesù, sulla condizione e miseria in cui giace il
genere umano. Mentre essa vive in quei forami delle piaghe di Gesù, il Signore
le dà una particella delle sue virtù, e l’anima si sente in sé quelle virtù
come se fossero sue; ma però avverte che, sebbene se le vede sue, il possesso
che le viene dato, è stato comunicato dal Signore. Succede come ad una persona
che ha ricevuto un dono che essa non possedeva; ora, che fa? Se lo prende e se
ne rende padrona, ma ogniqualvolta lo guarda, dice fra sé: “Questo è mio, però
mi fu donato da quel tale”.
Così fa l’anima cui il Signore,
spiccando da sé una particella del suo Essere Divino, la trasmuta in se stesso.
Or, quest’anima, oh! Come aborrisce il peccato, ma insieme compatisce gli
altri, prega per chi vede che cammina nella via del precipizio, si unisce
insieme con Gesù Cristo e si offre vittima a soffrire per placare la divina
giustizia e per risparmiare le creature dai meritati castighi. E se fosse necessario
il sacrificio della vita, oh, quanto volentieri lo farebbe per la salvezza
[anche] di un’anima sola!
Avendomi detto il confessore che
io gli spiegassi come veggo la divinità di Nostro Signore qualche volta, io gli
risposi che era impossibile sapergli dir nulla; ma la notte mi apparve il
benedetto Gesù, e quasi mi rimproverò di questo mio diniego; ed allora mi fece
balenare come due raggi luminosissimi. Col primo compresi nel mio intelletto
che la fede è Dio e Dio è la fede; mi son provata a dire qualche cosa sulla
fede, proverò [ora] a dire come veggo Iddio, e questo fu il secondo raggio.
Ora, mentre mi trovo fuori di me
stessa e trovandomi nell’alto dei cieli, mi è parso di vedere Dio dentro a una
luce, ed egli stesso pareva anche luce; ed in questa luce si trovava bellezza,
fortezza, sapienza, immensità, altezza, profondità, senza termini e confini;
sicché pure nell’aria che respiriamo vi è Dio, è Dio stesso che si respira;
sicché ognuno lo può fare come vita propria, come lo è infatti. Sicché nessuna
cosa gli sfugge e nessuno lo può sfuggire. Questa luce pare che sia tutta voce,
senza che parla; tutta operante, mentre sempre riposa; si trova da per tutto,
senza niente ingombrare; e mentre si trova da per tutto, tiene anche il suo
centro. Oh Dio, quanto sei incomprensibile! Ti veggo, ti sento, sei la mia
vita, ti restringi in me, mentre resti sempre immenso e niente perdi di te;
eppure mi sento balbuziente e mi pare di non saperne dire nulla.
Per potermi spiegare meglio,
secondo il nostro umano linguaggio, dirò che veggo un’ombra di Dio in tutto il
creato; perché in tutto il creato, dove ha gettato l’ombra della sua bellezza,
dove i suoi profumi, dove la sua luce, come nel sole, [nel quale] io veggo
un’ombra speciale di Dio. Lo veggo come adombrato in questo pianeta, come re di
tutti gli altri pianeti.
Che cosa è il sole? Non è altro
che un globo di fuoco; uno è il globo, ma molti sono i raggi, di modo che noi
possiamo comprendere facilmente, il[6]
globo, Iddio, e dai raggi, gli immensi attributi di Dio.
Secondo: il sole è fuoco, ma
insieme è luce ed è calore, quindi la Santissima Trinità è adombrata nel sole;
il fuoco è il Padre, la luce è il Figlio, il calore è lo Spirito Santo, ma uno
è il sole; e come non si può dividere il fuoco dalla luce e dal calore, così
una è la potenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che fra loro non
si possono realmente separare. Come il fuoco nello stesso istante produce la luce
ed il calore, sicché non si può concepire il fuoco senza concepirsi anche la
luce ed il calore, così non si può concepire il Padre prima del Figlio e dello
Spirito Santo, e così, vicendevolmente hanno tutti e Tre lo stesso principio
eterno.
Aggiungo che la luce del sole si
spande ovunque; così Iddio, con la sua immensità, dovunque penetra; però
ricordiamoci che questo non è che un’ombra, perché il sole non giunge dove non
può penetrare con la sua luce, ma Dio penetra dovunque. È spirito purissimo
Iddio, e noi lo possiamo raffigurare nel sole che fa penetrare i suoi raggi
dovunque, e senza che nessuno li possa prendere fra le mani; di più: Dio guarda
tutto, le iniquità, le nefandezze degli uomini, e lui resta sempre quello che
è, puro, santo, immacolato. Ombra di Dio è il sole, che manda la sua luce sulle
immondezze e resta immacolato; nel fuoco, spande la sua luce e non si arde; nel
mare, nei fiumi, e non si affoga; dà luce a tutti e feconda tutto; dà vita a
tutto col suo calore e non si ammiserisce di luce, né niente perde del suo
calore; e molto più, fa tanto bene a tutti e lui di nessuno fa bisogno, e resta
sempre quello che è: maestoso, risplendente, senza mai mutarsi.
Oh, come si ravvisano bene nel
sole le qualità divine! Con la sua immensità si trova nel fuoco e non si arde;
nel mare e non si affoga; sotto dei nostri piedi e non [lo] si calpesta; dà a
tutti e non si ammiserisce, e di nessuno fa bisogno; guarda tutto, anzi è
tutt’occhi e non c’è cosa che non sente, è a giorno d’ogni fibra del nostro
cuore, d’ogni pensiero della nostra mente. Ed essendo spirito purissimo, non ha
né orecchie né occhi, e per qualunque successo non mai si muta. Il sole,
investendo il mondo con la sua luce, non si affatica; così Iddio, dando vita a
tutti, aiutando e reggendo il mondo non si affatica. Per non godere più,
l’uomo, la luce del sole ed i suoi benefici influssi, può nascondersi, può
mettere ripari, ma al sole nulla fa, [il sole] rimane quello che è; il male
cadrà tutto sopra dell’uomo. Così, col peccato può allontanarsi da Dio e non godere
più i suoi benefici influssi, ma a Dio nulla gli fa, il male è tutto suo.
Anche la rotondità del sole mi
simboleggia l’eternità di Dio, che non ha né principio né fine. La stessa luce
penetrante del sole, che nessuno può restringere nel suo occhio, che se alcuno
volesse fissarlo nel suo pieno meriggio resterebbe abbagliato, e se il sole si
volesse avvicinare all’uomo, l’uomo ne resterebbe incenerito, così del sol
Divino: nessuna mente creata può restringerlo nella sua piccola mente, per
comprenderlo in tutto quello che è; e se volesse sforzarsi, ne resterebbe
abbagliato e confuso; e se questo sole Divino volesse sfoggiare tutto il suo
amore, facendolo sentire [all’uomo] mentre è in carne mortale, l’uomo ne resterebbe
incenerito. Onde [Dio] ha gettato un’ombra di sé e delle sue perfezioni su
tutto il creato, sicché pare [che] lo vediamo e tocchiamo e ne restiamo toccati
continuamente.
Oltre di ciò, dopo che il Signore
disse quelle parole: “La fede è Dio”, io gli dissi: “Gesù, mi vuoi bene?”.
E lui ha soggiunto: “E tu mi vuoi
bene?”.
Io subito ho detto: “Sì, Signore
e voi lo sapete che senza di voi mi sento mancare la vita”.
“Ebbene ‑ ha ripreso Gesù ‑ tu mi
vuoi bene, io pure; quindi amiamoci e stiamoci sempre insieme”.
Così è finito per questa mattina.
Ora, chi può dire quanto la mia mente ha compreso di questo sole divino? Mi
pare di vederlo e di toccarlo ovunque, anzi mi sento investita dentro e fuori
di me stessa; ma la mia capacità è piccina; mentre pare che comprenda qualche
cosa di Dio, al vederlo pare che non ho compreso niente, anzi di avere
spropositato; spero che Gesù perdoni i miei spropositi.
Marzo 10, 1899 (2)
Gesù le mostra molti castighi.
Stando nel mio solito stato, si è
fatto vedere il mio sempre amabile Gesù tutto amareggiato ed afflitto, e mi ha
detto: “Figlia mia, la mia giustizia si è troppo appesantita, e son tante le
offese che mi fanno gli uomini, che non posso più sostenerle. Quindi la falce
della morte sta per mietere molti, e all’improvviso, e di malattie; e poi sono
tanti i castighi che verserò sul mondo, che saranno una specie di giudizio”.
Chi può dire i tanti castighi che
mi ha fatto vedere, ed il modo con cui io sono stata atterrita e spaventata?
L’animo mio, è tanta la pena che sente, che credo meglio passarlo in silenzio;
riprendo a dire, ché l’ubbidienza non vuole. Quindi mi pareva di vedere le
strade piene di carni umane ed il sangue che inondava il terreno; città
assediate da nemici, che non risparmiavano neppure i bambini; [i nemici] mi
parevano come tante furie uscite dall’inferno, non rispettando né chiese né
sacerdoti. Il Signore pareva che mandava un castigo dal cielo; qual sia non so
dire; solo mi pareva che tutti ricevevano un colpo mortale, e chi resterà
vittima della morte e chi si rimetterà. Mi pareva pur di vedere le piante
disseccate e tanti altri mali che devono venire sui raccolti. Oh Dio, che pena,
vedere queste cose ed essere costretta a manifestarle!
Ah! Signore, placatevi; io spero
che il tuo sangue e le tue piaghe saranno il nostro rimedio; oppure versateli[7]
sopra di questa peccatrice, che ne son meritevole, altrimenti prendetemi, che
allora sarete libero di fare ciò che volete; ma finché vivrò, farò quanto posso
per oppormi”.
Marzo 13, 1899 (3)
Gesù le mostra come la carità
non è altro che lo sbocco dell’Essere Divino.
Questa mattina il diletto Gesù
non si faceva vedere, secondo il solito, tutto affabilità e dolcezza, ma
severo. La mia mente me la sentivo in un mare di confusione e l’anima mia tanto
afflitta ed annichilita, specialmente per i castighi visti nei giorni passati.
Vedendolo in quell’aspetto, non ardivo dirgli niente; ci guardavamo, ma in
silenzio. Oh Dio, che pena!
Quando in un momento ho visto
anche il confessore; e Gesù, mandando un raggio di luce intellettuale, ha detto
queste parole: “Carità; la carità non è altro che uno sbocco dell’Essere
Divino, e questo sbocco l’ho diffuso in tutto il creato, di modo che tutto il
creato parla dell’amore che porto all’uomo, e tutto il creato insegna il modo
come deve amarmi, cominciando dall’essere più grande fino al più piccolo
fiorellino del campo”.
“Vedi — dice all’uomo [il piccolo
fiorellino del campo] — col mio soave odore e collo starmi sempre rivolto al
cielo, cerco di mandare un omaggio al Creatore; anche tu fa che tutte le tue
azioni siano odorose, sante, pure; non fare che col cattivo odore delle tue
azioni [tu] offenda il Creatore. Deh! O uomo — ci ripete il fiorellino — non
essere così insensato da tener l’occhio fisso alla terra, ma alzalo al cielo; vedi,
lassù è il tuo destino, la tua patria, lassù è il mio e tuo Creatore che ti
aspetta”.
L’acqua che continuamente scorre
sotto dei nostri occhi, ci dice ancora: “Vedi, dalle tenebre sono uscita, e
tanto devo scorrere e correre, fin quando che giungerò a seppellirmi nel luogo
donde uscii. Anche tu, o uomo, corri, ma corri nel seno di Dio, da dove
uscisti. Deh! Ti prego, non correre le vie storte, le vie che menano al
precipizio, altrimenti guai a te”.
Anche le bestie più selvatiche ci
ripetono: “Vedi, o uomo, come devi essere selvatico per tutto ciò che non è
Dio; vedi, quando noi vediamo che qualcuno si avvicina a noi, coi nostri
ruggiti mettiamo tanto spavento che nessuno ardisce d’avvicinarsi più e
disturbare la nostra solitudine. Anche tu, quando il lezzo delle cose terrene,
ossia le tue passioni violente, stanno per farti infangare e farti cadere nel
precipizio delle colpe, coi ruggiti della tua preghiera e col ritirarti dalle
occasioni in cui ti trovi, sarai salvo da ogni pericolo”.
Così di tutti gli altri esseri,
che dirli tutti sarebbe troppo lungo. Ad unanime voce risuonano fra loro e ci
ripetono: “Vedi, o uomo, per amor tuo ci ha creato il nostro Creatore e tutti a
tuo servizio stiamo, e tu non essere
tanto ingrato; ama, ti prego[8],
ama, ti ripeto, ama il nostro Creatore”.
Dopo di ciò, il mio amabile Gesù
mi disse: “Questo è il tutto che voglio: amar Dio ed il prossimo per amor mio.
Vedi quanto ho amato l’uomo, ed esso è tanto ingrato; come vuoi tu che non lo
castighi?”.
Nell’atto stesso mi parve di
vedere una grandine terribile ed un terremoto che deve fare notabile danno, fino
a distruggere le piante e gli uomini. Allora con tutta l’amarezza dell’animo
mio gli ho detto: “Mio sempre amabile Gesù, perché sei tanto adesso sdegnato?
Se l’uomo è ingrato, non è tanta la malizia, quanto la debolezza. Oh, se vi conoscessero
un poco, oh, come starebbero umili e palpitanti! Perciò placatevi. Almeno vi raccomando
Corato e quelli che a me appartengono”.
Nell’atto di dire così, mi pareva
che anche a Corato doveva succedere qualche cosa; a confronto di quello che
succederà negli altri paesi, sarà niente.
Marzo 14, 1899 (4)
Gesù le mostra altri castighi,
si ritira nel suo cuore e piange la sorte delle creature. Lei consola Gesù e
piange con lui. Continua a veder Gesù ritirato nel suo cuore.
Questa mattina il dolcissimo mio
Gesù, trasportandomi insieme con lui, mi faceva vedere la molteplicità dei
peccati che si commettono, ed erano tali e tanti, che è impossibile
descriverli. Vedevo pure nell’aria una stella di smisurata grandezza, e nella
sua rotondità conteneva fuoco nero e sangue; incuteva tale timore e spavento
nel guardarla, che pareva che fosse minor male la morte, che vivere in tempi sì
tristi. In altri luoghi si vedevano i vulcani, che aprendo altre bocche dovevano
inondare anche i paesi vicini; si vedeva pure gente settari[a], che andavano
procurando gl’incendi.
Mentre io vedevo, il mio amabile
ma afflitto Gesù mi disse: “Hai visto quanto mi offendono, e quello che tengo
preparato? Io mi ritiro dall’uomo”.
E mentre ciò diceva, ci ritirammo
tutti e due nel letto, e vedevo che in questo ritiramento di Gesù, gli uomini
si davano a fare più brutte azioni, più omicidi; in una parola, mi pareva di
vedere gente contro gente. Quando ci fummo ritirati, Gesù pareva che si metteva
nel mio cuore ed incominciò a piangere e singhiozzare, dicendo: “Oh uomo,
quanto ti ho amato! Se tu sapessi quanto mi duole il doverti castigare! Ma a
ciò mi obbliga la mia giustizia. Oh uomo! Oh uomo, quanto piango e mi duole la
tua sorte!”.
Poi dava sfogo al pianto, e di
nuovo ripeteva le parole. Chi può dire la pena, la paura, lo strazio che si
faceva nell’animo, specialmente nel vedere Gesù così afflitto e piangente?
Facevo quanto più potevo a nascondere il mio dolore per consolarlo, e gli dicevo:
“Oh Signore, non sarà mai che castighiate gli uomini! Sposo santo, non
piangete! Come avete fatto altre volte, così farete adesso; verserete in me,
farete a me soffrire, e così la vostra giustizia non vi affliggerà a[9]
castigare le genti”.
E Gesù continuava a piangere, ed
io ripetevo: “Ma statemi a sentire un poco; non mi avete messo in questo letto
perché fossi vittima per gli altri? Forse non sono stata pronta a soffrire le
altre volte per far risparmiare le creature? Perché adesso non volete darmi
retta?”.
Ma con tutto il mio povero dire,
Gesù non s’acquietava dal piangere. Allora, non potendo più resistere, anch’io
ruppi il freno al pianto, dicendogli: “Signore, se la vostra intenzione è di
castigare gli uomini, anche a me non mi regge l’animo di vedere tanto soffrire
le creature; perciò, se veramente volete mandare i flagelli, ed i miei peccati
non mi fanno più meritare di soffrire, io invece degli altri, me ne voglio
venire, non voglio più stare in questa terra”.
Poi è venuto il confessore ed essendo
stata chiamata all’ubbidienza, Gesù si è ritirato, e così tutto è finito.
La seguente mattina, continuavo a
vedere Gesù nel mio cuore, ritirato, e vedevo che le persone fin dentro il mio
cuore venivano e lo calpestavano, lo mettevano sotto i piedi. Io facevo quanto
più potevo per liberarlo; e Gesù, rivolto a me, mi ha detto: “Vedi fin dove
giunge l’ingratitudine degli uomini? Loro stessi mi costringono a castigarli,
senza che possa fare diversamente. E tu, mia cara, dopo che hai visto me tanto
soffrire, ti siano più care le croci e delizie le pene”.
Marzo 18, 1899 (5)
Gesù mostra quanto gli è cara
la carità.
Questa mattina seguitava ancora
il mio diletto Gesù a farsi vedere dentro il cuore mio e, vedendolo un poco più
carino, fecimi coraggio e incominciai a pregarlo, che non mandasse tanti
castighi. E Gesù mi disse: “Che ti muove, o mia figlia, a pregarmi che non
castighi le creature?”.
Io subito risposi: “Perché sono
tue immagini e, dovendo le creature soffrire, verresti tu stesso a soffrire”.
Allora Gesù, mandando un sospiro,
mi disse: “Mi è tanto cara la carità, che tu non puoi comprenderlo. La carità è
semplice come l’Essere mio che, sebbene è immenso, è pure semplicissimo, tanto
che non c’è parte in cui non vi penetri. Così la carità, essendo semplice, si
diffonde dappertutto, non ha riguardo di nessuno, amico o nemico, cittadino o
forestiero, tutti ama”.
Marzo 19, 1899 (6)
Timori delle insidie
diaboliche. Gesù la tranquillizza.
Questa mattina, Gesù, mentre si
faceva vedere, io temevo ancora non fosse veramente Gesù, ma il demonio che mi
volesse illudere.
Dopo che ho fatto le solite
proteste, Gesù mi ha detto: “Figlia, non temere, che non sono il demonio; e
poi, quello, se parla delle virtù, è una virtù scolorita, non vera virtù, né ha
virtù d’infonderla nell’anima, ma di solamente di parlarne; e se qualche volta
mostra di voler far praticare qualche poco di bene, non è [un bene] perseverante,
e nell’atto stesso che l’anima fa quel poco di bene, l’anima è fiacca ed
agitata. Solo io ho la potenza d’infondermi nel cuore e di far praticare le
virtù e di far soffrire con coraggio e tranquillità e con perseveranza; e poi,
quando mai il demonio è andato in cerca di virtù? La sua caccia sono i vizi.
Perciò non temere, stai tranquilla”.
Marzo 20, 1899 (7)
Gesù le versa le sue amarezze
e le mostra la causa dei mali del mondo.
Questa mattina Gesù mi ha
trasportata fuori di me stessa, e mi ha fatto vedere molta gente, tutta in
discordia. Oh, quanta pena faceva a Gesù! Io, vedendolo molto soffrire, l’ho
pregato che versasse in me, ma siccome continuava ancora che voleva castigare
il mondo, Gesù non voleva versare in me; ma dopo averlo pregato e ripregato,
per contentarmi, ha versato un poco.
Indi, essendosi sollevato un
poco, mi ha detto: “La causa che[10]
il mondo si è ridotto in questo triste stato, è d’aver perduta la
subordinazione ai capi; e siccome il primo capo è Dio, a cui [gli uomini] si
sono ribellati, di conseguenza è avvenuto che hanno perduta ogni soggezione e
dipendenza alla Chiesa, alle leggi ed a tutti gli altri che si dicono capi. Ah!
Figlia mia, che sarà di tanti membri infetti da questo malo esempio, dato da
quegli stessi che si dicono capi, cioè da superiori, da genitori e da tanti
altri? Ah, giungeranno a tanto che non si conosceranno più, né genitori, né
fratelli, né re, né principi; questi membri saranno come tante vipere che a
vicenda si avveleneranno. Perciò, vedi quanto sono necessari i castighi in
questi tempi, e che la morte quasi distrugga questa razza di gente, affinché
quei pochi che rimarranno imparino a spese altrui ad essere umili ed
obbedienti; onde lasciami fare, non volerti opporre a farmi castigare le
genti”.
Marzo 31, 1899 (8)
Gesù le mostra la preziosità
della croce.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù si faceva vedere crocifisso, e dopo d’avermi comunicato le sue pene mi ha
detto: “Molte sono le piaghe che mi fecero soffrire nella mia passione, ma una
fu la croce; ciò significa che molte sono le strade con cui attiro le anime
alla perfezione, ma uno è il cielo, in cui queste anime devono unirsi, sicché,
sbagliato quel cielo, non c’è alcun altro che possa renderle beate per sempre”.
Poi ha soggiunto: “Guarda un
poco: una è la croce, ma di vari legni fu formata detta croce; ciò vuol dire
che uno è il cielo, ma vari posti che questo cielo contiene, più o meno
gloriosi, ed a misura delle sofferenze sofferte quaggiù, più o meno pesanti,
saranno distribuiti i posti. Oh! Se tutti conoscessero la preziosità del
patire, farebbero a gara a chi più volesse patire, ma questa scienza, dal mondo,
non viene conosciuta; perciò aborriscono ciò che può renderli più ricchi in
eterno”.
Aprile 1899 (9)
Gesù le si mostra adombrato e
poi le parla della piccola pianta dell’umiltà.
Dopo aver passati parecchi giorni
di privazione e di lacrime, io mi trovavo tutta confusa ed annientata in me
stessa; nel mio interno andavo dicendo continuamente: “Dimmi o mio bene, perché
ti sei da me allontanato? Dove ti ho offeso, che non ti fai più vedere, e se ti
mostri è quasi adombrato e in silenzio? Deh, non farmi più aspettare, che il
mio cuore non ne può più!”.
Finalmente Gesù si è mostrato un
po’ più chiaro, e vedendomi così annientata mi ha detto: “Se tu sapessi quanto
mi piace l’umiltà! L’umiltà è la pianta più piccola che si potesse trovare, ma
i suoi rami sono così alti che giungono fino al cielo, serpeggiano intorno al
mio trono e penetrano fin dentro il mio cuore. La piccola pianta è l’umiltà, i
rami che somministra questa pianta è la confidenza, sicché non si può dare[11]
vera umiltà senza confidenza. L’umiltà senza confidenza è virtù falsa”.
Dalle parole del mio Gesù si vede
che il mio cuore, non solo era annientato, ma pure un poco scoraggiato.
Aprile 5, 1899 (10)
Gesù la tiene adombrata nel
suo amore.
L’animo mio continuava nel suo
annientamento e con timore di perdere il dolce Gesù, quando, in un istante, di
botto si è fatto vedere e mi ha detto: “Ti tengo nell’ombra della mia carità;
onde, siccome l’ombra penetra per ogni dove, con il mio amore ti tiene
adombrata dappertutto ed in tutto. Di che temi adunque? E come posso io
lasciarti, mentre ti tengo così inabissata nel mio amore?”.
Mentre Gesù così diceva, io
volevo dirgli perché non si faceva vedere secondo il suo solito, ma Gesù subito
mi è scomparso e non mi ha dato tempo di dirgli neppure una parola. Oh Dio, che
pena!
Aprile 7, 1899 (11)
Aspetta, con ansia e pianto,
Gesù, che poi le si mostra e la invita a baciare le sue piaghe.
Continua lo stesso stato, ma
specialmente questa mattina l’ho passata amarissima; avevo perduta quasi la
speranza che Gesù venisse. Oh, quante lagrime ho dovuto versare! Era proprio
l’ultima ora e Gesù non ci veniva ancora! Oh Dio, che fare? Il mio cuore era in
tanto forte dolore ed in continuo palpitare, tanto sì fortemente, che mi
sentivo in agonia mortale.
Nel mio interno gli dicevo: “Mio
buon Gesù, non vedi pur tu stesso che mi sento mancare la vita? Dimmi almeno,
come si può fare a stare senza di te? Come si può vivere? Sebbene sono ingrata
a tante grazie, eppure ti amo, giacché ti offro questa pena amarissima della
vostra assenza per ripararti la mia ingratitudine; ma vieni, abbi, Gesù,
pazienza. Sei sì buono, non farmi più aspettare, vieni. Ah, non sai pur tu
stesso che crudel tiranno è l’amore? Che, non hai compassione di me?”.
Mentre stavo in questo stato sì
doloroso, Gesù è venuto, e tutto compassione mi ha detto: “Ecco che son venuto;
non più piangere, vieni a me”.
In un istante mi son trovata
fuori di me stessa, insieme con lui, ed io lo guardavo, ma col timore che di
nuovo lo perdessi, che a larga vena mi scorrevano le lacrime dagli occhi. Gesù
ha continuato a dirmi: “No, non piangere più, vedi un poco quanto sto a
soffrire; guardami la testa, le spine son penetrate tanto dentro che non più
compariscono fuori. Vedi quanti squarci e sangue coprono il mio corpo? Avvicinati,
dammi un ristoro”.
Occupandomi delle pene di Gesù,
ho dimenticato un poco le mie, e così ho incominciato dal capo. Oh, quanto era
straziante vedere quelle spine, così incarnate dentro, che appena si potevano
tirare! Mentre io ciò facevo, Gesù si lamentava, tant’era il dolore che
soffriva. Dopo che ho tirato[12]
quella corona di spine, tutta spezzata, l’ho riunita insieme, e conoscendo che
il maggior piacere che si possa dare a Gesù è il patire per lui, l’ho presa e
l’ho conficcata sulla mia testa. Poi, una per una si è fatto baciare le piaghe,
ed in qualche piaga voleva che succhiassi il sangue. Io cercavo di fare tutto
ciò che lui voleva, ma in muto silenzio, quando si è presentata la Vergine
Santissima e mi ha detto: “Domanda a Gesù che cosa vuol fare di te”.
Io non ardivo, ma la Mamma
m’incitava a farlo. Per contentarla, ho avvicinato le labbra all’orecchio di
Gesù, e zitto zitto[13]
gli ho detto: “Che cosa vuoi fare di me?”.
E lui ha risposto: “Voglio fare
di te un oggetto delle mie compiacenze”.
E nell’atto stesso di dire queste
parole è scomparso ed io mi son trovata in me stessa.
Aprile 9, 1899 (12)
Gesù la trasporta in Chiesa e
se la tiene in sua compagnia nella custodia.
Questa mattina Gesù si è fatto
vedere e mi ha trasportato dentro di una chiesa; là ho sentito la S. Messa e ho
fatto la comunione dalle mani di Gesù. Dopo ciò mi sono abbracciata ai piedi di
lui, sì fortemente che non potevo distaccarmene. Il pensiero delle pene dei
giorni passati, cioè della privazione di Gesù, mi faceva tanto temere che di
nuovo lo perdessi, che stando ai suoi piedi piangevo e gli dicevo: “Questa
volta, o Gesù, non ti lascerò più, perché tu, quando te ne vai da me, mi fai
tanto penare ed aspettare”.
Gesù mi disse: “Vieni fra le mie
braccia, che voglio ristorarti delle pene che passasti in questi giorni”.
Io quasi non ardivo di farlo, ma
Gesù stese le mani e mi prese sui piedi[14],
mi abbracciò e mi disse: “Non temere, che non ti lascio; questa mattina voglio
contentarti, vieni a starti con me nella custodia”.
E così ci ritirammo tutti e due
nella custodia. Chi può dire ciò che facemmo? Ora mi baciava ed io a lui; ora
io mi riposavo in lui e Gesù in me; ora vedevo le offese che riceveva, ed io
facevo atti di riparazione contro le diverse offese. Chi può dire la pazienza
di Gesù nel sacramento? È tale e tanta, che mette terrore solo a pensarla. Ma
mentre stavo ciò facendo, Gesù mi ha fatto vedere il confessore che veniva a
chiamarmi in me stessa; Gesù mi ha detto: “Basta adesso, va, che l’ubbidienza
ti chiama!”.
E così pareva che l’anima
tornasse al corpo, e di fatto il confessore mi chiamava all’ubbidienza.
Aprile 12, 1899 (13)
Gesù trova in lei il suo
tabernacolo, e mostra il suo dolore per le sante messe sacrileghe e le ipocrisie.
Quest’oggi, senza farmi tanto
aspettare, Gesù è venuto subito e mi ha detto: “Tu sei il mio tabernacolo;
tanto è per me stare nel sacramento, quanto nel tuo cuore; anzi, in te ci trovo
un’altra cosa di più, che è il poterti partecipare le mie pene ed averti
insieme con me, vittima vivente innanzi alla divina giustizia, ciò che non
trovo nel sacramento”.
E mentre diceva queste parole si
è rinchiuso dentro di me. Stando dentro di me, Gesù mi faceva sentire, ora le
punture delle spine, ora i dolori della croce, gli affanni e le sofferenze del
cuore. Intorno al suo cuore vedevo un intreccio di punture[15]
di ferro, che lo facevano soffrire molto a Gesù. Ah, quanta pena mi faceva,
vederlo tanto soffrire! Avrei voluto io tutto soffrire, anziché far soffrire il
mio dolce Gesù, e di cuore l’ho pregato che a me desse le pene, a me il patire.
Gesù mi ha detto: “Figlia, le
offese che più trafiggono il mio cuore sono le messe sacrilegamente dette e le
ipocrisie”.
Chi può dire quello che compresi
in queste due parole? A me più[16]
pareva che esternamente si fa vedere che si ama, si loda il Signore,
internamente si ha il veleno pronto per ucciderlo; esternamente si fa vedere
che si vuole la gloria, l’onore di Dio, internamente si cerca l’onore, la stima
propria. Tutte le opere fatte con ipocrisia, anche [le] più sante, sono opere
tutte avvelenate, che amareggiano il cuore di Gesù.
Aprile 16, 1899 (14)
Gesù la conduce in chiesa e le
mostra come viene trattato dalle anime a lui consacrate.
Stando nel mio solito stato, Gesù
mi ha invitato a girare per vedere che cosa facevano le creature. Io gli ho
detto: “Mio adorabile Gesù, stamane non ci ho voglia di girare e di vedere le
offese che ti fanno; stiamoci qui, tutti e due insieme”.
Ma Gesù insisteva che voleva
girare; allora, per contentarlo, gli ho detto: “Se vuoi uscire, andiamo
piuttosto dentro di qualche chiesa, che là son più poche le offese che vi
fanno”.
E così siamo andati dentro ad una
chiesa, ma anche là era offeso più che in altri luoghi; non perché nelle chiese
si fanno più peccati che nel mondo, ma perché sono offese fatte dai suoi più
cari, e da quegli stessi che dovrebbero mettere anima e corpo per difendere
l’onore e la gloria di Dio; perciò giungono più dolorose al suo cuore
adorabile. Quindi vedevo anime devote, che per bagattelle da niente non si
preparavano bene alla comunione; la loro mente, invece di pensare a Gesù,
pensava ai loro piccoli disturbi, a tante cose da niente, e questo era il loro
apparecchio. Quanta pena facevano queste tali a Gesù, e quanta compassione
facevano loro stesse, che badavano a tante pagliuzze, a tante frasche, ed
intanto, poi, non benignavano d’uno sguardo a Gesù!
Gesù mi disse: “Figlia mia,
quanto impediscono queste anime che la grazia si versi in loro; io non guardo alle
minutezze, ma all’amore con cui si accostano, e loro me ne fanno un cambio, più
badano[17]
alle paglie che all’amore; anzi, l’amore distrugge le paglie, ma con molte
paglie non si accresce un tantino d’amore, anzi lo si diminuisce. Ma quel ch’è
peggio, queste anime che si disturbano tanto, ci perdono molto tempo; vorrebbero
stare coi confessori le ore intere per dire tutte queste minutezze, ma mai
mettono mano all’opera con una buona e coraggiosa risoluzione per svellere
queste paglie. Che dirti poi, o figlia mia, di certi sacerdoti di questi tempi?
Si può dire che operano quasi satanicamente, giungendo a farsi idolo delle anime. Ah, sì, dai miei figli il mio cuore
viene più trafitto, perché se più gli altri mi offendono, offendono le parti
del mio corpo, ma i miei mi offendono le parti più sensibili e tenere, fino
nell’intimo del cuore”.
Chi può dire lo strazio di Gesù?
Nel dire queste parole piangeva amaramente. Io feci quanto più potevo per
compatirlo, ma mentre ciò facevo, ci ritirammo insieme con Gesù sulla croce.
Aprile 21, 1899 (15)
Gesù le appare sotto la forma
di un ragazzo povero e le chiede di rimanere con lei.
Questa mattina, stando nel mio
solito stato, in un momento mi son trovata in me stessa, ma però senza potermi
muovere, quando ho inteso che qualcuno entrava nella mia stanzetta, e dopo ha
chiuso di nuovo la porta ed ho sentito che si avvicinava al mio letto. Nella
mia mente, pensavo che qualcuno fosse entrato furtivamente, senza che nessuno
della famiglia lo avesse visto, e fosse penetrato fin dentro la mia stanzetta.
Chi sa che cosa mi potrà fare? Era tanto il timore che mi son sentita gelare il
sangue nelle vene, e tremavo tutta. “Oh Dio, che fare? ‑ dicevo tra me ‑ la
famiglia non l’ha visto, io mi sento tutta intorpidita e non posso difendermi,
né posso chiamare aiuto. Gesù, Maria, Mamma mia, aiutatemi! San Giuseppe,
difendetemi da questo pericolo!”.
Quando ho inteso che saliva sopra
del letto e si è rannicchiato vicino a me, è stato tanto il timore che ho aperto
gli occhi e gli ho detto: “Dimmi, chi sei tu?”.
Costui ha risposto: “Io sono il
povero dei poveri, non ho dove stare, son venuto da te, se mi vuoi tenere con
te nella tua stanzetta; vedi, sono tanto povero che non ho neppure le vesti, ma
tu ci penserai a tutto”.
Io lo guardai bene; era un
ragazzo di cinque o sei anni, senza vesti, senza scarpe, sommamente bello e
grazioso. Subito gli risposi: “Per me, volentieri ti avrei tenuto, ma che dirà
il mio papà? Non è che sono persona libera, che posso fare quel che voglio; ho
i miei genitori che lo impediscono. A vestirti, sì, lo posso fare con le mie
povere fatiche; farò qualunque sacrifizio, ma a tenerti è impossibile. E poi,
non tieni padre, non tieni madre, che non hai dove stare?”.
Ma il ragazzo amaramente rispose:
“Non ho nessuno. Deh, non farmi più girare, fammi stare con te!”.
Io stessa non sapevo che fare,
come tenerlo. Un pensiero mi balenò: chi sa che non è Gesù? Oppure sarà qualche
demonio, per disturbarmi? Così di nuovo gli dissi: “Ma dimmi la verità, almeno,
chi sei tu?”.
E lui ripetette: “Io sono il
povero dei poveri”.
Io replicai: “Hai imparato a
farti la croce?”.
“Sì”, rispose.
“Ebbene, fattela; voglio vedere
come la fai! Ed egli si segnò con la croce.
Io soggiunsi: “E l’Ave Maria, la sai dire?”. “Sì, ma se
vuoi che la dica, diciamola insieme”.
Io incominciai l’Ave Maria
e lui diceva insieme, quando una luce purissima è spiccata dalla sua fronte
adorabile ed ho conosciuto che il povero dei poveri era Gesù. In un momento,
con quella luce che Gesù mi mandava, mi ha fatto di nuovo perdere i sensi e mi
ha tirato fuori di me stessa. Io mi vedevo tutta confusa innanzi a Gesù, specialmente
per le tante ripulse, e subito gli ho detto: “Carino mio, perdonami; se ti
avessi conosciuto non ti avrei vietato l’ingresso. E poi, perché non me lo hai
detto che eri proprio tu? Ho tante cose da dirti; te l’avrei detto[18],
non avrei perduto il tempo in tante inutilità e timori. Poi, a tener te, non ho
bisogno dei miei; posso tenerti liberamente, perché tu non ti fai vedere da
nessuno”.
Ma mentre io dicevo, Gesù è
scomparso, e così è finito, lasciandomi una pena per non avergli detto nulla di
ciò che volevo dirgli.
Aprile 25, 1899 (16)
Gesù le mostra il conto che si
deve fare delle lodi e dei disprezzi da parte delle creature.
Oggi ho fatto la meditazione sul
danno che può venire alle anime nostre dalle
lodi che ci danno le creature. Mentre facevo applicazione a me stessa
per vedere se ci fosse in me il compiacimento delle lodi umane, Gesù si è
avvicinato a me e mi ha detto:
“Quando il cuore è pieno del
conoscimento di se stesso, le lodi degli uomini sono come quelle onde del mare
che s’innalzano e rumoreggiano, ma mai escono dal loro lido; così le lodi umane
strepitano, rumoreggiano, s’avvicinano fino al cuore, ma trovandolo pieno e ben
circondato da forti mura del conoscimento di se stesso, quindi non avendo dove
prendere posto, se ne ritornano indietro, senza fare nessun danno all’anima
propria.
Perciò, a questo devi stare
attenta, che delle lodi e dei disprezzi delle creature non ne devi fare nessun
conto”.
Aprile 26, 1899 (17)
Gesù bacia il suo[19] confessore e
le parla del valore del distacco dalle creature.
Mentre quest’oggi il mio amante
Gesù si faceva vedere, mi pareva che mi mandava tanti lampi di luce che tutta
mi penetravano, quando, in un istante, mi sono trovata fuori di me stessa ed
insieme si è trovato il confessore. Io subito ho pregato il mio diletto Gesù
che desse un bacio al confessore e che andasse un poco nelle braccia di lui (Gesù
era bambino). Per contentarmi, subito ha baciato il confessore nel volto, ma
senza vo-lersi da me distaccare. Io son rimasta tutta afflitta, dicendogli:
“Tesoretto mio, non era questa la
mia intenzione, di farti baciare il volto, ma la bocca, acciocché toccata dalle
tue purissime labbra restasse santificata e fortificata da quella debolezza[20],
così potrà più liberamente annunziare la santa parola e santificare gli altri.
Deh, ti prego di contentarmi!” Così Gesù ha dato un altro bacio alla bocca di
lui e dopo ha detto:
“Son tanto a me gradite le anime
distaccate da tutto, non solo nell’affetto, ma anche in effetto, che a misura che
vanno spogliandosi, così la mia luce va investendole e divengono tali e quali
come cristalli, che la luce del sole non trova impedimento a penetrarvi dentro,
come la trova nelle fabbriche e nelle altre cose materiali. Ah ‑ disse poi ‑
credono di spogliarsi, ma invece vengono a vestirsi non solo delle cose
spirituali, ma anche corporali, perché la mia provvidenza ha una cura tutta
particolare e speciale per queste anime distaccate. La mia provvidenza le
adombra dappertutto; succede che niente hanno, ma tutto posseggono”.
Dopo questo, ci ritirammo dal
confessore e trovammo tante persone religiose che pareva che avevano tutta la
mira a lavorare per fini d’interesse. Gesù passando in mezzo a loro disse:
“Guai, guai a colui che lavora per fine d’acquistare monete! Già avete ricevuto
in vita la vostra mercede”.
Maggio 2, 1899 (18)
Gesù le mostra come nella
Chiesa sta adombrato il cielo. La esorta poi ad aver fiducia nel confessore.
Questa mattina Gesù faceva molta
compassione; era tanto afflitto e sofferente che io non ardivo di fargli nessuna
domanda. Ci guardavamo in silenzio, di tanto in tanto mi dava un bacio ed io a
lui, e così ha seguitato parecchie volte a farsi vedere. L’ultima volta mi ha
fatto vedere la Chiesa, dicendomi queste precise parole:
“Nella mia Chiesa sta adombrato
tutto il cielo. Siccome[21]
nel cielo uno è il capo, che è Dio, e molti sono i santi, di diverse
condizioni, ordini e meriti, così nella mia Chiesa uno è il capo, qual è il
Papa, e fin nel triregno che circonda il suo capo viene adombrata la Trinità
Sacrosanta; e molte sono le membra che da questo capo dipendono, cioè diverse
dignità, diversi ordini, superiori ed inferiori, dal più piccolo fino al più
grande; tutti servono ad abbellire la mia Chiesa, ognuno secondo il suo grado
ha l’ufficio a lui compartito. Con l’esatto adempimento delle virtù, viene a
dare di sé nella mia Chiesa uno splendore odorosissimo, in modo che la terra e
il cielo restano profumati ed illuminati, e le genti restano tanto attirate da
questa luce e da questo profumo che riesce quasi impossibile non arrendersi
alla verità. Lascio considerare a te poi quelle membra infette, che invece di
rendere luce danno tenebre. Quanto strazio fanno nella mia Chiesa!”
Mentre Gesù così mi diceva, ho
visto il confessore vicino a lui. Gesù col suo sguardo penetrante, fisso lo
guardava, poi rivolto a me mi ha detto: “Voglio che [tu] abbia tutta la piena
fiducia col confessore anche nelle minime cose, tanto che tra me e lui non ci
deve essere differenza alcuna, che a misura della tua fiducia e della fede che
presterai alle sue parole, così io vi concorrerò”.
Nell’atto che Gesù diceva queste
parole, mi ricordai di certe tentazioni del demonio che avevano prodotto in me
qualche poco di sfiducia; ma Gesù col suo occhio vigilante, subito mi ha
ripresa e nell’atto stesso mi son sentita togliere da dentro il mio interno
quella sfiducia. Sia sempre benedetto il Signore che ha tanta cura di
quest’anima così miserabile e peccatrice.
Maggio 6, 1899 (19)
Cerca Gesù fra gli spiriti
angelici, e Gesù mostra a questi il suo contento per lei.
Questa mattina Gesù stentatamente
si è fatto vedere. La mia mente la sentivo tanto confusa che quasi non
comprendevo la perdita di Gesù, quando mi son sentita circondata da tanti
spiriti; forse erano angeli, ma non sono certa. Mentre mi trovavo in mezzo a
questi, di tanto in tanto andavo indagando: chi sa potessi sentire almeno
l’alito del mio diletto; ma per quanto facessi non avvertivo [da] niente che ci
stesse l’amante mio bene, quando da dietro le spalle mi son sentita venire un
alito dolce, subito ho gridato: “Gesù, mio Signore!”
Egli ha risposto: “Luisa, che
vuoi?”
“Gesù mio bello, vieni, non stare
da dietro[22]
le spalle, che non posso vederti; sono stata tutta questa mattina ad aspettarti
e ad indagare [se], chi sa ti potessi vedere in mezzo a questi spiriti angelici
che circondano il letto, ma non mi è riuscito; quindi mi sentivo molto stanca,
perché senza di te non posso trovare riposo. Vieni, che ci riposeremo insieme”.
Così Gesù si è messo a me vicino
e mi sosteneva la testa. Quegli spiriti hanno detto: “Signore, come subito ti
ha conosciuto! Niente meno, non alla voce, ma al solo alito subito ti ha
chiamato”.
Gesù ha risposto a loro: “Lei
conosce me ed io conosco lei; mi è tanto cara come mi è cara la pupilla degli
occhi miei”.
E mentre così diceva mi son
trovata negli occhi di Gesù. Chi può dire ciò che ho provato stando in quegli
occhi purissimi? È impossibile manifestarlo a parole; gli stessi angeli ne son
rimasti stupiti.
Maggio 7, 1899 (20)
Gesù le parla della retta
intenzione e del vero amore del prossimo.
Mentre nel giorno ho fatto la
meditazione, Gesù continuava a farsi vedere a me vicino, e mi ha detto: “La mia
persona è circondata da tutte le opere che si fanno dalle anime, come da una
veste; ed a misura della purità d’intenzione e dell’intensità dell’amore che[23]
si fanno, così mi danno più splendore, ed io darò a loro più gloria, tanto che
nel giorno del giudizio le mostrerò a tutto il mondo per far conoscere a tutto
il mondo come mi hanno amato ed onorato i miei figli ed il modo come io onoro loro”.
Prendendo un’aria più afflitta ha
soggiunto: “Figlia mia, che sarà di tante opere anche buone fatte senza retta
intenzione, per usanza e per fine d’interesse? Quale vergogna non sarà di loro
nel giorno del giudizio, nel vedere tante opere buone in sé stesse, ma marcite
dalla loro intenzione, che invece di renderle[24]
onore come a tante altre, le stesse loro azioni le[25]
renderanno vergogna? Perché non sono le opere grandi che miro, ma l’intenzione
con cui si fanno; qui è tutta la mia attenzione”.
Per poco Gesù ha fatto silenzio,
ed io pensavo alle parole che aveva detto; mentre andavo ruminando nella mia
mente, specialmente sulla purità dell’intenzione, e [su] come facendo il bene
alle creature, le stesse devono scomparire facendo una la creatura con lo
stesso Signore, e fare come se le creature non esistessero, Gesù ha ripreso il
suo dire, dicendomi:
“Eppure così è; vedi, il mio
cuore è larghissimo, ma la porta è strettissima. Nessuno può riempire il vuoto
di questo cuore se non le anime distaccate, nude e semplici, perché come tu
vedi, essendo la porta piccola, qualunque impedimento, anche minimo, cioè
un’ombra d’attacco, un’intenzione storta, un’opera senza il fine di piacermi,
impedisce che entrino a deliziarsi nel mio cuore. L’amore del prossimo, molto
va nel mio cuore, ma deve essere tanto congiunto al mio, in modo che [ne] deve
formare uno solo, senza potersi discernere uno dall’altro; ma quell’altro amore
del prossimo che non è trasformato nel mio amore, io non lo guardo come cosa
che a me appartiene”.
Maggio 9, 1899 (21)
Lamenti, domande e colloqui
con Gesù, che la contenta e le partecipa i suoi patimenti.
Questa mattina mi trovavo in un
mare d’afflizione per la perdita di Gesù. Dopo molto stentare Gesù è venuto e
tanto si stringeva a me vicino che non potevo neppure vederlo. Giungeva a
mettere la fronte sulla mia, il suo volto poggiava proprio sul mio, e così
tutte le membra. Ora mentre Gesù stava in questa posizione gli ho detto: “Mio
adorabile Gesù, non mi vuoi più bene?”
E lui: “Se non ti volevo bene,
non mi stavo tanto a te vicino”.
Ed io ho ripreso: “Come mi dici
che mi vuoi bene se non mi fai più soffrire come prima? Temo che non mi si
vuole più in questo stato, almeno liberami pure dal fastidio del confessore”.
Mentre ciò dicevo pareva che Gesù
non dava retta al mio dire e mi faceva vedere [una] moltitudine di gente che
commetteva ogni specie di nefandezze, e Gesù sdegnato con loro faceva piombare
in mezzo ad essi diverse specie di malattie contagiose, e molti morivano neri
come carboni. Pareva che Gesù sterminasse dalla faccia della terra quella
moltitudine di gente. Mentre io vedevo, ho pregato Gesù che versasse in me le
sue amarezze, acciocché potesse risparmiare le genti, ma neppure mi dava retta
a questo, e rispondendo alle parole che prima gli avevo detto ha soggiunto: “Il
più gran castigo che posso dare a te, al sacerdote ed ai popoli è se ti
liberassi da questo stato di sofferenze. La mia giustizia si sfogherebbe in
tutto il suo furore, perché non troverebbe più alcuna opposizione. Tanto vero
che il peggior male per uno è essere messo ad un ufficio e poi essere deposto;
meglio per lui se non fosse stato ammesso a quell’ufficio, perché abusando e
non profittando, se ne rende indegno”.
Poi Gesù ha seguitato a venire
quest’oggi parecchie volte, ma tanto afflitto che moveva a pietà ed a lacrime
forse le stesse pietre. Per quanto ho potuto cercavo di consolarlo, or me
l’abbracciavo, or gli sostenevo la testa molto sofferente, or gli dicevo: “Cuor
del mio cuore Gesù, non è stato mai tuo solito comparirmi così afflitto, se
altre volte ti sei fatto vedere afflitto, col versare in me [le tue sofferenze],
subito dopo hai cambiato aspetto, ma ora mi viene negato di darti questo
sollievo. Chi doveva dirlo che dopo tanto tempo che ti sei benignato di versare
e di farmi partecipe delle tue sofferenze e che tu stesso hai fatto tanto per
dispormi, a quest’ora dovevo restarne priva? Era il patire per tuo amore
l’unico mio sollievo, era il patire che mi faceva sopportare l’esilio dal
cielo; ma adesso, mancandomi questo mi sento che non ho dove più appoggiarmi e
mi viene a noia la vita. Deh, o sposo santo, amato bene, cara mia vita, deh,
fammi tornare le pene, dammi il patire, non guardare la mia indegnità ed i miei
gravi peccati, ma la tua grande misericordia che non è esaurita!”
Mentre in questo mi sfogavo con
Gesù, avvicinandosi più a me mi ha detto: “Figlia mia, è la giustizia che vuole
sfogarsi sulle creature. Il numero dei peccati negli uomini quasi è completo e la
giustizia vuole uscire fuori per farsi pompa del suo furore e ripararsi delle
ingiustizie degli uomini. Ecco, per farti vedere quanto sono amareggiato e per
contentarti un po’ voglio versare il mio alito in te”.
E così, avvicinando le sue labbra
alle mie mi mandava il suo respiro, che fu tanto amaro che mi sentivo intossicare
la bocca, il cuore e tutta la persona. Se il solo suo alito era così amaro, che
sarà del resto di Gesù? Mi ha lasciato tanto una pena che mi sentivo trafiggere
il cuore.
Maggio 12, 1899 (22)
Gesù l'accontenta nei suoi
desideri, le fa succhiare dal suo costato dolcezze ed amarezze e passa la giornata
con lei.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù, continuando a farsi vedere afflitto mi ha trasportata fuori da me stessa
e mi faceva vedere le varie offese che riceveva, ed io l’ho incominciato a
pregare di nuovo che versasse in me le sue amarezze. Gesù da principio non mi
dava retta, e solo mi ha detto: “Figlia mia, la carità allora è perfetta,
quando è fatta per il solo fine di piacermi; ed allora è detta vera e viene riconosciuta
da me, quando è spogliata di tutto”.
Io, prendendo occasione dalle sue
stesse parole gli ho detto: “Gesù mio caro, è per questo appunto che voglio che
tu versi in me le [tue] proprie amarezze, per poterti sollevare da tante pene;
e se ti prego che risparmi pure le creature, è perché ricordo bene che tu,
anche in altre occasioni, dopo che avesti castigate le creature, nel vederle
soffrire, tanto la povertà che altra cosa, molto anche hai sofferto. Invece,
quando io sono stata accorta e ti ho pregato e importunato fino a stancarti,
tanto che ti sei ben compiaciuto di versare in me risparmiando loro, dopo ne
sei pur restato molto contento, non ve ne ricordate? E poi non sono tue
immagini?”
Gesù, vedendosi convinto, mi ha
detto: “Per te è necessario contentarti, avvicinati e bevi al mio costato”.
Cosi feci, mi avvicinai per bere
al costato, ma invece di venire l’amarezza, succhiavo un sangue dolcissimo che
tutta m’inebriava d’amore e di dolcezza, sicché n’ero contenta, ma non era
questa la mia intenzione; perciò a lui rivolta gli dissi: “Caro mio bene che
fai? Non è amaro quello che viene, ma dolce; deh, ti prego, versa tu in me le
tue proprie amarezze!”
E Gesù guardandomi benignamente
mi disse: “Continua a bere, che appresso verrà l’amaro”.
Così, mettendomi di nuovo al
costato, dopo che continuò a venire il dolce venne anche l’amaro. Ma chi può
dire l’intensità dell’amarezza? Dopo che mi saziai di bere mi levai e guardando
la [sua] testa che teneva la corona di spine, la tolsi e la conficcai sulla mia
testa, e Gesù pareva tutto condiscendente, mentre in altre volte non aveva ciò
permesso. Quanto era bello vedere Gesù dopo che versò le sue amarezze! Pareva
quasi disarmato, senza fortezza, ma tutto mansueto come un umile agnellino,
tutto condiscendente.
Io avvertivo che l’ora era
tardissima e siccome il confessore era stato[26]
subito questa mattina a chiamarmi all’ubbidienza, quindi non è che sapeva che
dovevo essere chiamata [di nuovo] dall’ubbidienza, che all’ubbidienza Gesù mi
lascia libera. Perciò a lui rivolta gli ho detto: “Gesù dolcissimo, non
permettere che io sia di disturbo alla famiglia e di fastidio al confessore col
farlo venire di nuovo; deh, ti prego, fammi tu stesso ritornare in me stessa!”
Gesù mi ha detto: “Figlia mia,
non ti voglio lasciare quest’oggi”.
Ed io: “Anch’io non ho cuore di
lasciarti, ma un pochettino solo, quanto mi faccio vedere alla famiglia che sto
in me stessa e poi ritorneremo a stare insieme”.
Così, dopo un lungo contrasto,
dandoci un addio a vicenda mi ha lasciato un poco. Era appunto l’ora del pranzo
e la famiglia allora veniva a chiamarmi. Ma che, sebbene mi sentivo in me
stessa, mi sentivo tutta piena di sofferenza, la testa non mi reggeva,
quell’amaro e quel dolce bevuto al costato di Gesù mi dava tanta sazietà e
sofferenza insieme che mi riusciva impossibile poter prendere nessun’altra
cosa. La parola data a Gesù mi faceva stare sulle spine. Così sotto il pretesto
che mi doleva la testa, ho detto alla famiglia: “Lasciatemi sola, che non
voglio niente”.
Così sono [stata] lasciata libera
di nuovo e subito ho incominciato a chiamare il dolce Gesù, e lui sempre benigno
è ritornato. Ma chi può dire ciò che ho passato quest’oggi, quante grazie Gesù
ha fatto all’anima mia, quante cose mi ha fatto capire? È impossibile poterlo esprimere
a parole. Così, dopo un lungo stare, Gesù, per calmare le mie sofferenze, dalla
sua bocca ha versato un latte dolce e poi verso sera mi ha lasciato col darmi
la parola che subito sarebbe ritornato; e così mi son trovata in me stessa di
nuovo, ma un poco più libera di sofferenze.
Maggio 16, 1899 (23)
Gesù le parla della croce e si
lamenta delle anime devote.
Gesù ha seguito per altri giorni
a manifestarsi allo stesso modo, di non volersi distaccare da me. Pareva che
quel poco di sofferenze che aveva versato in me lo attirassero tanto, che non
sapeva stare senza di me. Questa mattina ha versato un altro poco d’amarezza
dalla sua bocca nella mia e dopo mi ha detto:
“La croce dispone l’anima alla
pazienza. La croce apre il cielo ed unisce insieme cielo e terra, cioè Dio e
l’anima. La virtù della croce è potente e quando entra in un’anima ha la virtù
di togliere la ruggine di tutte le cose terrene; non solo, ma dà la noia, il
fastidio, il disprezzo delle cose della terra, ed invece, poi, le rende il sapore,
il gradimento delle cose celesti; ma da pochi viene riconosciuta la virtù della
croce, perciò [molti] la disprezzano”.
Chi può dire quante cose ho
compreso della croce mentre Gesù parlava? Il parlare di Gesù non è come il
nostro che tanto si capisce [per] quanto si dice; ma una sola parola lascia una
luce immensa, che ruminandola bene potrebbe fare stare occupato tutto il giorno
in profondissima meditazione. Perciò se io volessi dire tutto andrei troppo per
le lunghe ed anche mi mancherebbe il tempo a farlo.
Dopo poco Gesù è ritornato di
nuovo, ma un poco più afflitto. Io subito ho domandato la cagione, e Gesù mi ha
fatto vedere molte anime devote e mi ha detto:
“Figlia mia, quello che guardo in
un’anima è quando si spoglia della propria volontà, allora la mia Volontà
l’investe, la divinizza e la fa tutta mia. Vedi un po’ queste anime che si
dicono devote fino a tanto che le cose vanno a lor modo, poi [per] una piccola
cosa, se non sono lunghe le loro confessioni, se il confessore non le soddisfa,
perdono la pace e certune giungono a non volerne fare più niente. Questo dice
che non è la mia Volontà che le[27]
predomina, ma la loro. Credi pure o figlia mia, che hanno sbagliata la strada,
perché quando veggo che davvero vogliono amarmi, ho tanti modi di poter dare la
mia grazia”.
Quanta pena faceva veder Gesù
soffrire da [parte di] questa sorta di gente! Ho cercato di compatirlo per quanto
ho potuto, e così è finito.
Maggio 19, 1899 (24)
Gesù le mostra la preziosità
dell'umiltà e della semplicità.
Questa mattina mi sentivo un
timore che non fosse Gesù, ma il demonio che mi volesse illudere. Gesù è venuto
e vedendomi con questo timore mi ha detto: “L’umiltà è la sicurezza dei favori
celesti. L’umiltà veste l’anima d’una sicurezza tale, in modo che le astuzie
del nemico non vi penetrano dentro. L’umiltà mette in salvo tutte le grazie celesti,
tanto che dove veggo l’umiltà abbondantemente faccio scorrere qualunque specie
di favori celesti. Perciò non voler disturbarti per questo, ma con occhio
semplice guarda sempre nel tuo interno se sei investita della bella umiltà, e
di tutto il resto non curarti di niente”.
Poi mi ha fatto vedere molte
persone religiose e tra questi sacerdoti, anche di santa vita; ma per quanto
buoni fossero non vi era in loro quello spirito di semplicità nel credere alle
tante grazie ed ai tanti diversi modi che il Signore tiene con le anime. Gesù
mi ha detto:
“Io mi comunico sia agli umili
che ai semplici, perché subito danno credenza alle mie grazie e le tengono in
gran conto sebbene siano ignoranti e poveri. Ma con questi altri che tu vedi,
io sono molto restio, perché il primo passo che avvicina l’anima a me è la
credenza; onde avviene di questi tali, che con tutta la loro scienza e dottrina
ed anche santità, non provano mai un raggio di luce celeste, cioè camminano per
la via naturale e mai giungono a toccare neppure per un tantino ciò che è
soprannaturale. Eccoti pure la causa perché nel corso della mia vita mortale
non ci fu neppure un dotto, un sacerdote, un potente nel mio seguito, ma tutti
ignoranti e di bassa condizione, perché più umili e semplici, ed anche più
facili a fare dei grandi sacrifizi per me”.
Maggio 23, 1899 (25)
Gesù scherza e le parla del
vero distacco.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù voleva giocare un poco. Veniva, faceva vedere che mi voleva sentire, ma
mentre mi mettevo a dire, come un lampo mi scompariva dinanzi. Oh Dio, che
pena!
Mentre il mio cuore nuotava in
questa pena amarissima della lontananza di Gesù ed ancor ero quasi un po’
inquieta, Gesù è ritornato di nuovo dicendomi: “Che c’è, che c’è? Più quieta,
più calma! Dì, dì, che vuoi?”
Ma nell’atto di dire è scomparso.
Ho fatto quanto ho potuto per quietarmi, ma che! Dopo qualche tempo il mio
cuore è tornato pur a non sapersi dar pace senza del suo unico e solo conforto,
e forse più di prima. Gesù ritornando di nuovo mi ha detto: “Figlia mia, la
dolcezza ha la virtù di far cambiare la natura alle cose, sa l’amaro ben convertire
in dolce. Perciò più dolce, più dolce”. Ma però senza darmi tempo di dire una
sola parola. Così ho passato questa mattina.
Dopo ciò mi son sentita fuori di
me stessa insieme con Gesù. Ci stavano molte persone; chi ambiva la ricchezza,
chi l’onore, chi la gloria e chi fin la santità e tant’altre cose, ma non per
Dio, sebbene[28]
per essere tenute per qualche gran che dalle creature. Gesù rivolto a loro,
tentennando la testa, [a] loro ha detto: “Stolti che siete, che vi state
lavorando la rete come imbrigliarvi”.
Poi rivolto a me mi ha detto:
“Figlia mia, perciò la prima cosa che tanto raccomando è il distacco da tutte
le cose ed anche da loro stesse, e quando l’anima si è distaccata da tutto non
ha bisogno di farsi forza per star lontano da tutte le cose della terra che da
sé stesse le vanno intorno, ma vedendosi non curate, anzi disprezzate, dandole
un addio si licenziano per non darle più molestia”.
Maggio 26, 1899 (26)
Vede il proprio nulla e Gesù
l'ammaestra.
Questa mattina mi trovavo in un
annientamento di me stessa fino a sentirmi esosa ed infastidita. Mi pareva [di]
essere [la] più abominevole che trovar si potesse. Mi vedevo come un piccolo
verme che si volgeva e rivolgeva, ma sempre lì nel fango rimanevo, senza poter
dare un passo. Oh Dio, che miseria umana! Eppure dopo tante grazie elargitemi
sono così cattiva ancora! Il mio buon Gesù, sempre benigno con questa
miserabile peccatrice, è venuto e mi ha detto: “Il disprezzo di te stessa
allora è lodevole quando è ben investito dallo spirito della fede, ma quando
non è investito dallo spirito di fede, invece di farti bene ti potrà nuocere,
perché vedendoti quale tu sei, che non puoi fare niente di bene, sconfiderai,
rimarrai abbattuta, senza fidarti di dare un passo nella via del bene; ma
appoggiandoti a me, cioè investendoti dallo spirito di fede, verrai a conoscere
e disprezzare te, ed insieme a conoscere me, confidando di tutto poter operare
con l’aiuto mio; ed ecco che facendo in questo modo camminerai secondo la
verità”.
Quanto bene ha fatto all’anima
mia questo parlare di Gesù! Ho compreso che devo entrare nel mio nulla e
conoscere chi sono io, ma non devo lì fermarmi, ma subito dopo, conosciuta me
stessa, devo volare nel mare immenso di Dio e lì fermarmi ad attingere tutte le
grazie che bisognano all’anima mia; altrimenti la natura resta infiacchita ed
il demonio cercherà mezzi come gettarla nella sconfidenza. Sia benedetto sempre
il Signore e tutto a gloria sua sempre sia!
Maggio 31, 1899 (27)
Lamenti che Gesù fa del
confessore e lo consiglia.
Questa mattina, stando nel mio
solito stato, il mio adorabile Gesù è venuto e nell’atto stesso ho veduto il
confessore. Gesù si mostrava un po’ dispiaciuto con lui, perché pareva che il
confessore volesse che tutti approvassero che fosse opera di Dio il fatto mio,
e voleva quasi convincere col manifestare qualche cosa del mio interno ad altri
sacerdoti. Gesù si è voltato al confessore e gli ha detto:
“Questo è impossibile, finanche
io ebbi dei contrari e da persone delle più riguardevoli ed anche da sacerdoti
ed altre dignità; ebbero che ridire sulle mie sante opere, fino a tacciarmi
d’indemoniato. Questi contrasti, anche da persone religiose, io li permetto per
fare che a suo tempo potesse[29]
più rilucere la verità. Che [tu] vuoi consigliarti con due o tre sacerdoti dei
più buoni e santi ed anche dotti, per averne lume, ed anche per fare ciò che
voglio io nelle cose da farsi, quale il consiglio dei buoni e la preghiera, questo
io lo permetto, ma il resto no, no, sarebbe un voler farne sciupio delle opere
mie e metterle in burle, ciò che molto mi dispiace”.
Poi disse a me: “Quello che
voglio da te è un operare retto e semplice; che del pro e contro delle creature
non ti curare. Lasciale pensare come vogliono, senza prenderti il minimo
fastidio, che il voler che tutti fossero favorevoli è un voler fuorviare
dall’imitazione della mia vita”.
Giugno 2, 1899 (28)
Gesù le parla della conoscenza
di noi stessi.
Il mio dolcissimo Gesù questa
mattina mi ha voluto fare toccare con le proprie mani il mio nulla. Nell’atto
che si è fatto vedere, le prime parole che mi ha indirizzato sono state: “Chi
sono io e chi sei tu?”
Pur in queste due parole vidi due
luci immense: in una comprendevo Dio, nell’altra vedevo la mia miseria, il mio
nulla; mi vedevo non essere altro che un’ombra, come quell’ombra che fa il sole
nell’irradiare la terra, che dipende dal sole, che passando per essa ad altri
punti, l’ombra finisce d’esistere fuori del suo splendore. Così l’ombra mia,
cioè il mio essere, dipende dal mistico sole Iddio, che in un semplice istante
può disfare quest’ombra. Che dire poi, come ho deformato quest’ombra che il
Signore mi ha dato non essendo neppure mia? Fa orrore a pensarlo: puzzolente,
putrida, tutta verminosa; eppure in questo stato così orrido ero costretta a
stare innanzi ad un Dio sì santo. Oh, come sarei stata contenta se mi fosse
[stato] dato nascondermi nei più cupi abissi!
Dopo ciò, Gesù mi ha detto: “Il
favore più grande che posso fare ad un’anima è il farle conoscere sé stessa. La
conoscenza di sé e la conoscenza di Dio vanno pari passi[30].
Per quanto conoscerai te stessa altrettanto conoscerai Dio. L’anima che ha
conosciuto sé stessa, vedendosi che da sé non può niente operare di bene,
quest’ombra del suo essere la trasforma in Dio e ne avviene che in Dio fa tutte
le sue operazioni. Succede che l’anima sta in Dio e cammina presso di lui senza
guardare, senza investigare, senza parlare; in una parola, come morta, perché
conoscendo a fondo il suo nulla non ardisce di fare niente da sé, ma ciecamente
segue il tiro delle operazioni del Verbo”.
A me sembra che all’anima che
conosce sé stessa succede come a quelle persone che vanno in vapore, che mentre
passano da un punto all’altro, senza fare un passo da sé stesse fanno dei
lunghi viaggi, ma tutto in virtù del vapore che le trasporta; così l’anima,
mettendosi in Dio come le persone in vapore, fa dei sublimi voli nella via
della perfezione, ma conoscendo appieno che non [è] essa, ma in virtù di quel
Dio benedetto che la porta in sé. Oh, come il Signore favorisce, arricchisce,
concede grazie più grandi, sapendo che non a sé, ma tutto a lui attribuisce! Oh
anima che conosci te stessa, quanto tu sei fortunata!
Giugno 3, 1899 (29)
Gesù versa in lei le sue
amarezze.
Questa mattina mi trovavo in un
mare d’afflizione, che Gesù non era venuto ancora; sentivo tale pena che mi
sentivo strappare il cuore, quando è venuto il confessore per chiamarmi
all’ubbidienza, ché doveva celebrare la santa messa; e Gesù senza farsi vedere
neppure l’ombra, come è suo solito, che quando non viene si fa vedere una
mano, un braccio; specialmente quando è giorno di far la comunione, come questa
mattina, lui stesso viene, mi purifica, mi prepara per ricevere lui stesso sacramentalmente.
Dicevo tra me: “Sposo santo, Gesù amabile, come non venite voi stesso a
prepararmi? Come posso ricevervi?” Ma intanto il tempo è giunto, il confessore
è venuto, ma Gesù senza venirci affatto. Che pena straziante, quante lacrime
amare! Il confessore mi ha detto: “Lo vedrai nella comunione e gli dirai, per
ubbidienza, perché non viene e che cosa vuole da te”.
Così, dopo la comunione ho visto
il mio buon Gesù, sempre benigno con questa miserabile peccatrice. Mi ha
trasportato fuori di me stessa ed io lo tenevo in braccio: era da bambino,
tutto afflitto. Io subito ho cominciato a dire: “Bambinello mio, solo ed unico
mio bene, com’è che non vieni? In che ti ho offeso? Che cosa vuoi da me, che mi
fai così tanto piangere?”
Nell’atto di dire, era tanta la
pena che, con tutto ciò che lo tenevo fra le mie braccia, continuavo a
piangere. Ma anche prima che finissi di dire l’ultima parola, Gesù avvicinando
la sua bocca alla mia ha versato le sue amarezze senza rispondermi una parola.
Quando finiva di versare, io incominciavo di nuovo a dire, ma Gesù senza darmi
retta si metteva di nuovo a versare. Dopo ciò senza rispondermi niente a ciò
che io volevo, mi ha detto: “Fammi versare in te, altrimenti come ho distrutto
con la grandine gli altri punti, così distruggerò le parti vostre, perciò fammi
versare e non pensare ad altro”.
Così, senza dirmi altro, è
finito.
Giugno 5, 1899 (30)
Prega insieme con Gesù.
Continua ancora lo stato di
annientamento, ma tale che non ardisco di dire una parola al mio diletto Gesù.
Ma questa mattina, Gesù, avendo compassione del mio miserabile stato, lui
stesso ha voluto sollevarmi, ed ecco come: mentre si è fatto vedere ed io mi
sentivo tutta annichilita e vergognosa innanzi a lui, Gesù si è avvicinato a
me, ma tanto stretto che mi pareva che egli stesse in me ed io in lui, e mi ha
detto: “Figlia mia diletta, che hai che stai tanto afflitta? Dimmi a me tutto,
che ti contenterò e rimedierò a tutto”.
Siccome continuavo a vedere me
stessa, come dissi l’altro giorno di sopra, onde vedendomi così cattiva,
neppure ho ardito di dirgli niente. Ma Gesù ha replicato: “Presto, presto,
dimmi che vuoi, non indugiare”.
Vedendomi quasi costretta, dando
in dirottissimo pianto, gli ho detto: “Gesù santo, come vuoi che non stia
afflitta? Che dopo tante grazie non dovevo essere più così cattiva. Talora
anche nelle opere buone che cerco di fare, nelle stesse preghiere, vi mescolo
tanti difetti ed imperfezioni che io stessa ne sento orrore. Che sarà innanzi a
te che sei così perfetto e santo? E poi lo scarsissimo patire a confronto di
prima, il lungo tuo indugio nel venire, tutto mi dice a chiare note che i miei
peccati, le mie ingratitudini ne sono la causa, e che tu sdegnato meco, mi
neghi pur quel pane quotidiano che concedi tu a tutti generalmente, qual è la
croce; sicché poi finirai con l’abbandonarmi del tutto. Si può dare forse maggiore
afflizione di questa?”
Gesù, tutto compassionandomi mi
ha stretto al suo cuore e mi ha detto: “Non temere, questa mattina faremo le
cose insieme, così supplirò alle tue”.
E così prima mi pareva che Gesù
conteneva una fonte d’acqua e un’altra di sangue nel suo petto, ed in quelle
due fontane ha tuffato l’anima mia, prima nell’acqua e poi nel sangue. Chi può
dire come è restata purificata ed abbellita l’anima mia? Dopo mi son messa a
pregare insieme con Gesù, recitando tre Gloria
Patri, e questo, mi ha detto che lo faceva per supplire alle mie preghiere
ed adorazioni alla maestà di Dio. Oh, come era bello e commovente pregare
insieme con Gesù!
Dopo ciò Gesù mi ha detto: “Non
ti affligga il non patire; vuoi tu anticipare l’ora da me designata? Il mio operare
non è furioso, ma tutto a suo tempo; adempiremo ogni cosa a tempo debito”.
Indi poi, per un fatto tutto
provvidenziale, all’improvviso, essendo uscito il viatico dalla chiesa per
altri infermi, ho fatto anch’io la comunione. Chi può dire dopo tutto, ciò che
è passato tra me e Gesù, i baci, le carezze che Gesù mi faceva? È impossibile
poter dire tutto. Mi pareva che dopo la comunione vedevo la sacra particola; ed
ora vedevo nella particola la bocca di Gesù, ora gli occhi, ora una mano, e poi
ha fatto vedere tutto sé. Mi ha trasportata fuori di me stessa, ed ora mi
trovavo nella volta dei cieli ed ora mi trovavo sulla terra in mezzo agli
uomini, sempre insieme con Gesù. Lui andava di tanto in tanto ripetendo: “Oh,
quanto sei bella diletta mia, se tu sapessi quanto ti amo! E tu, quanto mi
ami?”
Nel sentirmi dire queste parole,
io provavo tale confusione che mi sentivo morire; ma con tutto ciò ho avuto il
coraggio di dirgli: “Gesù mio bello, sì ti amo assai, e tu, se veramente mi ami
tanto, dimmi, anche tu mi perdoni per tutto il male che ho fatto? Ma concedimi
pur il patire”.
E Gesù: “Sì che ti perdono, e
voglio contentarti col versare in abbondanza le mie amarezze in te”.
Così Gesù ha versato le sue
amarezze. Mi pareva che avesse una fonte d’amarezza nel suo cuore dalle offese
ricevute dagli uomini, e la maggior parte la traboccava in me. Poi Gesù mi ha
detto: “Dimmi, che altro vuoi?”
Ed io: “Gesù santo, ti raccomando
il mio confessore, fammelo santo e donagli anche la salute del corpo”. E poi:
“È Volontà tutta tua che venga questo Padre?”
E Gesù: “Sì”.
Ed io: “Se tua Volontà fosse lo
faresti star bene”.
E lui: “Statti quieta, non voler
investigare troppo i miei giudizi”. E nell’atto stesso mi faceva vedere il
miglioramento della salute del corpo e la santità dell’anima del confessore, ed
ha soggiunto: “Tu vuoi essere furiosa, ma io faccio tutto a tempo”.
Dopo ho raccomandato le persone
che a me appartenevano, ho pregato per i peccatori dicendo a Gesù: “Oh, quanto
desidero che il mio corpo si facesse in minutissimi pezzi, purché i peccatori
si convertissero!” E così ho baciato la fronte, gli occhi, il volto, la bocca
di Gesù, facendo varie adorazioni, riparazioni per le offese che gli fanno i
peccatori. Oh, come era contento Gesù, ed io pure!
Indi, facendomi promettere da
Gesù di non dovermi più lasciare, son ritornata in me stessa e così è finito.
Giugno 8, 1899 (31)
Domanda la conversione del
mondo. Stringe Gesù al suo petto.
Il mio adorabile Gesù continua
ancora a farsi vedere tutto benignità e dolcezza. Questa mattina mentre mi
trovavo insieme con lui, di nuovo ha replicato: “Dimmi, che vuoi?”
Ed io subito ho detto: “Gesù mio
caro, quello che vorrei davvero è che tutto il mondo si convertisse”. Che
domanda spropositata! Ma pure[31]
il mio amante Gesù mi ha detto:
“Ti contenterei, purché tutti
avessero la buona volontà di salvarsi; eppure per farti vedere che volentieri
consentirei a tutto ciò che ho detto, andiamo insieme in mezzo al mondo, e
tutti quelli che troveremo con la buona volontà di salvarsi, per quanto cattivi
fossero io te li darò”.
Così siamo usciti in mezzo alle
genti per vedere chi avesse la buona volontà di salvarsi, e per nostro sommo
dispiacere abbiamo trovato un numero tanto scarsissimo che fa pena al solo
pensarlo, e tra questo scarsissimo numero vi era il mio confessore e la maggior
parte dei sacerdoti e parte delle devote, ma non tutti di Corato. Poi mi ha
fatto vedere le varie offese che riceveva. Io l’ho pregato che mi facesse parte
delle sue sofferenze, e Gesù ha versato dalla sua bocca nella mia le sue amarezze.
Dopo ciò mi ha detto:
“Figlia mia, mi sento la bocca
troppo amareggiata; deh, ti prego di raddolcirla!” Io gli ho detto: “Volentieri
ti avrei dato tutto, ma non ho niente. Dimmi tu stesso, che cosa ti potrei
dare?”
E lui fattosi bambino mi ha
detto: “Stringimi al tuo cuore e così potrai raddolcirmi”[32].
E nell’atto stesso che ciò diceva si è coricato fra le mie braccia, però mi è venuto
un gran timore che non fosse il bambino Gesù, ma il demonio. Perciò ho fatto
sulla sua fronte il segno della croce “Per
signum crucis”, e Gesù mi ha guardato tutto festoso, sorridendo, e mi
diceva: “Non sono [il] demonio”. Dopo si è alzato in piedi in braccio a me
stessa e tutta mi baciava; ma sentendomi anch’io la bocca amara per le amarezze
che aveva versato in me, domandai a Gesù di raddolcirmela e lui amorosamente lo
ha fatto, lasciandomi tutta inondata di dolcezze e di contenti.
Ora quando questo succede, il
corpo non ne partecipa niente affatto, e[33]
quando mi trovo fuori di me stessa nella volta dei cieli, oppure girando per
altri punti della terra. Qualche volta il Signore mi trasporta fuori di me
stessa e mi fa partecipe della crocifissione. Gesù stesso mi distende sulla
croce e mi trapassa le mani ed i piedi coi chiodi; vi sento tale un dolore da
sentirmi morire. Poi trovandomi in me stessa li sento bene nel corpo, tanto
vero da non poter muovere le dita, il braccio, e così delle altre sofferenze
che il Signore mi fa partecipe. Se dovessi dire tutto andrei troppo per le
lunghe.
Aggiungo pure un’altra cosa, cioè
che il Signore di tanto in tanto si benigna di versare dalla bocca un latte
dolcissimo, oppure di farmi bere al suo costato il suo preziosissimo sangue[34].
Giugno 9, 1899 (32)
Gesù le fa vedere le offese
che riceve dagli uomini.
Questa mattina l’ho passata molto
angustiata per le tante offese che vedevo far dagli uomini, specialmente per
certe disonestà orrende. Quanta pena faceva a Gesù la perdita delle anime,
molto più d’un bambino nato che dovevano uccidere senza amministrargli il santo
battesimo! A me pare che questo peccato pesi tanto sulla bilancia della divina
giustizia, che sono i più che[35]
gridano vendetta innanzi a Dio. Eppure spesso spesso si rinnovano queste scene
dolorose. Il mio dolcissimo Gesù stava tanto afflitto che faceva pietà.
Vedendolo in tale stato non ho ardito dirgli niente, e Gesù, solo mi ha detto:
“Figlia mia, unisci le tue
sofferenze con le mie, le tue preghiere alle mie, e così innanzi alla maestà di
Dio sono più accettevoli e compariscono non come cose tue, ma come opere mie”.
Poi ha seguitato a farsi vedere
altre volte, ma sempre in silenzio. Sia sempre benedetto il Signore!
Giugno 11, 1899 (33)
Gesù le mostra come saranno
trattati coloro che avvicineranno lei.
Il mio dolce Gesù continua a
farsi vedere scarsissime volte e quasi sempre in silenzio. La mia mente me la
sentivo tutta confusa e piena di timore di poter perdere il mio solo ed unico
Bene, e per tante altre cose che non è qui necessario il dirle. Oh Dio, che
pena! Mentre stavo in questo stato, quando appena si è fatto vedere e pareva
che portava una luce, e da questa luce uscivano altrettanti globetti di luce. E
Gesù mi ha detto:
“Togli ogni timore dal tuo cuore.
Vedi, ti ho portato questo globo di luce per metterlo tra te e me e tra quelli
che a te si avvicinano. [A] quelli che a te s’avvicinano con cuore retto e per
farti il bene, questi globetti di luce che escono penetreranno nelle loro
menti, scenderanno nel loro cuore, e li riempirà di gaudio e di grazie celesti
e comprenderanno con chiarezza ciò che opero in te. Quelli poi che verranno con
altre intenzioni sperimenteranno il contrario e da questi globetti di luce
resteranno abbagliati e confusi”.
Così son restata più quieta. Sia
tutto a gloria di Dio.
Giugno 12, 1899 (34)
Gesù stesso la prepara alla
comunione.
Questa mattina, dovendo fare la
comunione, stavo pregando il buon Gesù che venisse egli stesso a prepararmi
prima che venisse il confessore per celebrare la santa messa; altrimenti come
potrò ricevervi essendo tanto cattiva e indisposta?
Mentre ciò facevo, il mio dolce
Gesù si è compiaciuto di venire. Nell’atto stesso che lo vedevo mi pareva che
non faceva altro che saettarmi coi suoi sguardi purissimi e scintillanti di
luce. Chi può dire ciò che operavano in me quegli sguardi penetranti, che non
lasciavano sfuggire neppure l’ombra d’un piccolo neo? È impossibile poterlo
dire; anzi avrei voluto passare tutto ciò in silenzio, perché le operazioni
interne della grazia difficilmente si sanno esporre tali quali sono con la
bocca; pare piuttosto che si vengono a contraffare. Ma la signora obbedienza
non vuole, e quando è per lei bisogna chiudere gli occhi senza dire altro,
altrimenti guai da per tutto, perché essendo signora da per se stessa si fa
rispettare.
Quindi seguo a dire. Nel primo
sguardo ho pregato Gesù che mi purificasse e così mi pareva che dall’animo mio
si scuotesse tutto ciò che l’adombrava. Nel secondo sguardo l’ho pregato che mi
illuminasse, perché che giova ad una pietra preziosa l’essere pura se non è
luccicante per attirarsi gli sguardi di quelli che la mirano? La guarderanno
sì, ma con occhio indifferente. Tanto più io, che non solo dovevo essere
guardata, ma immedesimata col mio dolce Gesù, avevo bisogno di quella luce che
non solo mi rendeva risplendente
l’anima, ma che mi faceva capire l’azione grande che stavo per fare. Perciò non
mi bastava d’essere purgata, ma illuminata ancora.
Onde Gesù in quello sguardo
pareva che mi penetrava come la luce del sole penetra il cristallo. Dopo ciò,
vedendo che Gesù continuava a guardarmi, gli ho detto: “Amantissimo Gesù,
giacché ti sei compiaciuto prima di purgarmi e poi d’illuminarmi, benignati ora
di santificarmi, molto più che dovendo ricevere te che sei il Santo dei santi,
non è giusto che io sia tanto diversa da te”.
Così Gesù, sempre benigno verso
questa miserabile, si è inclinato verso di me, ha preso l’anima mia fra le sue
braccia e pareva che con le sue proprie mani tutta la ritoccava. Chi può dire
ciò che operavano in me quei tocchi di quelle mani creatrici? Oh, come le mie
passioni a quei tocchi si mettevano a posto! I miei desideri, inclinazioni, affetti,
palpiti ed altri miei sensi santificati da quei tocchi divini, si cambiavano in
tutt’altro, ed uniti fra loro, non più discordanti come prima facevano una
dolce armonia all’udito del mio caro Gesù. Mi pareva che fossero tanti raggi di
luce che ferivano il suo cuore adorabile. Oh, come si ricreava Gesù, e che
momenti felici sono stati per me! Ah! Io esperimentavo la pace dei santi, per
me era un paradiso di contento e di delizie.
Dopo ciò, Gesù pareva che vestiva
l’anima mia con la veste della fede, di speranza e di carità; nell’atto stesso
che mi vestiva, Gesù mi suggeriva il modo come dovevo esercitarmi in queste tre
virtù. Ora mentre stavo ciò facendo, Gesù spiccando un altro raggio di luce mi
ha fatto capire il mio nulla, che mi pareva che fosse come un acino d’arena in
mezzo ad un vastissimo mare qual è Dio, e questo piccolo acino andava a
disperdersi in quel mare immenso, ma si perdeva in Dio. Poi mi ha trasportato
fuori di me stessa, portandomi fra le sue braccia, e mi veniva suggerendo vari atti
di contrizione dei miei peccati; ricordo solamente che sono stata un abisso
d’iniquità. Signore, oh, quante nere ingratitudini ho usato verso di voi!
Mentre facevo questo ho guardato
Gesù che teneva la corona di spine in testa. Ho distesa la mano e l’ho tolta
dicendogli: “Dammi o Gesù le spine, che son peccatrice; a me convengono le
spine, non a te che sei il Giusto, il Santo”.
Così Gesù stesso l’ha conficcata
sulla mia testa. Poi, non so come, da lontano ho visto il confessore, subito ho
pregato Gesù che andasse a preparare il confessore, per poter riceverlo nella
comunione; così Gesù pareva che andasse dal padre. Dopo poco è ritornato e mi
ha detto: “Uno voglio che sia il modo che tratti tra me e te, con il confessore[36],
e così voglio pure da lui: che guardi e tratti con te come se fossi un altro
io, perché essendo tu vittima come fui io, non voglio differenza alcuna, e questo
per fare che tutto fosse purgato e che in tutto risplendesse il solo amor mio”.
Io gli ho detto: “Signore, questo
pare impossibile, che possa trattare col confessore come si fa con voi, specialmente
nel vedere l’instabilità”.
E Gesù: “Eppure è così; la vera
virtù, il vero amore tutto fa scomparire, tutto distrugge, e con una maestria
da incantare non fa risplendere altro, in tutto il suo operare, che il solo
Iddio, e tutto guarda in Dio”.
Dopo ciò è venuto il confessore
per chiamarmi all’ubbidienza e così celebrare la santa messa, e perciò tutto è
finito. Quindi ho ascoltato la santa messa ed ho fatto la comunione; ora chi
può dire l’intimità che è passata tra me e Gesù? È impossibile poterla
manifestare, non ho parole come farmi capire, onde le passo in silenzio.
Giugno 14, 1899 (35)
Gesù vuole castigare il mondo.
Questa mattina l’amantissimo Gesù
non ci veniva e nel mio interno andavo pensando: “Com’è che non viene? Che c’è
di nuovo? Ieri veniva così spesso ed oggi neppure si fa vedere ancora! Che crepacuore,
quanta pazienza ci vuole con Gesù!” Tutto il mio interno mi pareva che si
metteva tutto all’arme, che voleva Gesù, e mi faceva una guerra da darmi pene
di morte. La volontà, come superiora a tutto, cercava di mettere pace col persuadere
ai miei sensi, inclinazioni, desideri, affetti ed a tutto il resto di
quietarsi, che Gesù doveva venire. Così, dopo il lungo penare, Gesù è venuto
portando una tazza in mano, piena di sangue aggrumato, putrefatto e puzzolente,
e mi ha detto: “Vedi questa tazza di sangue? La verserò sul mondo”.
Mentre così diceva è venuta la
Mamma, la Vergine Santissima, ed insieme con lei il mio confessore, e pregavano
Gesù che non la versasse sul mondo, ma che la facesse bere a me. Il confessore
gli ha detto: “Signore, a che pro tener la vittima se non volete versare sopra
di essa? Assolutamente voglio che la fate soffrire, e risparmiate le genti”.
La Mamma piangeva ed insisteva
presso Gesù, [e] presso il confessore di non desistere di pregare finché Gesù
non si fosse contentato d’accettare il cambio. Gesù insisteva che la voleva
versare sopra il mondo tutto, ed in [un] primo [momento] pareva quasi che si
accigliasse. Io mi vedevo tutta confusa, non sapevo dire niente, perché era
tanto l’orrore che faceva a vedere quella tazza piena di sangue sì brutto, che
metteva il fremito in tutta la natura; che sarebbe a berla? Ma però ero
rassegnata, che se il Signore me l’avesse data, l’avrei accettata. Chi può dire
poi i castighi che [si] contenevano in quel sangue, se il Signore lo versasse
sul mondo? Da questo giorno appunto, pare che tiene preparata una grandine che
farà molto danno e pare che deve continuare i giorni seguenti. Dopo poi Gesù pareva
un poco più calmo, tanto che pareva abbracciasse il confessore che lo aveva
pregato in quel modo, ma però senza venire a nessuna determinazione se lo deve
versare sopra le genti o no.
Così è finito, lasciandomi una
pena indescrivibile di quello che potrà succedere.
Giugno 16, 1899 (36)
Ottiene da Dio di fare
risparmiare in parte dai suoi castighi il suo paese.
Continuava ancora a farsi vedere
che vuole castigare; io l’ho pregato che volesse versare in me le sue amarezze
e che volesse risparmiare tutto il mondo; e se questo non fosse possibile,
almeno quelli che mi appartengono e il mio paese. A quest’intenzione pareva che
si unisse pure quella del confessore e così pareva che Gesù, vinto dalle preghiere,
ha versato un poco dalla sua bocca, ma non quella tazza detta disopra. Questo
poco che ha versato pareva che lo facesse per risparmiare in qualche modo il
mio paese, ma non tutti quelli che mi appartengono. Io però questa mattina sono
stata causa di fare affliggere Gesù. Siccome dopo versato l’ho visto più calmo,
senza pensarci gli ho detto: “Amabile mio Gesù, ti prego di liberarmi dal
fastidio che do al confessore di farlo venire ogni giorno. Che costa a voi il liberarmi,
e che voi stesso che mi mettete nelle sofferenze, voi stesso mi liberate? Certo
che vi costa niente e se volete, tutto potete”.
Mentre ciò gli dicevo, Gesù
faceva un volto tanto afflitto che quell’afflizione me la sentivo penetrare fin
nell’intimo del mio cuore, e senza dirmi parola è scomparso. Come mi ha lasciata
mortificata! Lo sa solo il Signore, pensando specialmente, ancora, [che] più
non ci veniva[37].
Ma poco dopo è ritornato, ma con maggiore afflizione, portando un volto tutto
gonfio e pieno di sangue, che allora allora gli avevano fatto quelle offese. Gesù
tutto mesto ha detto:
“Vedi quello che mi hanno fatto,
come tu dici che non vuoi che castighi le creature? [I castighi] son necessari
per umiliarli e non farli imbaldanzire di più”.
Giugno 17, 1899 (37)
Contende con Gesù per far
risparmiare i castighi.
Si continua ancora sempre lo
stesso, ma specialmente questa mattina sono stata sempre a contendere col mio
caro Gesù; lui che voleva continuare a mandare la grandine, come ha fatto nei
giorni passati, ed io che non volevo. Quando al meglio, pareva che si preparava
un temporale, e dava comando ai demoni che distruggessero col flagello della
grandine parecchi punti. Nell’atto stesso vedevo che da lontano mi chiamava il
confessore dandomi l’ubbidienza che andassi a mettere in fuga i demoni per non
farle[38]
far niente. Mentre sono uscita per andare, Gesù si è fatto incontro, facendomi
rivolgere indietro. Io gli ho detto: “Signore benedetto, non posso, perché è
l’ubbidienza che mi ha chiamato e tu sai che io e tu a questa virtù dobbiamo
cedere senza poterci opporre”.
Allora Gesù: “Ebbene, lo farò io
per te”.
E così ha comandato ai demoni che
andassero in parte più lontana e che per ora non toccassero le terre appartenenti
al nostro paese. Poi ha detto a me: “Andiamo”. Così siamo ritornati, io nel
letto e Gesù accanto a me. Appena giunti, Gesù voleva riposare, dicendo ch’era
molto stanco; io l’ho arrestato dicendogli: “Chi sa ch’è questo sonno che vuoi
fare? E poi bella ubbidienza che mi hai fatto fare. Perché vuoi dormire? Questo
è il bene che mi vuoi? È [così] che vuoi contentarmi in tutto? Vuoi dormire?
Dormi pure, basta che mi dai la parola che non farai niente”.
Allora, dispiacendosi del mio mal
contento, mi ha detto: “Figlia mia, eppure vorrei contentarti; facciamo così:
usciamo insieme di nuovo in mezzo alle genti e quelli che vediamo che son
necessari di punire per le tante nefande azioni, almeno chi sa sotto il
flagello si arrendessero, e che tu vuoi [che io punisca, li punirò], e quelli
che son meno necessari a punire, e che tu non vuoi, io li risparmierò”.
Ed io: “Signore, grazie ti rendo
della tua somma bontà nel volermi contentare, ma con tutto ciò non posso far
questo che mi dici. Non mi sento la forza di mettere la volontà mia a castigare
nessuna delle tue creature. E poi quale strazio sarà del mio povero cuore,
quando sentirò che quel tale o quell’altro è stato castigato, e che io ci abbia
messo la mia volontà? Sia mai, sia mai, oh Signore!”
Dopo è venuto il confessore per
chiamarmi in me stessa, ed è finito.
Giugno 19, 1899 (38)
Gesù si lamenta di certe anime
a lui consacrate.
Avendo passato ieri una giornata
di purgatorio per la privazione quasi totale del sommo Bene e per le tante
tentazioni che mi metteva il demonio, mi pareva che facessi tanti peccati. Oh,
Dio che pena, offendere Dio! Questa mattina, appena visto Gesù, subito gli ho
detto: “Gesù buono, perdonami i tanti peccati che feci ieri”; e volevo dirgli
tutto il male che mi sentivo d’aver fatto. Egli spezzando il mio dire mi ha
detto:
“Se fai scomparire te stessa, non
farai mai peccati”.
Io volevo continuare a dire, ma
Gesù facendomi vedere molte anime devote e mostrandomi di non voler sentire ciò
che gli volevo dire, ha ripreso di nuovo a dire:
“Quello che più mi dispiace di
queste anime è l’instabilità nel fare il bene; basta una piccola cosa, un dispiacere,
anche un difetto, mentre allora è il tempo più necessario per stringersi più a
me, e quali[39]
invece si irritano, si disturbano e tralasciano il bene incominciato. Quante
volte ho preparato loro le grazie per darle e, vedendole così instabili sono
stato costretto a ritenerle!” Però, conoscendo che non voleva sapere niente di
quello che volevo dirgli e vedendo il mio confessore che stava poco bene nel
corpo, ho pregato a lungo per lui, e facendogli[40]
varie domande, che non è qui necessario il dirle. E Gesù a tutto benignamente
mi ha risposto, e così è finito.
Giugno 20, 1899 (39)
Gesù le mostra come la grande
santità di Luigi Gonzaga è frutto del grande amore per Dio.
Si continua quasi sempre lo
stesso. Questa mattina pare che Gesù abbia voluto sollevarmi un poco, dopo che
per qualche tempo sono andata in cerca di lui. Da lontano ho visto un bambino;
come fulmine che cade dal cielo, così vi accorsi. Appena giunta, l’ho preso fra
le mie braccia, e venendomi un dubbio che non fosse Gesù gli ho detto: “Tesoretto
mio caro, dimmi un po’ chi sei”.
Ed egli: “Io sono il tuo caro ed
amato Gesù”.
Ed io a lui: “Bambinello mio
bello, ti prego di prendere il mio cuore e portarlo con te in paradiso, che appresso
al cuore vi verrà l’anima”. Gesù pareva che mi prendesse il cuore e l’univa
talmente al suo che ne faceva uno solo. Dopo si è aperto il cielo, parendo che
si preparava ad una festa grandissima; nell’atto stesso è sceso dal cielo un
giovane di vago aspetto, tutto scintillante di fuoco e fiamme. Gesù mi ha detto:
“Domani è la festa del mio caro
Luigi, devo andare ad assistere”.
Ed io: “E me poi mi lasciate
sola? Come farò?”
Ed egli: “Anche tu ci verrai.
Vedi quanto è bello Luigi? Ma quello che fu più in lui, che lo distinse in
terra, era l’amore con cui operava. Tutto era amore in lui, l’amore gli
occupava l’interno, l’amore lo circondava [al]l’esterno, sicché anche il
respiro si poteva dir ch’era amore; perciò di lui si dice che non patì mai
distrazione, perché l’amore l’inondava da per tutto, e da questo amore sarà
inondato eternamente, come tu vedi”. E così pareva che era tanto grande l’amore
di San Luigi, che poteva incenerire tutto il mondo.
Poi Gesù ha soggiunto: “Io
passeggio sopra i più alti monti e vi formo la mia delizia”. Io, non intendendo
il significato, [Gesù] ha ripreso a dire: “I monti più alti sono i santi che
più mi hanno amato, ed io vi faccio la mia delizia, e quando stanno sulla terra
e quando passano su in cielo; sicché il tutto sta nell’amore”.
Dopo ciò ho pregato Gesù che mi
benedicesse, a me ed a quelli che in quel momento vedevo; ed egli dando la
benedizione è scomparso.
Giugno 21, 1899 (40)
Gesù le promette di non
lasciarla mai.
Siccome Gesù non ci veniva,
andavo pensando tra me: “Chi sa che Gesù non ci verrà più e mi lascia in abbandono”.
E non dicevo altro [che]: “Vieni mio diletto, vieni!”
Tutto all’improvviso è venuto e
mi ha detto: “Non ti lascerò, mai t’abbandonerò; anche tu vieni, vieni a me”.
Io subito son corsa per mettermi nelle sue braccia, e mentre stavo così, Gesù
ha ripreso a dire: “Non solo non lascerò te, ma per amore tuo non lascerò
Corato”.
Poi senza quasi avvedermene, in
un istante è scomparso, mentre io son rimasta che lo desideravo più di prima ed
andavo dicendo: “Che mi hai fatto! Come, così presto te ne sei andato, senza
neppure dirmi addio?” Mentre sfogavo la mia pena, l’immagine del bambino Gesù
che tengo a me vicina, pareva che [Gesù] si facesse vivo, e di tanto in tanto
usciva[41]
la testa da dentro la campana per vedere che cosa facessi. Quando vedeva che mi
avvertivo[42],
subito si rinchiudeva dentro.
Io gli ho detto: “Si vede che sei
impertinente e che vuoi farla da bambino. Mi sento impazzire per la pena che
non vieni e tu stai a giocare; bene, giocate, scherza pure, che io avrò
pazienza”.
Giugno 22, 1899 (41)
Gesù scherza con lei e le fa
dei corrivi[43].
Questa mattina il mio dolce Gesù
voleva continuare a farmi dei corrivi ed a voler scherzare. Veniva, metteva le
sue manine al [mio] volto nell’atto di volermi fare una carezza, ma nell’atto
di farla scompariva. Di nuovo veniva, stendeva le sue braccia al mio collo in
atto di volermi abbracciare, ma mentre stendevo le mie per abbracciarlo mi
sfuggiva come un lampo, senza poterlo trovare. Chi può dire le pene del mio
cuore? Mentre il mio povero cuore nuotava in questo mare di dolore immenso,
fino a sentirmi venir meno la vita, è venuta la Mamma Regina, portandolo da
bambino fra le sue braccia, e così ci siamo abbracciati tutti e tre insieme, la
Mamma, il Figlio ed io. Onde ho potuto aver tempo di dirgli: “Mio Signore Gesù,
mi pare che hai sottratto la tua grazia da me”.
Ed egli: “Sciocca, scioccherella
che sei! Come dici che ti ho sottratta la mia grazia mentre sono in te? E che
cosa è la mia grazia se non me stesso?”
Son restata più confusa di prima,
vedendomi che non sapevo parlare e che in quelle due parole che avevo detto non
avevo detto altro che spropositi. Dopo, la Regina Madre è scomparsa e Gesù
pareva che si chiudesse dentro il mio interno e lì vi rimaneva.
Oggi poi, alla meditazione, si
faceva veder che dormiva dentro di me. Io lo stavo guardando, beandomi nel suo
bel volto, ma senza destarlo, contenta di vederlo almeno, quando in un istante
è venuta di nuovo la bella Mamma Regina, lo ha preso da dentro il mio cuore, tutto
smuovendolo in fretta per destarlo; dopo destato me l’ha messo di nuovo in
braccio, dicendomi: “Figlia mia, non farlo dormire, che se dorme vedrai che
succederà”.
Era un temporale che si
preparava; così il bambino, mezzo dormendo, ha steso le sue manine al mio
collo, e stringendomi mi ha detto: “Mamma mia, mamma mia, lasciami dormire”. Ed
io: “Ninno, mio bello, non sono io che non voglio farti dormire, è la nostra
Signora Mamma che non vuole, ed io ti prego di contentarla. È certo che niente
si nega alla Mamma, e poi a quella Madre!”
Dopo averlo tenuto un poco in
veglia, è scomparso; e così è finito.
Giugno 23, 1899 (42)
Vede il confessore insieme con
Gesù e prega per lui.
Avendo ascoltato la santa messa e
fatto la comunione, il mio Gesù si faceva vedere da dentro il mio cuore; poi mi
son sentita uscir fuori di me stessa, ma senza Gesù. Ho visto il mio
confessore; siccome lui mi aveva detto che: “Dopo la comunione verrà Nostro
Signore e lo pregherai per me”, quindi appena visto il mio confessore gli ho
detto: “Padre, mi avete detto che Gesù doveva venire e non è venuto”. Egli mi
ha risposto: “Perché non lo sai trovare perciò dici che non è venuto; guarda
bene che nel tuo interno ci sta”.
Ho fatto per guardare in me ed ho
visto i piedi di Gesù usciti da dentro il mio interno. Subito li ho presi in
mano e ho tirato fuori Gesù; me lo son tutto abbracciato, e vedendolo con la
corona di spine in testa gliel’ho tolta e l’ho data in mano al confessore
dicendogli che me la conficcasse sulla mia testa; e così ha fatto. Macché? Per
quanta forza facesse, non gli riusciva di far penetrare una sola spina. Io gli
ho detto: “Fate più forte, non temete che io abbia a soffrire assai che, come
voi vedete, [ci] sta Gesù che mi dà la forza”.
Per quanto ci provasse, il tutto
riusciva impossibile. Allora mi ha detto: “Non è forza mia di poter far questo,
e perché essendo[44]
ossa [ciò] che devono penetrare queste spine, non è forza mia di poterlo fare”.
Allora mi son rivolta al mio
dolce Gesù dicendo: “Tu vedi che il padre non sa metterla, mettila un poco tu
stesso”. E così Gesù ha disteso le sue mani ed in un istante ha fatto penetrare
dentro la mia testa tutte quelle spine con indicibile dolore e contento.
Dopo ciò insieme col confessore
abbiamo pregato Gesù che versasse le sue amarezze, per risparmiare la gente da
tanti flagelli che sta versando sopra di loro, come pareva quest’oggi, che
stava preparata una grandine un poco lontana da noi; onde il Signore per
condiscendere alle nostre preghiere ha versato un poco. Oltre di ciò, siccome
continuavo a vedere il confessore, ho incominciato a pregare Gesù per lui,
dicendogli: “Buono e caro Gesù, ti prego a far grazia al mio confessore di
farlo tutto tuo, secondo il tuo cuore, ed insieme dagli la salute corporale. Tu
hai visto come ha cooperato insieme a sollevarvi, tanto la testa dalle spine,
quanto il[45]
farti versare. Se non è riuscito a conficcarmi le spine in testa, non è stato
per non sollevarti né [per] la sua volontà, ma perché non era forza la sua;
quindi anche per questo lo devi esaudire. Onde dimmi, o mio solo ed unico Bene,
lo farai star bene sia nell’anima come nel corpo?”
Ma Gesù mi sentiva, ma non mi
rispondeva; io più mi sollecitavo a pregarlo dicendo: “Questa mattina non ti
lascerò né cesserò di pregare, se non mi dai la parola che mi esaudirai per
quello che ti domando per lui”.
Ma Gesù non diceva parola, quando
nel meglio ci siamo trovati circondati da persone; questi tali pareva che
sedessero intorno ad una tavola mangiando, e ci stava pure la mia porzione.
Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ho fame”.
Ed io: “La porzione mia la do a
te, non ne sei contento?”
E Gesù: “Sì, ma non voglio essere
visto che ci sto”.
Ed io: “Ebbene, farò vedere che
la prendo per me, e senza farmi avvertire la darò a te”. E così abbiamo fatto.
Poco dopo Gesù, alzandosi in piedi ed avvicinando le sue labbra al mio volto ha
cominciato a suonare dalla sua bocca come un suono di tromba. Tutte quelle
genti impallidivano e tremavano, dicendo tra loro: “Che c’è, che c’è? Adesso
moriamo!”
Io gli ho detto: “Signore mio
Gesù, che fai? Come, fino adesso non volevi essere visto e poi ti sei messo a
suonare? Statti quieto, statti quieto, non far prendere paura alle genti; non
vedi come tutti si spaventano?”
E Gesù: “Adesso è niente; che
sarà quando tutto all’improvviso suonerò più forte? Sarà tale il timore onde[46]
verranno presi, che molti e molti lasceranno la vita”.
Ed io: “Adorabile mio Gesù, che
dici? Sempre là andate, che vuoi far giustizia; ma no! Misericordia! Misericordia
ti prego per il tuo popolo”.
Onde prendendo il suo aspetto
dolce e benigno, e continuando [io] a vedere il confessore, di nuovo ho
cominciato ad importunarlo, e Gesù mi ha detto: “Farò del tuo confessore come
quell’albero innestato, che più non si riconosce l’albero vecchio, sia
nell’anima quanto nel corpo; ed in pegno di ciò ho dato te nelle sue mani, come
vittima, come[47]
fare che se ne avvalga”.
Giugno 25, 1899 (43)
Continua a vedere il
confessore con Gesù che gli parla della fede.
Continua Gesù a farsi vedere
questa mattina, di tanto in tanto, partecipandomi qualche poco delle sue
sofferenze, e qualche volta si vedeva anche il confessore unito [a lui].
Siccome egli mi aveva detto di pregare per certi suoi bisogni, vedendolo
insieme con Nostro Signore ho cominciato a pregare Gesù che lo esaudisse in ciò
che egli voleva. Mentre io lo pregavo, Gesù tutto bontà si è voltato al confessore
e gli ha detto:
“La fede voglio che t’inondi
dappertutto, come quelle barche che sono tutte nel mare, circondate dalle
acque; e siccome la fede sono io stesso, essendo [tu] inondato da me che tutto
posseggo, posso e do liberamente a chi in me confida, senza che tu ci pensi a
quel che verrà, al quando, ed il come che[48]
farai, io stesso secondo i tuoi bisogni mi presterò a soccorrerti”.
Poi ha soggiunto: “Se ti
eserciterai in questa fede, quasi nuotando in essa, in ricompensa t’infonderò
nel cuore tre gaudi spirituali. Il primo, che penetrerai le cose di Dio con
chiarezza, e nel fare le cose sante ti sentirai inondato da una gioia, da un
gaudio tale che ti sentirai come inzuppato, e questo è l’unzione della mia grazia.
Il secondo è una noia delle cose terrene, e sentirai nel tuo cuore una gioia
delle cose celesti. Il terzo è un distacco totale di tutto, e dove prima
sentivi inclinazione sentirai un fastidio, come da qualche tempo lo sto
infondendo nel tuo cuore, e tu già lo stai esperimentando. E per questo il tuo
cuore sarà inondato dalla gioia che godono le anime nude, che hanno il loro
cuore tanto inondato dell’amore mio, che dalle cose che le circondano esternamente
non ne ricevono nessuna impressione”.
Luglio 4, 1899 (44)
Gesù le parla della sua
celeste Mamma e poi della turbazione e agitazione spirituale.
Questa mattina, avendomi Gesù
rinnovato le pene della crocifissione, si trovava insieme la nostra Mamma
Regina, e Gesù parlando di lei ha detto: “Il mio proprio regno fu nel cuore
della mia Madre, e questo perché il suo cuore non fu mai menomamente
disturbato, tanto che nel mare immenso della passione soffrì pene immense, il
suo cuore fu passato [d]a parte a parte dalla spada del dolore, ma non ricevette
un minimo alito di turbazione. Quindi essendo il mio regno, regno di pace,
perciò potetti in lei stendere il mio regno, senza ricevere nessun ostacolo,
[e] liberamente regnare”.
Avendo Gesù seguitato altre volte
a venire, e vedendomi io tutta piena di peccati, gli ho detto: “Mio Signore
Gesù, mi sento tutta coperta di piaghe e peccati gravi. Deh, ti prego, abbi
pietà di questa miserabile!”
E Gesù: “Non temere che non ci
sono colpe gravi; e poi si deve avere orrore della colpa, ma non disturbarsi,
perché l’agitazione da dovunque venga non fa mai bene all’anima”. Poi ha
soggiunto: “Figlia mia, tu sei vittima come io lo sono; fa che tutte le tue
opere risplendano con le stesse mie intenzioni pure e sante, acciocché ritrovando
in te la mia stessa immagine possa liberamente versar l’influenza delle mie
grazie, e così ornata, potrò offrirti come vittima odorosa innanzi alla divina
giustizia”.
Luglio 9, 1899 (45)
Gesù la crocifigge per placare
la divina giustizia.
Questa mattina Gesù ha voluto
rinnovare le pene della crocifissione. Prima mi ha trasportata fuori di me
stessa, sopra un monte, e mi ha domandato se volessi crocifiggermi[49];
ed io: “Sì, Gesù mio, non altro bramo che la croce”. Mentre ciò dicevo, si è
presentata una croce grandissima, e sopra di essa mi ha distesa e con le sue
proprie mani mi inchiodava. Che pene atroci soffrivo nel sentirmi trapassare le
mani ed i piedi da quei chiodi, che per giunta erano spuntati, e che per farli
penetrare si stentava e si soffriva molto. Ma con Gesù tutto riusciva
tollerabile. Dopo che ha compiuto di crocifiggermi, mi ha detto:
“Figlia mia, me ne servo di te
per poter continuare la mia passione. Siccome il mio corpo glorificato non può
più essere capace di soffrire, onde venendo in te me ne avvalgo del tuo corpo
come me ne avvalsi del mio nel corso della mia vita mortale, per poter
continuare a soffrire la mia passione e così poterti offrire vittima vivente
innanzi alla divina giustizia, di riparazione e di propiziazione”.
Dopo ciò pareva che si aprisse il
cielo e scendeva una moltitudine di santi, tutti armati di spade. Una voce come
di tuono è uscita da dentro quella moltitudine a difendere la giustizia di Dio
ed a fare vendetta degli uomini che tanto hanno abusato della sua misericordia.
Chi può dire ciò che succedeva sulla terra a questa discesa dei santi? Solo so
dire che, chi guerreggiava da un punto e chi dall’altro, chi fuggiva, chi si
nascondeva; pareva che tutti erano in costernazione.
Luglio 14, 1899 (46)
Gesù l’assicura che non l’ha
lasciata né può lasciarla.
Il mio adorabile Gesù continua
[in] questi giorni a farsi vedere scarsissime volte. La sua visita è come un
lampo, che mentre vuoi seguitare a guardare già sfugge, e se qualche volta si
ferma un poco è quasi sempre in silenzio; altre volte dice qualche cosa, ma
nell’atto che se ne va via, mi pare che si tira[50]
quella parola insieme con quella luce che mi vien dalla sua parola, tanto che
dopo non ricordo niente di ciò che ha detto; la mia mente resta nella stessa
confusione di prima. Che stato miserabile! Mio caro Gesù, abbi pietà di questa
misera, continua a fare uso della tua misericordia.
Quindi per non fare lunghezze, e
dire giorno per giorno ciò che ho passato, dirò qui tutt’insieme qualche parola
che mi ha detto in questi scorsi giorni. Ricordo che dopo aver versato lacrime
amarissime, Gesù facendosi vedere, ed io lamentandomi con lui che mi aveva
lasciato, Gesù chiamò a sé molti angeli e santi, e rivolto a loro disse:
“Sentite che dice, che io l’ho lasciata; ditele un poco, posso io lasciare
quelli che mi amano? Essa mi ha amato, come posso lasciarla?” Ed i santi
furono col Signore d’accordo, ed io
restai più umiliata e confusa di prima.
Un’altra volta, dicendogli: “Fino
all’ultimo[51]
finirai col lasciarmi del tutto”, Gesù mi disse: “Figlia, non posso lasciarti,
e per pegno di ciò ho messo in te le mie sofferenze”.
Trovandomi occupata dal pensiero:
“Come, o Signore, hai permesso che venisse il sacerdote? Poteva passare il
fatto tra me e te”. In un istante mi son trovata fuori di me stessa, distesa
sopra una croce, ma non vi era nessuno che mi potesse inchiodare. Io ho
cominciato a pregare il Signore che venisse a crocifiggermi, e Gesù è venuto e
mi ha detto: “Vedi quanto è necessario che il sacerdote stia in mezzo alle
opere mie, e questo aiuta ancora per compire la crocifissione; è certo che
senza nessuno, da te sola non puoi crocifiggerti; sempre c’è bisogno dell’aiuto
degli altri”.
Luglio 18, 1899 (47)
Attira e costringe a stare nel
suo cuore Gesù sacramentato.
Continua quasi sempre lo stesso.
Questa volta mi pareva che nel mio cuore stesse Gesù sacramentato, e dall’ostia
santa spandeva tanti raggi nel mio interno, e dal mio cuore uscivano tanti fili
cui s’intrecciavano tutti quei raggi di luce. Mi pareva che Gesù col suo amore
si attirava tutto il mio cuore, ed il mio cuore con quei fili si[52]
attirava e legava tutto Gesù a starsi con me.
Luglio 22, 1899 (48)
Gesù le mostra come la croce
rende l’anima trasparente.
Il mio adorabile Gesù questa
mattina si faceva vedere con una croce d’oro pendente al collo, tutta risplendente,
e che guardandola se ne compiaceva immensamente. In un istante si è trovato il
confessore presente; Gesù gli ha detto:
“Le sofferenze dei giorni passati
hanno accresciuto lo splendore alla croce, tanto che guardandola prendo molto
piacere”. Poi si è voltato a me e mi ha detto: “La croce comunica tale uno
splendore all’anima da renderla trasparente; e siccome quando un oggetto è
trasparente [gli] si possono dare tutti quei colori che si vogliono, così la
croce con la sua luce dà tutti i lineamenti e le forme più belle, che mai si
possa immaginare, non solo dagli altri, ma anche dall’anima stessa che la
prova. Oltre di ciò, in un oggetto trasparente subito si scopre la polvere, le
piccole macchie ed anche l’adombramento. Tale è la croce; siccome rende l’anima
trasparente, subito fa scovare all’anima i piccoli difetti, le minime imperfezioni,
tanto che non c’è mano maestra più abile della croce a fare che tenga l’anima
preparata, per renderla degna abitazione del Dio del cielo”. Chi può dire ciò
che ho compreso della croce e quanto è da invidiare l’anima che la possiede?
Dopo ciò mi ha trasportato fuori
di me stessa e mi son trovata sopra una scala altissima, che sotto [di sé]
metteva ad un precipizio, e per giunta i gradini di questa scala erano movibili
e tanto stretti che appena si poteva poggiare la punta dei piedi. Quello che
più metteva terrore era il precipizio e il non poter trovare appoggio di sorta,
e volendosi afferrare ai gradini [questi] se ne venivano appresso. Nel[53]
vedere le altre persone, che quasi tutti precipitavano, metteva il brivido
nelle ossa; eppure non si poteva fare a meno di passare per quella scala.
Quindi mi son provata, ma appena ho fatto due o tre gradini, vedendo il
pericolo grande che correvo di cadere nell’abisso, ho incominciato a chiamare
Gesù, che venisse in mio aiuto. Onde senza sapere come ho trovato Gesù presso
di me, e mi ha detto:
“Figlia mia, questa che tu hai
visto è la via che battono tutti gli uomini in questa terra; i gradini movibili,
che neppure potevano appoggiarsi per avere un sostegno, sono gli appoggi umani,
le cose terrene, che volendosi appoggiare, invece di dar loro aiuto, danno loro
una spinta per precipitare più presto nell’inferno. Il mezzo più sicuro è il
camminare quasi volando, senza appoggiarsi sulla terra, a forza di proprie
braccia, con gli occhi tutti a sé, senza guardare gli altri, e con l’averli
anche tutti intenti a me per avere aiuto e forza; e così si potrà facilmente
evitare il precipizio”.
Luglio 28, 1899 (49)
La vita umana è un giuoco; anche Gesù scherza.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù è venuto con un aspetto tutto ammirabile e misterioso. Portava una catena
al collo, pendente su tutto il petto; da una parte si vedeva come un arco,
dall’altra parte della catena come un turcasso, pieno di pietre preziose e di
gemme, che dava un ornamento dei più belli al petto del mio dolce Gesù, e con
una lancia in mano. Mentre stava in questo aspetto mi ha detto:
“La vita umana è un giuoco; chi
gioca [con] il piacere, chi [con] il denaro e chi [con] la propria vita, e
tanti altri giuochi che fanno. Anch’io mi diletto di giocare con le anime; ma
quali sono questi scherzi che faccio? Sono le croci che invio; se le ricevono
con rassegnazione e me ne ringraziano io mi ricreo e scherzo con loro, compiacendomi
immensamente, ricevendone grande onore e gloria, ed a loro faccio fare dei più
grandi acquisti”.
Nell’atto di dire ciò ha
cominciato a toccarmi con la lancia; dall’arco e dal turcasso, già tutte quelle
pietre preziose che dentro conteneva uscivano fuori e si cambiavano in tante
croci e saette che ferivano le creature. Certune, ma in numero scarsissimo, ne
gioivano, se le baciavano e le ringraziavano e venivano a formare un giuoco con
Gesù; altri poi le prendevano e le gettavano in faccia a Gesù. Oh, come ne
restava afflitto Gesù e che gran perdita facevano quelle anime!
Poi Gesù ha soggiunto: “Questa è
la sete che gridai sulla croce, che non potendo dissetarla allora interamente,
mi compiaccio di continuare a dissetarla nelle anime dei miei cari che soffrono.
Quindi soffrendo, vieni a dare un ristoro alla mia sete”.
Ritornando altre volte a pregarlo
che liberasse il confessore che soffriva, mi ha detto: “Figlia mia, non sai tu
che il marchio più nobile che posso imprimere nei miei cari figli è la croce?”
Luglio 30, 1899 (50)
Gesù le parla della carità
verso il prossimo e della stima che bisogna avere delle sue parole.
Si continua quasi sempre lo
stesso. Questa mattina, trasportandomi Gesù secondo il suo solito fuori di me
stessa, siamo passati in mezzo [a] molta gente, e la maggior parte di questi,
erano intenti a giudicare le azioni altrui senza guardare le proprie. Il mio
diletto Gesù mi ha detto:
“Il mezzo più sicuro per essere
retto col prossimo è non guardare affatto ciò che essi fanno, ché guardare,
pensare e giudicare è tutto lo stesso. Poi guardando il prossimo, [l’uomo]
viene a defraudare l’anima propria; quindi ne avviene che non è retto né per sé
né per il prossimo né per Dio”.
Dopo ciò gli ho detto: “Mio unico
Bene, è da qualche tempo che non mi avete dato neppure un bacio”; e così ci
siamo ambedue baciati, e volendomi quasi correggere ha soggiunto:
“Figlia mia, quel che ti
raccomando è di conservare e di fare stima delle mie parole, perché la mia
parola è eterna e santa come me stesso, e conservandola nel tuo cuore, e
profittando, avrai la tua santificazione e ne riceverai in ricompensa uno
splendore eterno prodottoti dalla mia parola. Facendo diversamente, l’anima tua
riceverà un vuoto e ne resterai a me debitrice”.
Luglio 31, 1899 (51)
Gesù le compare silenzioso.
Continuando Gesù a venire, questa
mattina, ma però sempre in silenzio; ma[54]
io ne ero contentissima, purché avessi il mio tesoro Gesù, perché avendo lui
avevo tutti i miei contenti. Molte cose comprendevo nel vederlo, della sua
bellezza, della sua bontà ed altro; ma siccome era tutto per mezzo
d’intelligenza e per via di comunicazione intellettuale, perciò la bocca non sa
esprimere niente; onde le passo in silenzio.
Agosto 1, 1899 (52)
Lamenti di Gesù per le
impurità degli uomini.
Questa mattina il mio soavissimo
Gesù, trasportandomi fuori di me stessa, mi faceva vedere la corruzione in cui
è decaduto il genere umano. Fa orrore a pensarlo! Mentre mi trovavo in mezzo a
questa gente, Gesù diceva quasi piangendo:
“Oh, uomo, come ti sei deturpato,
deformato, snobilitato! Oh, uomo, io ti ho fatto perché fossi mio vivo tempio e
tu invece ti sei fatto abitazione del demonio! Guarda, anche le piante con
l’essere coperte di foglie, di fiori e frutti, t’insegnano l’onestà, il pudore
che tu devi avere del tuo corpo; e tu avendo perduto ogni pudore ed anche soggezione
naturale che dovresti avere ti sei reso peggiore delle bestie, tanto che non ho
più a chi rassomigliarti. Immagine mia tu eri, ma ora non più ti riconosco;
anzi mi fai tanto orrore delle[55]
tue impurità, che mi fai nausea a vederti, e tu stesso mi costringi a fuggire
da te”.
Mentre così diceva Gesù, io mi
sentivo straziare dal dolore nel vederlo così amareggiato il mio diletto Gesù,
perciò gli ho detto: “Signore, avete ragione che non trovate più niente di bene
nell’uomo, e che è giunto a tale cecità che non sa neppure più tenersi alle
leggi della natura, onde se volete guardare l’uomo non farete altro che mandare
castighi; perciò vi prego ad avere di mira la vostra misericordia, e così sarà
rimediato tutto”.
Mentre così dicevo, Gesù mi ha
detto: “Figlia, dammi tu un ristoro alle mie pene”. Nell’atto di dire così si è
tolto la corona di spine, che pareva incarnata nella sua adorabile testa, e me
l’ha conficcata nella mia. Vi sentivo dolori acerbissimi, ma ero contenta che
si ristorava Gesù. Dopo ciò mi ha detto:
“Figlia mia, io amo grandemente
le anime pure e, come dagli impuri sono costretto a fuggire, da queste[56]
invece come da calamita son tirato a fare soggiorno con loro. Alle anime pure
volentieri impresto la mia bocca per farle parlare con la stessa mia lingua;
sicché non hanno da durare fatica per[57]
convertire le anime. In dette anime io mi compiaccio, non solo di continuare in
loro la mia passione, e così continuare ancora la redenzione, ma quello che è
più mi compiaccio sommamente di glorificare in loro le mie stesse virtù”.
Agosto 2, 1899 (53)
Gesù fa minacce di castighi e
le mostra la necessità di corrispondere alle sue grazie.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù si faceva vedere tutto afflitto e quasi adirato cogli uomini, minacciando
i soliti castighi e di far morire gente all’improvviso sotto i fulmini,
grandine e fuoco. Io l’ho pregato assai che si placasse, e Gesù mi ha detto:
“Son tante le iniquità che si
innalzano dalla terra al cielo che, se mancasse per un quarto d’ora la
preghiera delle anime che stanno vittime innanzi a me, io farei uscire fuoco
dalla terra e brucerei le genti”. Poi ha soggiunto: “Vedi quante grazie dovrei
versare sulle creature, ma perché non trovo corrispondenza son costretto a
ritenerle in me, anzi me le fanno cambiare in castighi. Bada tu, figlia mia, a
corrispondermi alle tante grazie che sto versando in te, che la corrispondenza
è la porta aperta per farmi entrare nel cuore ed ivi formare la mia abitazione.
La corrispondenza è come quella buona accoglienza, quella stima che si usa a
quelle persone quando vengono a far visite, in modo che, attirate da quel
rispetto, da quelle maniere [e] affabilità che si usa[no] con loro, sono
costrette a venire altre volte e giungono a non sapersene distaccare. Il tutto
sta nel corrispondermi, ed a misura che[58]
mi corrispondono e [mi] trattano loro in terra, io mi [com]porterò con loro in
cielo, facendo loro trovare le porte aperte; inviterò tutta la corte celeste ad
accoglierli e li collocherò nel più sublime trono, ma sarà tutto al contrario
per chi non mi corrisponde”.
Agosto 7, 1899 (54)
Gesù mi parla sul nulla di noi
stessi.
Questa mattina l’amabile mio Gesù
non ci veniva. Dopo tanto aspettare e riaspettare finalmente è venuto. Era
tanta la mia confusione ed annichilazione che non sapevo dirgli niente. Gesù mi
ha detto: “Quanto più ti annienterai e conoscerai il tuo nulla, tanto più la
mia umanità, spiccando raggi di luce, ti comunicherà le mie virtù”.
Io gli ho detto: “Signore, sono
tanto cattiva e brutta che faccio orrore a me stessa; che sarò innanzi a voi?”
E Gesù: “Se tu sei brutta, sono
io che ti posso rendere bella”.
E nell’atto di così dire ha
mandato una luce da sé all’anima mia, e pareva che le comunicasse la sua
bellezza. E poi abbracciandomi ha incominciato a dire: “Quanto sei bella, ma
bella della mia stessa bellezza! Perciò sono tirato ad amarti”.
Chi può dire quanto son restata
più che mai confusa? Ma il tutto sia a sua gloria.
Agosto 8, 1899 (55)
Gesù le parla della
rassegnazione.
Continua a farsi vedere quando
appena[59]
e quasi adirato con gli uomini, e per quanto l’ho pregato che versasse in me le
sue amarezze è stato impossibile; e senza darmi retta a ciò che gli dicevo, mi
ha detto:
“La rassegnazione assorbisce
tutto ciò che può essere di pena e di disgustoso alla natura e lo converte in
dolce; ed essendo l’essere mio pacifico, tranquillo, in modo che qualunque cosa
potrà succedere in cielo e in terra non può ricevere il minimo alito di
turbazione, quindi la rassegnazione ha la virtù d’innestare nell’anima queste
stesse mie virtù. L’anima rassegnata sta sempre in riposo, non solo essa, ma fa
riposare tranquillamente anche me in lei”.
Agosto 10, 1899 (56)
Gesù le parla della giustizia
e della semplicità.
Mentre questa mattina il mio
dolce Gesù è venuto, mi ha trasportato fuori di me stessa ed è scomparso. Ed avendomi
lasciata sola, ho visto che dal cielo scendevano come due candelabri di fuoco,
e che poi, dividendosi in tanti pezzi, si formavano tanti fulmini e grandine
che scendevano in terra e faceva[no] uno strazio grandissimo sulle piante e
sugli uomini. Era tanto l’orrore e la cattività del temporale che non si poteva
neppure pregare, e le persone non potevano giungere a ritirarsi alle proprie
case. Chi può dire quanto sono restata spaventata? Onde mi son messa a pregare
per placare il Signore. Ritornando [Gesù], ho visto che in mano portava come
una bacchetta di ferro ed alla punta una palla di fuoco, e mi ha detto:
“La mia giustizia è lungamente trattenuta,
per questa ragione vuole vendicarsi contro le creature, mentre loro hanno
ardito di distruggere in loro ogni giustizia. Ah! Sì, niente di giusto trovo
nell’uomo; si è pur tutto contraffatto nelle parole, nelle opere e nei passi;
tutto è inganno, tutto è frode, tutto è ingiusto; sicché penetrando nel cuore,
[l’]interno e [l’]esterno non è altro che una sentina di vizi. Povero uomo,
come ti sei ridotto!”
Mentre così diceva, la bacchetta
che teneva in mano la dimenava in atto di ferire l’uomo. Io gli ho detto: “Signore,
che fai?”
E lui: “Non temere; vedi questa
palla di fuoco che farà fuoco e non colpirà che i cattivi, che[60]
i buoni non ne riceveranno nocumento”.
Ed io ho soggiunto: “Ah, Signore!
Chi è buono? Tutti siamo cattivi; ti prego di non guardare a noi, ma alla tua
infinita misericordia e così resterai placato per tutti”.
Dopo ciò ha soggiunto: “Figlia,
della giustizia è la verità. Come sono io verità eterna che non inganna, così
l’anima che possiede la giustizia fa rilucere in tutte le sue azioni la verità;
quindi conoscendo per esperienza la vera luce della verità, se qualcuno vuole
ingannarla con la luce che avverte in sé, subito conosce l’inganno; onde
avviene che con questa luce della verità non inganna sé stessa né il prossimo,
né può ricevere inganno. Frutto che produce questa giustizia e questa verità è
la semplicità, ch’è un’altra qualità dell’essere mio, e che penetra ovunque.
Non c’è cosa che può opporsi a farmi penetrare dentro: penetra nel cielo e
negli abissi, nel bene e nel male; ma l’essere mio, semplicissimo, penetrando
anche nel male non s’imbratta, anzi non ne riceve il minimo adombramento. Così
l’anima con la giustizia e con la verità va raccogliendo in sé questo bel
frutto della semplicità; penetra nel cielo, s’introduce nei cuori per condurli
a me, penetra in tutto ciò ch’è bene e, trovandosi coi peccatori a vedere il
male che fanno, non resta imbrattata, perché essendo semplice subito si sbriga,
senza ricevere nocumento alcuno. È tanto bella la semplicità che il mio cuore
resta ferito ad un solo [suo] sguardo. Un’anima semplice è d’ammirazione agli
angeli ed agli uomini”.
Agosto 12, 1899 (57)
Gesù la trasforma tutta in sé
e le dà ammaestramenti di carità verso il prossimo.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù, dopo che mi ha fatto per qualche tempo aspettare, è venuto dicendomi:
“Figlia mia, questa mattina voglio uniformarti tutta a me; voglio che pensi con
la mia stessa mente, che guardi coi miei stessi occhi, che ascolti con le mie
stesse orecchie, che parli con la mia stessa lingua, che operi con le mie
stesse mani, che cammini con i miei stessi piedi e che mi ami col mio stesso
cuore”.
Dopo ciò Gesù univa i suoi sensi
nominati di sopra ai miei, e vedevo che mi dava la sua stessa forma, non solo,
ma mi dava la grazia di farne quell’uso che fece egli stesso; e poi ha
seguitato a dire: “Grazie grandi io verso in te, ti raccomando di saperle
conservare”.
Ed io: “Temo assai, o mio diletto
Gesù, nel conoscermi tutta piena di miserie, e che invece di far bene faccio
cattivo uso delle grazie tue. Ma quel che più mi fa temere è la lingua che
spesso mi [fa] sdrucciolare nella carità del[61]
prossimo”.
E Gesù: “Non temere, t’insegnerò
io stesso il modo che devi tenere a[62]
parlare col prossimo. La prima cosa, quando ti si dice qualche cosa che
riguarda il prossimo, getta uno sguardo sopra te stessa ed osserva se tu sei
colpevole di quello stesso difetto, ed allora il voler correggere è un volere
indignare me e scandalizzare il prossimo. La seconda, se tu ti vedi libera di[63]
quel difetto, allora sollevati, e cercherai di parlare come avrei parlato io;
così parlerai con la mia stessa lingua. Facendo così non difetterai sulla
carità del prossimo, anzi coi tuoi discorsi farai bene a te e al prossimo, ed a
me darai onore e gloria”.
Agosto 13, 1899 (58)
Minacce di castighi.
Trasformazione di Gesù [in Luisa e di Luisa in Gesù].
Continuava a farsi vedere questa
mattina, quando appena, minacciando sempre castighi; e mentre io facevo per
pregare che si placasse, come un lampo mi sfuggiva davanti. L’ultima volta ch’è
venuto, si faceva vedere crocifisso; mi son messa vicino a baciare le sue
santissime piaghe, facendo varie adorazioni; ma mentre ciò facevo, invece di
Gesù Cristo ho visto la mia stessa immagine. Sono [re]stata sorpresa ed ho
lasciato [di fare ciò], dicendo: “Signore, che sto facendo? A me stessa sto
facendo le adorazioni? Questo non si può fare”.
E nell’atto stesso [la mia
immagine] si è cambiata nella persona di Gesù Cristo, e [Gesù] mi ha detto:
“Non ti meravigliare che ho preso la tua stessa immagine. Se io soffro in te
continuamente, qual maraviglia c’è che ho preso la tua stessa forma? E poi non
è per farti una mia stessa immagine che ti faccio soffrire?”
Io sono rimasta tutta confusa e
Gesù è scomparso. Sia tutto a gloria sua, sia benedetto sempre il suo santo nome!
Agosto 15, 1899 (59)
Gesù vuole che la carità
ordini tutto nel suo cuore; la fa assistere alla festa che si fa in cielo alla
Mamma celeste, e le dà l’ufficio di mamma in terra.
Il mio dolcissimo Gesù questa
mattina è venuto tutto festoso, portando un nembo di graziosissimi fiori fra le
mani; e mettendosi nel mio cuore, con quei fiori, ora si circondava la testa,
ora se li teneva tra le mani, tutto ricreandosi e compiacendosi. Mentre
festeggiava con questi fiori, parendo di aver fatto grande acquisto, si è voltato
a me e mi ha detto:
“Diletta mia, questa mattina sono
venuto per mettere nel tuo cuore in ordine tutte le virtù. Le altre virtù possono
stare separate l’una dall’altra, ma la carità lega e ordina tutto. Ecco quello
che voglio fare in te, se non[64]
che ordinare la carità”.
Io gli ho detto: “Mio solo ed
unico Bene, come puoi far ciò essendo io tanto cattiva e piena di difetti ed imperfezioni?
Se la carità è ordine, questi difetti e peccati non sono disordine che tengono
tutto in scompiglio e rivoltato l’animo mio?”
E Gesù: “Io purificherò tutto e
la carità metterà tutto in ordine. E poi quando un’anima la faccio partecipe
delle pene della mia passione, non [ci] possono essere colpe gravi, al più
qualche difetto veniale involontario; ma il mio amore, essendo fuoco, consumerà
tutto ciò che è imperfetto nell’animo tuo”.
Così Gesù pareva che mi
purificasse, ed ordinasse tutto; poi versava come un rivolo di miele dal suo
cuore nel mio e con quel miele innaffiava tutto il mio interno, in modo che
tutto ciò che stava in me restava ordinato, unito e con l’impronta della
carità. Dopo ciò mi son sentita uscire fuori di me stessa nella volta dei cieli
insieme col mio amante Gesù. Pareva che tutto era in festa, cielo, terra e
purgatorio; tutti erano inondati d’un nuovo gaudio e giubilo; molte anime
uscivano dal purgatorio e come folgori giungevano in cielo per assistere alla
festa della nostra Regina Mamma. Anch’io mi spingevo in mezzo a quella folla
immensa di gente, cioè angeli e santi e [anime del] purgatorio, che occupavano
quel nuovo cielo ch’era tanto immenso che quello nostro che vediamo,
confrontato con quello, mi pareva un piccolo buco; molto più che ne avevo
l’ubbidienza del confessore. Ma nel mentre facevo per guardare, non vedevo
altro che un sole luminosissimo che spandeva raggi che tutta mi penetravano da
parte a parte, da [farmi] diventare come cristallo, tanto che si scorgeva[no]
benissimo i piccoli nei e l’infinita distanza che passa tra il Creatore e la
creatura; tanto più che quei raggi, ognuno aveva la sua impronta, chi dimostrava
la santità di Dio, chi la purità, chi la potenza, chi la sapienza e tutte le
altre virtù ed attributi di Dio. Sicché l’anima, vedendo il suo nulla, le sue
miserie e la sua povertà, si sentiva annichilita, ed invece di guardare
sprofondava boccone a terra, innanzi a quel sole eterno, innanzi a cui non c’è
nessuno che può stargli di fronte.
Il più era che per vedere la
festa della nostra Mamma Regina si doveva guardare da dentro quel sole; tanto
pareva immersa in Dio la Vergine Santissima, che guardando da altri punti non
si vedeva niente. Ora mentre mi trovavo in queste condizioni d’annichilazione
innanzi a quel sole divino, la Mamma Regina tenendo in braccio il bambinello,
Gesù mi ha detto:
“[È] la nostra Mamma che sta in
cielo; do a te l’ufficio di farmi da mamma sulla terra. E siccome la mia vita
va continuamente soggetta ai disprezzi, alla povertà, alle pene, agli abbandoni
degli uomini, e mia Madre stando in terra fu la mia compagna di[65]
tutte queste pene, non solo, ma cercava di sollevarmi in tutto per quanto le
sue forze potevano, anche tu facendomi da madre mi terrai fedele compagnia in
tutte le mie pene, soffrendo tu in vece mia per quanto puoi, e dove non puoi
cercherai di darmi almeno un ristoro. Sappi però che ti voglio tutta intenta a
me; sarò geloso anche del tuo respiro se non lo farai per me, e quando vedrò
che tu non starai tutta intenta a contentarmi non ti darò né pace né riposo”.
Dopo ciò ho incominciato a fargli
l’ufficio della Mamma sua; ma, oh, quanta attenzione ci voleva per contentarlo!
Non si poteva dare neppure uno sguardo altrove, per vederlo contentato; ora
voleva dormire, ora voleva bere, ora voleva ricrearsi con le carezze, ed io
dovevo trovarmi pronta a tutto ciò che voleva; ora diceva: “Mamma mia, mi duole
la testa, deh, sollevami!” Ed io subito gli vedevo la testa, e trovando delle
spine le toglievo, e mettendogli il mio braccio sotto la testa lo facevo
riposare. Mentre facevo che riposasse, nel meglio si alzava e diceva: “Mi sento
un peso ed una sofferenza al cuore da sentirmi morire; vedi un poco che ci
sta”. Ed osservando nell’interno del cuore ho trovato tutti gli strumenti della
passione; ad uno ad uno li ho tolti e li ho messi nel mio cuore.
Onde vedendolo sollevato ho
cominciato a carezzarlo ed a baciarlo e gli ho detto: “Solo ed unico mio
tesoro, neppure mi avete fatto vedere la festa della nostra Regina Madre né
sentire i primi cantici che fecero gli angeli e santi nell’ingresso che fece
nel paradiso”.
E Gesù: “Il primo cantico che
fecero alla mia Mamma fu l’Ave Maria,
perché nell’Ave Maria si contengono
le lodi più belle, gli onori più grandi, e si rinnova il gaudio che [essa] ebbe
nell’essere fatta Madre di Dio; perciò recitiamola insieme per onorarla, e
quando verrai tu in paradiso te la farò trovare come se l’avessi recitata
insieme cogli angeli la prima volta nel cielo”. E così abbiamo recitato la prima
parte dell’Ave Maria insieme con
Gesù. Oh, come era tenero e commovente salutare la nostra Mamma Santissima insieme
col suo diletto Figlio! Ogni parola che le diceva portava una luce immensa in
cui si comprendevano molte cose sul conto della Vergine Santissima; ma chi può
dirle tutte, molto più per la mia incapacità? Perciò le passo in silenzio.
Agosto 16, 1899 (60)
Continua a funzionare da mamma
a Gesù. La signora obbedienza.
Gesù continua a volere che [io]
gli faccia da madre; onde facendosi vedere da graziosissimo bambinello,
piangeva, e per quietarlo dal pianto, tenendolo fra le mie braccia l’ho
incominciato[66]
a cantare. Quindi avveniva che quando lo cantavo cessava dal piangere, e quando
no riprendeva il suo pianto. Io avrei voluto passare in silenzio ciò che
cantavo, perché, primo non ricordo tutto, che essendo fuori di me stessa
difficilmente si ritengono tutte le cose che passano, ed anche perché credo che
siano spropositi. Ma la signora ubbidienza, essendo troppo impertinente, non me
la vuol cedere, e basta che si faccia come lei vuole, si contenta anche di
spropositi. Io non so, si dice ch’è cieca questa signora obbedienza, ed a me mi
pare piuttosto tutt’occhi, perché guarda le minime cose; e quando non si fa
come lei dice si rende tanto impertinente che non ti dà pace. Ecco che ci vuole
per avere quiete da questa bella signora obbedienza; perché poi è tanto buona
quando si fa come lei dice, che tutto ciò che si vuole per mezzo suo tutto si
ottiene. Perciò mi accingo a dire quel che mi ricordo che cantavo:
“Bambinello sei piccolo e forte,
da te aspetto ogni conforto.
Bambinello grazioso e bello,
tu innamori anche le stelle.
Bambinello rubami il cuore,
per riempirlo del tuo amore.
Bambinello tenerello,
rendi anche me bambinella.
Bambinello sei un paradiso,
deh, fammi venire a giocare
nell’eterno riso!”
da te aspetto ogni conforto.
Bambinello grazioso e bello,
tu innamori anche le stelle.
Bambinello rubami il cuore,
per riempirlo del tuo amore.
Bambinello tenerello,
rendi anche me bambinella.
Bambinello sei un paradiso,
deh, fammi venire a giocare
nell’eterno riso!”
Agosto 17, 1899 (61)
Gesù le parla dell’ubbidienza.
Questa mattina avendo fatto la
comunione, stavo a dire al mio amabile Gesù: ”Come va che questa virtù
dell’obbedienza è tanto impertinente, e delle volte è tanto forte, che giunge a
rendersi capricciosa?”
Ed egli: “Sai perché questa
nobile signora obbedienza è come tu dici? Perché dà la morte a tutti i vizi, e
naturalmente uno che deve far subire la morte ad un altro dev’essere forte e
coraggioso, e se non [vi] giunge con questo, se ne avvale delle impertinenze e
dei capricci. Se questo è necessario per uccidere il corpo ch’è tanto fragile,
molto più per dar morte ai vizi ed alle proprie passioni, ch’è tanto difficile,
che delle volte, mentre compariscono morte, incominciano a rivivere di nuovo.
Ecco che questa diligente signora sta sempre in movimento e continuamente sta a
spiare se vede che l’anima fa la minima difficoltà a ciò che le viene
comandato; quindi temendo che qualche vizio possa incominciare a rivivere nel
suo cuore, le fa tanta guerra e non le dà pace fino a tanto che l’anima non si
prostri ai suoi piedi e adori in muto silenzio ciò che lei vuole. Ecco perché è
tanto impertinente e quasi capricciosa come tu dici.
Ah, sì! Non c’è vera pace senza
obbedienza, e se pare che si gode pace è pace falsa, perché va d’accordo con le
proprie passioni, ma giammai con le virtù, e si finisce col rovinare, perché
discostandosi dall’ubbidienza [le creature] si discostano da me che fui il re
di questa nobile virtù. Poi l’ubbidienza uccide la propria volontà ed a
torrenti riversa la divina, tanto che si può dire che l’anima ubbidiente non
vive della volontà sua, ma della divina. E si può dare vita più bella, più
santa del vivere della Volontà di Dio medesimo? Onde con le altre virtù, anche
la più sublime, ci può stare l’amor proprio, ma con l’ubbidienza non mai”.
Agosto 18, 1899 (62)
Gesù le mostra come la sua
parola non solo è verità, ma anche luce.
Venendo questa mattina
l’amantissimo Gesù, gli ho detto: “Diletto mio Gesù, io credo che tutto ciò che
scrivo siano tanti spropositi”.
E Gesù: “La mia parola non solo è
verità, ma è luce ancora, e quando la luce entra in una stanza oscura, che fa?
Snebbia le tenebre e fa scovrire gli oggetti che ci sono, brutti o belli, se ci
sta ordine o disordine, e dal modo come trova si giudica la persona che occupa
quella stanza. Or la vita umana è la stanza oscura, e quando la luce della
verità entra in un’anima snebbia le tenebre, cioè fa scovrire il vero dal
falso, il temporale dall’eterno; onde caccia da sé i vizi e si mette[67]
l’ordine delle virtù, perché essendo la mia luce santa, che è la stessa
Divinità, non potrà comunicare altro che santità ed ordine. Quindi l’anima si
sente uscire da sé luce di pazienza, d’umiltà, di carità ed altro. Se la mia
parola produce in te questi segni, a che pro temere?”
Dopo ciò Gesù mi ha fatto sentire
che pregava il Padre suo per me, dicendo: “Padre Santo, vi prego per
quest’anima, fate che adempisca in tutto perfettamente la nostra Santissima Volontà. Fate, o Padre adorabile, che le sue
azioni siano tanto conformate con le mie, da non potersi discernere le une
dalle altre, e così poter compiere sopra di essa ciò che ho disegnato”.
Ma chi può dire la forza che mi
sentivo infondere nell’animo da questa preghiera di Gesù? Mi sentivo vestire
l’anima di una fortezza tale, che per adempire la Volontà Santissima di Dio non
mi sarei curata di soffrire mille martìri, se così fosse il suo beneplacito.
Sia sempre ringraziato il Signore che tanta misericordia usa con questa povera
peccatrice.
Agosto 21, 1899 (63)
Gesù le mostra come si sente
attratto dalle anime che agiscono solo per piacere a lui.
Dopo aver passato due giorni di
sofferenze, il mio benigno Gesù si mostrava tutto affabilità e dolcezza; nel
mio interno andavo dicendo: “Quanto è buono con me il Signore! Eppure non trovo
in me niente di bene che possa gradirlo[68]”.
E Gesù rispondendomi mi ha detto:
“Diletta mia, siccome tu non altro piacere e contento trovi che trattenerti e
conversare e darmi gusto solo a me, in modo che tutte le altre cose che non
sono mie ti sono disgustevoli, così io, il mio piacere e la mia consolazione è
il venire a trattenermi e parlare con te. Tu non puoi capire la forza che ha
sul mio cuore di attirarmi a sé un’anima[69]
che ha il solo fine di piacere a me solo; mi sento tanto legato con essa, che
sono costretto a fare ciò che lei vuole”.
Mentre Gesù così diceva, compresi
che parlava in quel modo, [per]ché nei giorni passati, mentre soffrivo acerbi
dolori, nel mio interno andavo dicendo: “Gesù mio, tutto per amore tuo, questi
dolori siano tanti atti di lode, di onore, di omaggio che ti offro; questi
dolori siano tante voci che ti glorifichino e tanti attestati che dicano che ti
amo”.
Agosto 22, 1899 (64)
Gesù le comunica le virtù.
Continua il mio caro Gesù a
venire tutto amabile e maestoso. Mentre stava in questo aspetto mi ha detto: “La
purità dei miei sguardi risplende in tutte le tue operazioni, in modo che
risalendo di nuovo nei miei occhi mi produce uno splendore e mi ricrea dalle
sofferenze che mi fanno[70]
le creature”.
Io sono restata tutta confusa a
queste parole, tanto che non ardivo dirgli niente; ma Gesù rincorandomi ha incominciato
a dirmi: “Dimmi, che vuoi?”
Ed io: “Quando ho te, c’è altra
cosa che potrei desiderare di più?” Ma Gesù ha replicato più d’una volta che
gli dicessi ciò che volessi; ed io dandogli uno sguardo ho visto la bellezza
delle sue virtù e gli ho detto: “Mio dolcissimo Gesù, dammi le tue virtù”.
Ed egli, aprendo il suo cuore
faceva uscire tanti raggi distinti delle sue virtù, che entrando nel mio
[cuore], mi sentivo tutta rafforzare nelle virtù. Poi ha soggiunto: “Che altro
vuoi?”
Ed io, ricordandomi che nei
giorni passati un dolore che soffrivo m’impediva che i miei sensi si perdessero
in Dio, gli ho detto: “Benigno mio Gesù, fa che il dolore non m’impedisca di
potermi perdere in te”.
E Gesù, toccandomi con la sua
mano la parte sofferente, ha mitigato l’acerbità dello spasimo, in modo che
posso raccogliermi e perdermi in lui.
Agosto 27, 1899 (65)
Effetti che sperimenta l’anima
quando viene Gesù.
Questa mattina, mentre vedevo il
mio dolce Gesù, mi sentivo un timore che non fosse lui, ma il demonio per
illudermi. E Gesù rispondendomi al timore mi ha detto:
“Quando sono io che mi presento
all’anima, tutte le interiori potenze si annichiliscono e conoscono il loro
nulla, ed io vedendo l’anima umiliata, faccio sovrabbondare il mio amore come
tanti ruscelli, in modo da inondarla tutta e fortificarla nel bene. Tutto al
contrario succede quando è il demonio”.
Agosto 30, 1899 (66)
Gesù le mostra lo stato
lacrimevole del mondo e le predice futuri castighi.
Questa mattina il mio diletto
Gesù mi ha trasportato fuori di me stessa e mi ha fatto vedere il decadimento
della religione negli uomini ed un preparativo di guerra. Io gli ho detto: “Oh,
Signore, in che stato lacrimevole si trova il mondo in questi tempi in fatto di
religione! Pare che nel mondo non più si riconosce colui che nobilita l’uomo e
lo fa aspirare ad un fine eterno, ma quello che più fa piangere è che si ignora
la religione da parte di quegli stessi che si dicono religiosi, che dovrebbero
metter la propria vita per difenderla e fare che rivivesse”.
E Gesù prendendo un aspetto
afflittissimo mi ha detto: “Figlia mia, questa è la causa che l’uomo vive da bestia,
perché ha perduto la religione; ma tempi più tristi verranno per l’uomo in[71]
pena della cecità in cui egli stesso si è immerso, tanto che mi [si] stringe il
cuore a vederlo. Ma il sangue farà rivivere questa santa religione; il sangue
che farò spargere da ogni specie di gente, da secolari e da religiosi, innaffierà
il resto delle genti inselvatichite che rimarranno, ed ingentilendole di nuovo
restituirà loro la loro nobiltà. Ecco la necessità che il sangue si sparga e
che le stesse chiese restino quasi abbattute, per fare che ritornassero di
nuovo ed esistessero col loro primiero lustro e splendore”.
Ma chi può dire lo strazio
crudele che ne faranno nei tempi avvenire? Ma lo passo in silenzio, perché non
ricordo tanto bene e non lo veggo tanto chiaro; se il Signore vuole che ne
faccio parola mi darà più chiarezza, ed allora prenderò di nuovo la penna in
questo argomento. Perciò per ora faccio punto.
Agosto 31, 1899 (67)
Riceve dal confessore
l’ubbidienza di respingere Gesù.
Avendo il confessore data
l’ubbidienza che quando veniva Gesù dovevo dire: “Non posso parlare, allontanatevi”,
io l’ho preso per uno scherzo e non come obbedienza formale. Perciò quando Gesù
è venuto, quasi non badando all’ordine ricevuto, ho ardito di dirgli: “Mio buon
Gesù, vedi un po’ che cosa vuol fare il padre”.
Ed egli mi ha detto: “Figlia,
abnegazione”.
Ed io: “Neh, Signore, ma la cosa
è seria, si tratta che non devo voler te; come lo posso?”
Ed egli, per la seconda volta:
“Abnegazione”.
Ed io: “Neh, Signore, che dici?
Conosci tu che posso stare senza di te?”
Ed egli, per la terza volta: “Ma,
figlia mia, abnegazione”, ed è scomparso.
Chi può dire come son rimasta nel
vedere che Gesù voleva che mi disponessi all’ubbidienza?
Settembre 1, 1899 (68)
Respinge ripetutamente Gesù;
suo martirio. Gesù le dice cose mirabili sull’ubbidienza.
Essendo venuto il confessore mi
ha domandato se avessi fatto l’ubbidienza, ed avendogli detto la cosa come era
andata, ha rinnovato l’ubbidienza che assolutamente non dovessi discorrere con
Gesù, mio solo ed unico conforto, e che dovevo cacciarlo se venisse. Ed ecco
che avendo capito che l’ubbidienza che mi si dava era vera, nel mio interno ho
detto il Fiat Voluntas Tua, anche in
questo. Ma, oh, quanto mi costa, e che crudele martirio! Mi sento come un
chiodo fitto nel cuore, che me lo trapassa da parte a parte; e siccome il cuore
è abituato a chiedere e desiderare Gesù continuamente, tanto che come è continuo
il respirare ed il palpitare, così mi pare che è continuo il desiderare e
volere il solo mio Bene, quindi volere impedire questo, sarebbe lo stesso che volere
impedire ad un altro il respirare ed il palpitare del cuore; come si potrebbe
vivere? Eppure bisogna far prevalere l’ubbidienza. Oh, Dio, che pena, che
strazio atroce! Come impedire al cuore che chieda la sua stessa vita? Come
frenarlo? La volontà si metteva con tutta la sua forza a frenarlo, ma siccome
ci voleva continuamente gran vigilanza, di tanto in tanto si stancava e si
avviliva, il cuore faceva la sua scappata e chiedeva Gesù. La volontà, avvertendosi
di questo, si metteva con maggior forza a frenarlo; ma che, ci perdeva spesso
spesso, quindi mi pareva che facessi continui atti di disubbidienza. Oh, in
quali contrasti, che guerra sanguinolenta, che agonie mortali soffriva il mio
povero cuore! Mi trovavo in tali strettezze ed in tali sofferenze che sentivo
che[72]
se ne andasse la vita. Eppure era questo un conforto per me, se potessi morire.
Ma no, quello ch’era più, che si sentiva[no] pene di morte, ma senza poterne morire!
Onde dopo aver versato lacrime
amarissime tutto il giorno, la notte, trovandomi nel mio solito stato, il mio
sempre benigno Gesù è venuto, ed io costretta dall’ubbidienza gli ho detto:
“Signore, non ci venite, che l’ubbidienza non vuole!”
E lui, compatendomi e volendomi
fortificare nelle sofferenze che mi trovavo, con la sua mano creatrice ha segnato
la mia persona con [un] segno grande di croce, e mi ha lasciato. Ma chi può
dire il purgatorio in cui mi trovavo? Ed il più era che non potevo slanciarmi
verso il mio sommo ed unico Bene. Ah, sì! Mi era negato di chiedere e desiderare
Gesù. A quelle anime benedette del purgatorio viene permesso di chiedere, di
slanciarsi, di sfogarsi verso il sommo Bene, solo viene loro vietato il
prenderne possesso; a me no, m’era negato anche questo conforto. Quindi tutta
la notte non ho fatto altro che piangere. Quando la mia debole natura non ne
poteva più, l’amabile Gesù è ritornato in atto di volere parlare con me, ed io
subito ricordandomi dell’ubbidienza che vuole soprattutto regnare, gli ho
detto: “Cara mia vita, non posso parlare, e non venite, che l’ubbidienza non
vuole; se vuoi far capire la tua Volontà, vai da loro[73]”.
Mentre così dicevo ho visto il
confessore, e Gesù avvicinatosi a lui gli ha detto: “Questo è impossibile alle
anime mie; le tengo tanto immerse in me da formare una stessa sostanza, tanto
che non si discerne più l’una dall’altra; è come quando si uniscono due
sostanze insieme, una si trasmette nell’altra, e dopo anche a volerle separare
riesce inutile anche il pensarlo. Così è impossibile che le anime mie possano
stare separate da me”. E detto questo si è partito, ed io son rimasta in più
[grande] afflizione di prima. Il cuore mi batteva tanto forte che mi sentivo
crepare il petto.
Dopo ciò, non so dire come, mi
son trovata fuori di me stessa, e dimenticandomi, non so come, dell’ubbidienza
ricevuta, ho girato la volta dei cieli piangendo, gridando e cercando il mio
dolce Gesù. Quando al meglio me lo sono visto venire, gettandosi fra le mie
braccia tutto acceso, e languendo, subito mi son ricordata del comando ricevuto
e gli ho detto: “Signore non volermi tentare questa mattina; non sapete che
l’ubbidienza non vuole?”
Ed egli: “Mi ha mandato il
confessore, perciò son venuto”.
Ed io: “Non è vero, sei forse
qualche demonio, che vuoi ingannarmi e farmi mancare all’ubbidienza?”
E Gesù: “Non sono demonio”.
Ed io: “Se non sei demonio,
facciamoci a vicenda il segno di croce”. E così ci siamo segnati tutti e due
con la croce, poi ho seguitato a dirgli: “Se è vero che ti ha mandato il confessore, andiamo da lui, affinché
egli stesso possa vedere se sei Gesù Cristo oppure demonio, allora posso
essere sicura”. Così siamo andati dal confessore, e siccome [Gesù] era da
bambino, l’ho dato in braccio a lui dicendogli: “Padre, vedete voi stesso, è il
mio dolce Gesù o no?” Ora mentre Gesù benedetto stava col padre, gli ho detto:
“Se sei veramente Gesù, bacia la mano al confessore”.
Nella mia mente pensavo che se
fosse il Signore avrebbe fatto quell’umiliazione di baciare la mano, ma se
fosse demonio, no. E Gesù la baciò, ma non all’uomo, ma alla potestà
sacerdotale; così l’ha baciata. Dopo ciò il confessore pareva che lo
scongiurasse per vedere se fosse demonio, e non trovandolo tale l’ha restituito
a me. Ma con tutto ciò, il mio povero cuore non poteva godere gli amplessi del
mio diletto Gesù, perché l’ubbidienza lo teneva come legato, inceppato; tanto
più che non ci stava nessun ordine in contrario ancora, quindi non ardivo di
sfogarmi, neppure di dire una parola di amore.
Oh, santa ubbidienza! Quanto tu
sei forte e potente! Io ti veggo in questi giorni di martirio innanzi a me come
un guerriero potentissimo, armato dalla testa ai piedi, di spade, di saette, di
frecce, ripieno di tutti quegli strumenti atti a ferire; e quando vedi che il
mio povero cuore stanco e lasso vuole sollevarsi cercando il suo refrigerio, la
sua vita, il centro cui, come da calamita si sente tirare, tu, guardandomi con
mille occhi, da tutte le parti mi ferisci con ferite mortali. Deh, abbi pietà
di me e non essere meco crudele!
Ma mentre ciò dicevo, la voce del
mio adorabile Gesù mi si fece sentire al mio orecchio, che diceva: “L’ubbidienza
fu tutto per me, l’ubbidienza voglio che sia tutto per te. L’ubbidienza mi fece
nascere, l’ubbidienza mi fece morire; le piaghe che tengo nel mio corpo sono tutte
ferite e segni che mi fece l’ubbidienza. Con ragione hai tu detto ch’è un
guerriero potentissimo armato d’ogni specie di armi atte a ferire, perché in me
non mi lasciò neppure una goccia di sangue, mi svelse a brani le carni, mi
slogò le ossa, ed il mio povero cuore, affranto, sanguinolento, andava cercando
un sollievo da chi avesse di me compassione. L’ubbidienza facendosi con me più
che crudel tiranno, allora si contentò, quando mi sacrificò sulla croce, e
vittima mi vide spirare per suo amore. E perché ciò? Perché l’ufficio di questo
potentissimo guerriero è di sacrificare le anime; quindi non fa altro che
muovere guerra accanita a chi tutto non si sacrifica per lei; onde non ha
nessun riguardo se l’anima soffra o goda, se viva o muoia; i suoi occhi sono
intenti a vedere se lei vince, che delle altre cose, non si briga affatto.
Onde il nome di questo guerriero
è vittoria, perché tutte le vittorie concede all’anima obbediente; e quando
pare che questa muore, allora incomincia la vera vita. E che cosa non mi
concesse l’ubbidienza di più grande? Per suo mezzo vinsi la morte, sconfissi
l’inferno, sciolsi l’uomo incatenato, aprii il cielo e come re vittorioso presi
possesso del mio regno, non solo per me, ma per tutti i miei figli che avrebbero
profittato della mia redenzione. Ah, sì! È vero che mi fece costare la vita, ma
il nome ubbidienza mi risuona dolce al mio udito, e perciò tanto amore prendo a[74]
quelle anime che sono obbedienti”.
Riprendo a dire da dove ho
lasciato.
Dopo poco è venuto il confessore,
ed avendogli detto tutto ciò che ho detto di sopra, mi ha rinnovato l’obbedienza
che avessi continuato lo stesso[75].
Ed avendogli detto: “Padre, permettete almeno di darmi la libertà al cuore di
chiedere Gesù; che l’ubbidienza di dire, quando viene: ‘Non ci venite’ e ‘non
posso discorrere’, la faccio”; egli [mi ha risposto]: “Fa quanto puoi a frenarlo,
e quando non puoi, allora dagli la libertà”.
Settembre 2, 1899 (69)
Continua a respingere Gesù, ma
finalmente il confessore la libera dall’ubbidienza.
Onde, [con] questa ubbidienza un
po’ più mite, il mio povero cuore pareva [che] da morto incominciasse un po’ a
vivere; ma con tutto ciò non mi lasciava d’essere straziato[76]
in mille guise, perché l’ubbidienza, quando vedeva che il cuore si fermava un
po’ di più in cerca del suo autore, quasi che si volesse in lui riposare,
perché sfinito di forze, mi dava sopra[77]
e coi suoi artigli tutta mi feriva. E poi quel dover ripetere quel ritornello,
quando il benedetto Gesù si faceva vedere: “Non ci venite, non posso discorrere,
che l’ubbidienza non vuole”, era per me il più atroce e crudel martirio.
Onde il mio dolce Gesù,
trovandomi nel mio solito stato, è venuto, ed io gli ho manifestato il comando
ricevuto; e lui se n’è andato. Una sol volta, mentre io gli stavo dicendo: “Non
ci venite, che l’ubbidienza non vuole”, mi ha detto:
“Figlia mia, abbi sempre innanzi
alla tua mente la luce della mia passione, che nel vedere le mie pene acerbissime,
le tue ti parranno piccole, e nel considerare la causa per cui soffrii tanti
dolori immensi, che fu il peccato, i più piccoli difetti ti parranno gravi;
invece se non ti specchierai in me, le più piccole pene ti sembreranno pesanti
ed i difetti gravi li reputerai cosa da niente”. Ed è scomparso.
Dopo poco è venuto il confessore,
ed avendogli domandato se ancora dovessi continuare questa obbedienza, mi ha
detto: “No, puoi dirgli ciò che vuoi, e tienilo quanto vuoi”.
Pare che sono lasciata libera e
non ho tanto a che fare con questo guerriero sì potente, altrimenti questa
volta si sarebbe reso tanto forte che mi dava la morte; ma però mi avrebbe
fatto fare un gran guadagno, perché mi sarei unita per sempre al sommo Bene,
non ad intervalli, e lo avrei ringraziato, non solo, ma gli avrei cantato il
cantico dell’ubbidienza, cioè il cantico delle vittorie; quindi me ne sarei
risa di tutta la sua fortezza. Ma mentre ciò dicevo innanzi a me è comparso un
occhio risplendente e bello, ed una voce che diceva: “Ed io mi sarei unito
insieme con te e mi sarei compiaciuto di ridere, ma purché fosse stata mia la
vittoria”.
Ed io: “O cara obbedienza, che
dopo aver fatto una risata insieme, ti avrei lasciata alla porta del paradiso
per dirti addio, e non più rivederci, per non aver a che fare con te, e me ne
sarei ben guardata di lasciarti entrare!”
Settembre 5, 1899 (70)
Gesù le dice che egli opera la
perfezione a passo a passo.
Questa mattina mi trovavo in tale
abbattimento d’animo, e mi vedevo tanto cattiva, che io stessa mi rendevo
insopportabile. Essendo venuto Gesù, gli ho detto le mie pene e lo stato
miserabile in cui mi trovavo, ed egli mi ha detto: “Figlia mia, non volere perderti
di coraggio; questo è mio solito, di operare la perfezione a passo a passo e
non tutto in un istante, affinché l’anima, vedendosi sempre in qualche cosa
manchevole, si spinga, faccia tutti gli sforzi per raggiungere ciò che le
manca, affine di più piacermi e di maggiormente santificarsi. Onde io, tirato
da quegli atti, mi sento sforzato a darle nuove grazie e favori celesti, e con
ciò si viene a formare un commercio tutto divino tra l’anima e Dio.
Diversamente, possedendo l’anima in sé la pienezza della perfezione e quindi
tutte le virtù, non troverebbe modi come sforzarsi come più piacergli[78],
onde verrebbe a mancare l’esca come accendere il fuoco tra la creatura e il Creatore”.
Sia sempre benedetto il Signore!
Settembre 9, 1899 (71)
Gesù le parla del nulla delle
anime e dell’amore che porta a lei.
Continua Gesù a venire, ma in un
aspetto tutto nuovo. Pareva che dal suo cuore benedetto uscisse un tronco
d’albero che conteneva tre radici distinte; e questo tronco, dal suo [cuore si]
sporgeva nel mio, ed uscendo dal mio cuore, il tronco formava tanti bei rami
carichi di fiori e di frutti, di perle e di pietre preziose risplendenti come
stelle fulgidissime. Ora il mio amante Gesù, vedendosi all’ombra di
quest’albero, tutto si ricreava; molto più che dall’albero cadevano tante perle
che formavano un bell’ornamento all’umanità sua santissima.
Mentre stava in questa posizione
mi ha detto: “Figlia mia carissima, le tre radici che vedi che contiene quest’albero
sono la fede, la speranza e la carità. E siccome tu vedi [che] questo tronco
esce da me e s’introduce nel tuo cuore, ciò significa che non c’è bene che
posseggano le anime che non venga da me. Sicché dopo la fede, la speranza e la
carità, il primo sviluppo che fa questo tronco è il far conoscere che tutto il
bene viene da Dio, che [le anime], di loro[79]
non hanno altro che il proprio nulla, e che questo nulla non fa altro che darmi
la libertà di farmi entrare in loro e farmi operare ciò che voglio; mentre vi
sono altri ‘nulli’, cioè altre anime che con la loro libera volontà si oppongono;
onde mancando questa conoscenza il tronco non produce né rami né frutti e
nessun’altra cosa di buono.
I rami che contiene quest’albero,
con tutto l’apparato dei fiori, frutti, perle e pietre preziose, sono tutte le
diverse virtù che può possedere l’anima. Ora chi ha dato la vita a quest’albero
così bello? Certo le radici; ciò significa che la fede, la speranza e la
carità, tutto abbracciano, tutte le virtù contengono, tanto che sono messe come
base e fondamento dell’albero, e senza di loro non si può produrre nessun’altra
virtù”.
Onde ho compreso pure che i fiori
significano le virtù, i frutti i patimenti, le pietre e le perle preziose il
patire puramente per il solo amore di Dio. Ecco perciò quelle perle che
cadevano, formavano quel bell’ornamento a Nostro Signore. Or mentre Gesù sedeva
all’ombra di quest’albero, mi guardava con tenerezza tutta paterna, onde preso
da un trasporto amoroso, che non ha potuto contenere in sé, e strettamente
abbracciandomi, ha incominciato a dire:
“Quanto sei bella! Tu sei la mia
semplice colomba, la mia diletta dimora, il mio vivo tempio in cui unito col
Padre e lo Spirito Santo mi compiaccio di deliziarmi. Il tuo continuo languire
per me, mi solleva e ristora dalle continue offese che mi fanno le creature.
Sappi ch’è tanto l’amore che ti porto, che son costretto a nasconderlo in
parte, per fare che tu non impazzisca, e non potessi vivere, ché se te lo
facessi vedere, non solo impazziresti, ma non potresti continuare a vivere; la
tua debole natura resterebbe consumata dalle fiamme del mio amore”.
Mentre ciò diceva io mi sentivo
tutta confondere ed annichilire e mi sentivo sprofondare nell’abisso del mio
nulla, perché mi vedevo tutta imperfetta; specialmente notavo la mia
ingratitudine e freddezze alle tante grazie che il Signore mi fa. Ma spero che
tutto vuole ridondare a sua gloria ed onore, sperando con ferma fiducia che uno
sforzo del suo amore voglia vincere la mia durezza.
Settembre 16, 1899 (72)
Gesù le mostra i mirabili
effetti del patire solo per Dio.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù è venuto, e temendo che fosse il demonio gli ho detto: “Permettetemi che
vi segni la fronte con la croce”; e nell’atto stesso l’ho segnato e così sono
restata più sicura e tranquilla. Ora Gesù benedetto pareva stanco e si voleva
riposare in me; e siccome anch’io mi sentivo stanca per le sofferenze dei
giorni passati, specialmente per le sue pochissime venute, onde mi sentivo la
necessità di riposarmi in lui. Quindi dopo aver contrastato un poco insieme, mi
ha detto:
“La vita del cuore è l’amore. Io
sono come un infermo che brucia di febbre, che va trovando[80]
un rinfresco, un sollievo nel fuoco che lo divora. La mia febbre è l’amore; ma
dove estraggo i rinfreschi, i sollievi più adatti al fuoco che mi consuma?
Dalle pene e dagli affanni sofferti dalle anime mie predilette, per solo mio
amore. Molte volte sto aspettando e riaspettando quando l’anima deve volgersi a
me per dirmi: ‘Signore, solo per amor vostro voglio soffrire questa pena’. Ah,
sì, questi sono i miei refrigeri ed i rinfreschi più adatti che mi sollevano e
mi smorzano il fuoco che mi consuma!”
Dopo ciò si è gettato nelle mie
braccia languendo, per riposarsi. Mentre Gesù riposava, io comprendevo molte
cose sulle parole dette da Gesù, specialmente sul patire per amor suo. Oh, che
moneta d’inestimabile valore! Se tutti la conoscessimo, faremmo a gara a chi
più potesse patire; ma io credo che siamo tutti corti di vista per conoscere
questa moneta sì preziosa, perciò non si giunge ad averne conoscenza.
Settembre 19, 1899 (73)
Gesù torna a parlarle della
fede, della speranza e della carità.
Trovandomi questa mattina un poco
turbata, specialmente sul timore che non è Gesù che viene, ma il demonio, e che
non fosse Volontà di Dio il mio stato, mentre mi trovavo in questa agitazione,
è venuto il mio adorabile Gesù e mi ha detto:
“Figlia mia, non voglio che ci
perdi il tempo col pensare a questo; tu ti distrai da me e vieni a farmi
mancare il cibo come nutrirmi, ma quello che voglio, [è] che pensi ad amarmi
soltanto ed a starti tutta abbandonata in me; così mi appresterai un cibo a me
molto gradito, e non di tanto in tanto come faresti se continuassi a fare così,
ma continuamente. E non sarebbe questo tuo contento grandissimo, che la tua
volontà, con lo stare abbandonata in me e con l’amarmi, fosse cibo di me, tuo
Dio?”
Dopo ciò mi ha fatto vedere il
suo cuore, e dentro vi conteneva tre globi di luce distinti, e che poi [ne] formava[no]
uno solo; e Gesù riprendendo il suo dire mi ha detto: “I globi di luce che vedi
nel mio cuore sono la fede, la speranza e la carità, che portai sulla terra per
felicitare l’uomo sofferente, offrendogli[eli] in dono; onde anche a te ne voglio
fare un dono più speciale”. E mentre così diceva, da quei globi di luce
uscivano come tanti fili di luce che inondavano l’anima mia, come una specie di
rete, ed io vi rimanevo dentro.
E Gesù: “Eccoti dove voglio che
occupi l’anima tua. Prima vola sulle ali della fede, ed in quella luce, tuffandoti,
conoscerai ed acquisterai sempre nuove notizie di me tuo Dio; ma col più
conoscermi, il tuo nulla si sentirà quasi disperso e non avrai dove
appoggiarti; ma tu sollevati di più, e gettandoti nel mare immenso della
speranza, quali sono tutti i miei meriti che acquistai nel corso della mia vita
mortale, tutte le pene della mia passione, che pure ne feci dono all’uomo, e
che solo per mezzo di questo puoi sperare i beni immensi della fede, perché non
c’è altro mezzo come poterli ottenere. Quindi tu avvalendoti di questi miei
meriti come se fossero tuoi, il tuo nulla non si sentirà più disperso e
sprofondato nell’abisso del niente, ma acquistando nuova vita, [la tua anima]
resterà abbellita, arricchita in modo tale, d’attirarsi gli stessi sguardi
divini. Ed allora, non più timidità, ma la speranza le somministrerà il
coraggio, la fortezza, in modo da rendere l’anima stabile come colonna esposta
a tutte le intemperie dell’aria, quali sono le varie tribolazioni della vita,
che non la smuovono un tantino. E la speranza farà che, non solo l’anima senza
timore s’immergerà nelle immense ricchezze della fede, ma se ne renderà
padrona; e giungerà a tanto con la speranza, da rendere suo lo stesso Dio. Ah,
sì! La speranza fa giungere l’anima dove vuole, la speranza è la porta del
cielo, sicché solo per suo mezzo si apre, perché chi tutto spera tutto ottiene.
Onde l’anima, giunta che sarà a
fare suo lo stesso Dio, subito, senza nessun ostacolo, si troverà nell’oceano
immenso della carità; ed ivi portando con sé la fede e la speranza, s’immergerà
dentro e farà una sola cosa con me, suo Dio”.
L’amantissimo Gesù continua a
dire: “Se la fede è il re, la carità è la regina, la speranza è qual madre
paciera che mette pace a tutto; perché con la fede, con la carità, ci possono
stare le tribolazioni, ma la speranza essendo vincolo di pace converte tutto in
pace. La speranza è sostegno, la speranza è ristoro; e quando l’anima sollevandosi
con la fede, vede la bellezza, la santità, l’amore con cui da Dio viene amata,
l’anima si sente attirata ad amarlo, ma vedendo la sua insufficienza, il poco
che fa per Dio, il come dovrebbe amarlo e non l’ama, si sente sconfortata,
turbata e quasi non ardisce d’avvicinarsi a Dio; subito esce questa madre
paciera della speranza, e mettendosi in mezzo alla fede e alla carità
incomincia a fare il suo uffizio di paciera; quindi mette in pace di nuovo
l’anima, la spinge, la solleva, le dà nuove forze, e portandola innanzi al re
della fede ed alla regina della carità, fa le sue scuse per l’anima, mette
innanzi all’anima nuova effusione dei suoi meriti e li prega di volerla[81]
ricevere. E la fede e la carità, avendo di mira solo questa madre paciera sì
tenera e compassionevole, ricevono l’anima, e Dio forma la delizia dell’anima e
l’anima la delizia di Dio”.
Oh, santa speranza, quanto tu sei
ammirabile! Io m’immagino di vedere l’anima ch’è posseduta da questa bella
speranza, come un nobile viandante che cammina per andare a prendere possesso
d’un podere che formerà tutta la sua fortuna, ma siccome è sconosciuto e viaggiante
tra terre che non sono sue, chi lo deride, chi l’insulta, chi lo spoglia delle
sue vesti e chi giunge a bastonarlo e a minacciarlo di togliergli anche la
pelle; ed il nobile viandante, che fa in tutti questi cimenti? Si turberà egli?
Ah, non mai! Anzi deriderà coloro che gli faranno tutto questo; e conoscendo
certo che quanto più soffrirà tanto più sarà onorato e glorificato quando
giungerà a prendere possesso del suo podere, quindi lui stesso stuzzica la
gente a fare che più lo potessero tormentare. Ma lui è sempre tranquillo, gode
la più perfetta pace, ma quello ch’è più, mentre si trova in mezzo a quest’insulti
egli se ne sta tanto calmo, che mentre gli altri sono tutti desti intorno a
lui, egli se ne sta dormendo nel seno del suo sospirato Iddio. Chi somministra
a questo viandante tanta pace e tanta pazienza nel seguitare l’intrapreso
cammino? Certo la speranza dei beni eterni che saranno suoi; ed essendo suoi
supererà tutto per prenderne possesso. Poi, pensando che sono suoi viene ad
amarli ed ecco che la speranza fa nascere la carità.
Chi può dire poi secondo la luce
che Gesù benedetto mi fa vedere? Avrei voluto passarla in silenzio, ma veggo
che la signora ubbidienza, deponendo la veste amichevole di amicizia, prende
aspetto di guerriero e sta armando le sue armi per farmi guerra e ferirmi. Deh,
non vi armiate così subito, deponete i vostri artigli! State quieta, che per
quanto posso, farò come tu dici e così resteremo sempre amici.
Ora, portata l’anima
nell’estesissimo mare della carità, prova delizie ineffabili, gode gioie
inenarrabili ad anima mortale; tutto è amore, i suoi pensieri sono tante voci
sonore che [essa] fa risuonare intorno al suo amantissimo Iddio, tutte [voci]
d’amore che lo chiamano a sé, di modo che Iddio benedetto, tirato, ferito da
queste voci amorose, ne fa il contraccambio, e ne avviene che i sospiri, i
palpiti e tutto l’Essere Divino chiamano continuamente l’anima a Dio.
Chi può dire poi come resta
ferita l’anima da queste voci? Come incomincia a delirare, come se fosse presa
da febbre cocentissima? Come corre, quasi impazzita, e va a tuffarsi
nell’amoroso cuore del suo diletto per trovare refrigerio, ed a torrenti
succhia le delizie divine? Ella vi resta ebbra d’amore, e nella sua ebbrezza fa
dei cantici tutti amorosi al suo sposo dolcissimo. Ma chi può dire tutto ciò
che passa tra l’anima e Dio? Chi può dire su questa carità, qual è Dio
medesimo?
In questo istante mi veggo una
luce grandissima, e la mia mente ora rimane stupita; si applica ora ad un punto,
ora ad un altro, e faccio per dettarlo[82]
sulla carta e mi sento balbuziente nell’esprimerlo. Onde non sapendo che fare,
per ora faccio silenzio; e credo che la signora obbedienza per questa volta
voglia perdonarmi, che se essa vuole corrucciarsi meco, questa volta non ha
tanta ragione, perché il torto è suo perché non mi dà una lingua spedita a
saperlo dire. Avete inteso, reverendissima obbedienza? Restiamo in pace, non è
vero?
Settembre 21, 1899 (74)
Contrasti con l’ubbidienza;
Gesù le mostra il perché del suo stato.
Eppure chi doveva dirlo[83]:
tutto il torto è suo, che non mi dà la capacità di saperlo manifestare; la
signora obbedienza se l’è presa a male ed ha cominciato a farla da tiranno
crudele, ed è giunta a tale crudeltà che mi ha tolto la vista dell’amante mio
Bene, solo ed unico mio conforto. Si vede proprio che delle volte la fa anche
da bambina, che quando vuole vincere un capriccio, se non lo vince con le buone
assorda la casa con grida e con pianti, tanto che si è costretti a contentarla
per forza. Non ci sono ragioni, non c’è via di mezzo come persuaderla; così fa
la signora obbedienza; e brava, non ti avrei creduto tale, siccome vuole
vincere lei, vuole che anche balbuziente scriva sulla carità.
Oh, Dio santo, rendetela voi
stesso più ragionevole! Si vede proprio che non si può tirare innanzi in questo
modo. E tu, o obbedienza, rendimi il mio dolce Gesù, non mi toccare più al
vivo, e ti prego di non togliermi più la vista del mio sommo Bene, ed io ti
prometto che anche balbuziente scriverò come tu vuoi. Solo vi chieggo in grazia
di farmi rinfrancare per qualche giorno, perché la mia mente troppo piccola non
si regge più a stare immersa in quel vasto oceano della carità divina,
specialmente che là vi scorge di più le mie miserie e la mia bruttezza, e nel
vedere l’amore che Dio mi porta, mi sento quasi impazzire, onde la mia debole
natura si sente venir meno e non ne può più. Ma nello stesso tempo mi occuperò
a scrivere altre cose, per poi riprendere sulla carità.
Riprendo il mio povero dire.
Trovandosi la mia mente occupata delle cose già dette, andavo pensando tra me:
“A che pro scrivere questo se io stessa non praticassi ciò che scrivo? Questo
scritto sarebbe certo una mia condanna”.
Mentre ciò pensavo, è venuto il
benedetto Gesù e mi ha detto: “Questo scritto servirà a far conoscere chi è
colui che ti parla e occupa la tua persona; e poi se non serve a te, la mia
luce servirà ad altri che leggeranno ciò che ti faccio scrivere”.
Chi può dire quanto son rimasta
mortificata nel pensare che altri profitteranno delle grazie che mi fa, se
leggeranno questi scritti, ed io che li ricevo, no? Non mi condanneranno essi?
E poi solo al pensar che giungeranno in mano d’altri mi si stringe il cuore per
la pena e pel rossore di me stessa. Ora, rimanendo in grandissima afflizione,
andavo ripetendo: “A che pro il mio stato, se [mi] servirà di condanna?”
E l’amorosissimo mio Gesù
ritornando mi ha detto: “La mia vita fu necessaria per la salvezza dei popoli,
e siccome la mia non la potei continuare sulla terra, perciò eleggo chi mi
piace per continuarla in loro, per poter continuare la salvezza dei popoli;
ecco il pro del tuo stato”.
Settembre 22, 1899 (75)
Gesù le mostra i fini dei suoi
scritti; contrasti con l’ubbidienza.
Sentendomi un chiodo fitto nel
cuore per le parole dette ieri dal dolce Gesù, essendo egli sempre benigno con
questa miserabile peccatrice, per sollevare le mie pene è venuto e tutto
compatendomi mi ha detto: “Figlia mia, non volere più affliggerti; sappi che
tutto ciò che ti faccio scrivere, o sulle virtù o sotto qualche similitudine,
non è altro che un farti dipingere te stessa ed a quale perfezione ho fatto giungere
l’anima tua”.
Oh, Dio, che gran ripugnanza
provo nel descrivere queste parole, perché non parmi vero quello che dice! Mi
sento che non capisco ancora che cosa sia virtù e perfezione, ma l’ubbidienza
così vuole, ed è meglio crepare che avere [a] che fare con lei; molto più
perché ha due facce: se si fa come lei dice, prende l’aspetto di signora e ti
accarezza come amica fedelissima, di più ti promette tutti i beni che ci sono
in cielo ed in terra; poi appena scorge un’ombra di difficoltà in contrario,
subito, senza farsi avvertire, si fa guardare e [la] si trova guerriero e sta
armato delle sue armi per ferirti e distruggerti. Oh, mio Gesù, che razza di
virtù è questa obbedienza? Essa fa tremare al solo pensarla!
Onde mentre Gesù mi diceva quelle
parole, io gli ho detto: “Mio buon Gesù, che giova all’anima mia l’aver tante
grazie, mentre dopo mi amareggiano tutta la vita mia, specialmente per le ore
di tua privazione? Perché il comprendere chi tu sei e di chi son priva, è un
continuo martirio per me, quindi non mi servono ad altro che a farmi vivere
continuamente amareggiata”.
Ed egli ha soggiunto: “Quando una
persona ha gustato il dolce d’un cibo e poi è costretta a prendere l’amaro, per
toglierle quell’amarezza si accresce al doppio il desiderio di gustare il
dolce; e questo giova molto a quella persona, perché se gustasse sempre il
dolce senza gustare mai l’amaro, non ne terrebbe gran conto del dolce; se
gustasse sempre l’amaro ma senza conoscere il dolce, non conoscendolo non ne
verrebbe neppure a desiderarlo; quindi l’uno e l’altro giova, così giova anche
a te”.
Ed io: “Pazientissimo mio Gesù
nel sopportare un’anima così misera ed ingrata, perdonami; mi pare che questa
volta voglio troppo investigare”.
E Gesù: “Non ti turbare, sono io
stesso che muovo le difficoltà nel tuo interno per avere occasione di conversare
con te, ed insieme per ammaestrarti in tutto”.
Settembre 25, 1899 (76)
Timori che i suoi scritti
possano andare fra le mani altrui.
Nella mia mente stavo pensando:
“Se questi scritti andassero in mano di qualcuno, forse diranno: ‘Sarà una
buona cristiana, ma il Signore le fa tante grazie’, senza sapere che con tutto
ciò sono ancora tanto cattiva. Ecco come le persone si possono ingannare, tanto
nel bene quanto nel male. Ah, Signore, tu solo conosci la verità ed il fondo
dei cuori!”
Mentre ciò pensavo, è venuto il
benedetto Gesù e mi ha detto: “Diletta mia, se le genti sapessero che tu sei la
mia difenditrice e la loro…!”
Ed io: “Mio Gesù, che dici?”
Ed egli: “Come, non è vero che tu
mi difendi dalle pene che essi mi fanno, col metterti in mezzo fra me e loro, e
prendi sopra di te, ed il colpo che stavo per ricevere sopra di me e quello che
io dovevo versare sopra di loro? Se qualche volta non lo ricevi sopra di te è
perché non te lo permetto, e questo con tuo grande rammarico, fino a lamentarti
con me; puoi tu forse negarlo?”
No, Signore, non posso negarlo,
ma veggo che è una cosa che tu stesso hai infuso in me, perciò dico che il
fatto non è che io son buona, e mi sento tutta confusa nel sentirmi dire da te
queste parole.
Settembre 26, 1899 (77)
Gesù le mostra i motivi perché
non fa nessun conto delle sue opposizioni.
Questa mattina, essendo venuto il
mio adorabile Gesù, mi ha trasportato fuori di me stessa; ma con mio sommo
rammarico lo vedevo di spalle, e per quanto l’ho pregato di farmi vedere il suo
santissimo volto mi riusciva impossibile. Nel mio interno andavo dicendo: “Chi
sa che non siano le mie opposizioni sull’ubbidienza nello scrivere, che non si
benigna di far vedere il suo volto adorabile!” E mentre ciò dicevo, piangevo.
Dopo che mi ha fatto piangere, si
è voltato e mi ha detto: “Io non faccio nessun conto delle tue opposizioni,
perché la tua volontà è tanto immedesimata con la mia che non puoi volere se
non quello che voglio io; onde mentre ripugni, nell’atto stesso ti senti tirata
come da una calamita a farlo; quindi le tue ripugnanze non servono ad altro che
a rendere più abbellita e splendente la virtù dell’ubbidienza, perciò non le
curo”.
Dopo ho guardato il suo
bellissimo volto e nel mio interno sentivo un contento indescrivibile; ed a lui
rivolta gli ho detto: “Dolcissimo amor mio, e sono io, e prendo[84]
tanto diletto nel rimirarti, che dovette essere della nostra Mamma Regina
quando ti rinchiudesti nelle sue viscere purissime? Quali contenti, quante
grazie non le conferisti?”
E lui: “Figlia mia, furono tali e
tante le delizie e le grazie che versai in lei, che basta dirti che ciò che io
sono per natura, la nostra Madre lo divenne per grazia; molto più che, non
avendo colpa, la mia grazia potè signoreggiare in lei liberamente; sicché non
c’è cosa dell’essere mio che non lo conferii a lei”.
In quell’istante mi pareva di
vedere la nostra Regina Madre come se fosse un altro Dio, con questa sola
differenza: che in Dio è natura sua propria, in Maria Santissima grazia
conseguita. Chi può dire come son rimasta stupita? Come la mia mente si perdeva
nel vedere un portento di grazia sì prodigioso? Onde a lui rivolta, gli ho
detto: “Caro mio Bene, la nostra Madre ebbe tanto bene perché vi facevate
vedere intimamente; io vorrei sapere: ed a me come vi mostrate, con la vista
astrattiva o intuitiva? Chi sa se pure è astrattiva”.
E lui: “Voglio farti capire la
differenza che vi è tra l’una e l’altra: nell’astrattiva l’anima rimira Dio,
nell’intuitiva vi entra dentro e conseguisce le grazie, cioè riceve in sé la
partecipazione dell’Essere Divino. E tu, quante volte non hai partecipato
all’Essere mio? Quel patire che pare in te come se fosse connaturale, quella
purità che giunge fino a sentire come se non avessi corpo, e tante altre cose,
non te l’ho conferito quando ti ho tirato a me intuitivamente?”
Ah, Signore, troppo è vero! Ed io
quali grazie ti ho reso per tutto questo? Qual è stata la mia corrispondenza?
Sento rossore al solo pensarlo, ma deh, perdonatemi e fate che di me si possa
conoscere e dal cielo e dalla terra come un soggetto delle tue infinite
misericordie.
Settembre 30, 1899 (78)
È tentata di odiare il
Signore, che le mostra come la pazienza nelle tentazioni è per lui pane
sostanzioso.
Prima ho passato più d’un’ora
d’inferno; alla sfuggita ho fatto per guardare l’immagine del bambino Gesù, ed
un pensiero, come fulmine, ha detto al bambino: “Come sei brutto”. Ho cercato
di non curarlo né turbarmi per fare di evitare qualche giuoco col demonio;
eppure con tutto ciò quel fulmine diabolico mi è penetrato nel cuore e mi sentivo
che il mio povero cuore odiava Gesù. Ah, sì, mi sentivo nell’inferno a fare
compagnia ai dannati, mi sentivo l’amore cambiato in odio! Oh, Dio, che pena il
non poterti amare! Dicevo: “Signore, è vero che non son degna di amarti, ma
almeno accetta questa pena, che vorrei amarti e non posso”.
Così, dopo aver passato
nell’inferno più d’un’ora, pare che ne sono uscita, grazie a Dio; ma chi può
dire quanto il mio povero cuore [è] restato afflitto, debole per la guerra
sostenuta tra l’odio e l’amore? Sentivo tale prostrazione di forze che mi
pareva che non avessi più vita, onde sono stata sorpresa dal solito mio stato,
ma oh, quanto decaduta di peso[85]!
Il mio cuore e tutte le interiori potenze, che con ansia inenarrabile
desiderano e vanno in cerca del loro sommo ed unico Bene, ed allora si fermano
quando l’hanno già trovato, e con sommo loro contento se lo godono, questa volta
non ardivano di muoversi, se ne stavano tanto annichilite, confuse e inabissate
nel proprio nulla, che non si facevano sentire. Oh, Dio, che mazzata crudele ha
dovuto subire il povero mio cuore!
Con tutto ciò il mio sempre
benigno Gesù è venuto e la sua vista consolatrice mi ha fatto dimenticare
subito d’essere stata nell’inferno, tanto che neppure ho chiesto perdono a
Gesù. Le interiori potenze, umiliate, stanche come stavano, pareva che si
riposavano in lui; tutto era silenzio; d’ambo le parti non c’era altro che
qualche sguardo amoroso e ci ferivamo i cuori a vicenda. Dopo essere stata
qualche tempo in questo profondo silenzio, Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ho
fame, dammi qualche cosa”.
Ed io: “Non ho niente che darvi”.
Ma nell’atto stesso ho visto un
pane e gliel’ho dato, e lui pareva che con tutto gusto se lo mangiasse. Ora nel
mio interno dicevo: “È da qualche giorno che non mi dice niente”.
E Gesù ha risposto al mio
pensiero: “Delle volte lo sposo si compiace di trattare con la sua sposa, di
affidarle i più intimi segreti; altre volte poi si diletta con più gusto di riposarsi
e contemplarsi a vicenda la loro bellezza, mentre il parlare impedisce di
riposarsi, ed il solo pensiero di ciò che
deve dire e di qualche cosa che si deve trattare, non fa badare a
guardare la beltà dello sposo e della sposa; ma però questo serve che, dopo
essersi riposati e [aver] compreso di più la loro bellezza, vengono più ad
amarsi, e con maggior forza escono in campo per lavorare, trattare e difendere
i loro interessi. Così sto facendo con te; non ne sei tu contenta?”
Dopo ciò un pensiero mi è
balenato nella mente dell’ora passata nell’inferno, e subito ho detto:
“Signore, perdonami, quante offese vi ho fatto”.
E lui: “Non volerti affliggere né
turbare, sono io che conduco l’anima, fin nel profondo dell’abisso, per poter
poi condurla più spedita nel cielo”.
Di poi mi ha fatto comprendere
che quel pane trovatomi[86]
non era altro che la pazienza con cui avevo sopportato quell’ora di sanguinosa
battaglia. Quindi la pazienza, l’umiliazione, l’offerta a Dio di ciò che si soffre
in tempo di tentazione, è un pane sostanzioso che si dà a Nostro Signore e che
lui accetta con molto gusto.
Ottobre 1, 1899 (79)
Gesù le parla con amarezza
degli abusi dei sacramenti.
Questa mattina seguitava a farsi
vedere in silenzio, ma in aspetto afflittissimo. L’amabile Gesù teneva sulla
testa conficcata una folta corona di spine. Le mie interiori potenze me le
sentivo in silenzio e non ardivano di dire una sola parola, solo che, vedendo
che soffriva assai nella testa, ho steso le mani e pian piano gli ho tolto la
corona; ma che acerbo spasimo soffriva! Come si allargavano le ferite ed il
sangue scorreva a ruscelli! A dire il vero era cosa che strappava l’anima. Dopo
l’ho messa sulla mia testa e lui stesso aiutava a fare sì che vi penetrasse
dentro; ma tutto era silenzio d’ambo le parti. Ma qual è stata la mia
meraviglia, che dopo poco ho fatto per guardarlo di nuovo ed un’altra [corona],
con le offese che facevano, stavano mettendo sulla testa di Gesù.
Oh
perfidia umana! Oh pazienza incomparabile
di Gesù, quanto sei tu grande! E Gesù taceva e quasi non li guardava per non
conoscere chi erano i suoi offensori. Quindi di nuovo gliel’ho tolta e, tutte
le interiori potenze risvegliandosi di tenera compassione, gli ho detto: “Caro
mio Bene, dolce mia vita, dimmi un po’: perché non mi dici più niente? Non è
stato mai tuo solito nascondermi i tuoi segreti; deh, parliamo un poco insieme,
che così sfogheremo un poco il dolore e l’amore che ci opprime”.
E lui: “Figlia mia, sei tu il
sollievo nelle mie pene. Sappi però che non ti dico niente perché tu mi
costringi sempre a far sì che non castighi le genti; vuoi opporti alla mia
giustizia e, se non faccio come tu vuoi, ne resti dispiaciuta ed io più ne
sento una pena che non ti tengo contenta. Quindi, per evitare dispiaceri d’ambo
le parti, faccio silenzio”.
Ed io: “Mio buon Gesù, avete
forse dimenticato quanto voi stesso venite a soffrire dopo che avete adoperato
la giustizia? Quel vedervi soffrire nelle stesse creature, è [ciò] che mi rende
più che mai circospetta a costringervi che non castighiate le genti. E poi,
quel vedere le stesse creature rivolgersi contro di voi come tante vipere
avvelenate, quasi che se fosse in loro potere già vi toglierebbero la vita, perché
si veggono sotto i vostri flagelli, e di più vengono ad irritare la vostra
giustizia, non mi dà l’animo di dire il Fiat
Voluntas tua”.
E lui: “La mia giustizia non può
passare più oltre, mi sento da tutti ferito; da sacerdoti, da devoti, da
secolari, specialmente per l’abuso dei sacramenti. Chi non li cura affatto,
aggiungendo i disprezzi, e chi frequentandoli ne formano conversazione di
piacere, e chi non essendo soddisfatti nei loro capricci, giungono per questo
ad offendermi. Oh, quanto resta straziato il mio cuore nel vedere ridotti i sacramenti
come quelle pitture dipinte oppure quelle statue di pietre, che compariscono
vive, operanti, da lontano, ma si fa per avvicinarle e si incomincia a scovrire
l’inganno; onde si fa per toccarle, e che cosa si trova? Carta, pietre, legno,
oggetti inanimati, ed ecco, [si resta] del tutto disingannati. Tale sono i sacramenti
ridotti, per la maggior parte; non c’è altro che la sola apparenza.
Che dire poi di quelli che
restano più lordi che netti? E poi, lo spirito d’interesse che regna nei
religiosi, è cosa da piangere. Non ti pare che sono tutt’occhi dove c’è un vilissimo
soldo, fino ad avvilire la loro dignità? Ma dove non c’è l’interesse non hanno
mani né piedi per muoversi un tantino. Questo spirito d’interesse riempie loro
tanto l’interno, che trabocca nell’esterno, fino a sentirne la puzza gli stessi
secolari; e di ciò scandalizzati formansi la causa che non prestano fede alle
loro parole. Ah, sì, nessuno mi risparmia! Vi è chi mi offende direttamente, e
chi potendo impedire un tanto male non si cura di farlo; onde non ho a chi
rivolgermi. Ma io li castigherò in modo da renderli inabili, e chi[87]
distruggerò perfettamente; giungeranno a tanto che resteranno le chiese
deserte, senza avere chi amministri i sacramenti”.
Interrompendo il suo dire, tutta
spaventata ho detto: “Signore, che dite? Se ci sono quelli che abusano dei
sacramenti, vi sono tante buone figlie che li ricevono con le dovute
disposizioni, e ci soffrono molto se non li frequentano”.
E lui: “Troppo scarso è il loro
numero; e poi la loro pena perché non possono riceverli riuscirà a mia riparazione
e ad essere vittime per quelli che ne abusano”.
Chi può dire quanto sono restata
straziata da questo parlare di Gesù benedetto? Ma spero che voglia placarsi per
la sua infinita misericordia.
Ottobre 3, 1899 (80)
Si mette d’accordo con
l’ubbidienza e Gesù ne spiega il valore.
Questa mattina continuava a farsi
vedere Gesù afflitto. Al mio pazientissimo Gesù non avevo coraggio di dirgli
nessuna parola per timore che riprendesse il suo dire lamentevole sullo stato
religioso. V’è questo, perché l’ubbidienza vuole che scriva tutto, ed anche
quello che riguarda la carità del prossimo; è questo per me tanto penoso che ho
dovuto lottare a forze di braccia con la signora obbedienza, molto più che
cambiandosi[88]
in aspetto di guerriero potentissimo, armato sì delle sue armi per darmi la
morte. In verità mi son trovata a tali strettezze, che io stessa non sapevo che
fare. Scrivere secondo la luce che Gesù mi faceva vedere sulla carità del
prossimo, mi pareva impossibile, mi sentivo ferire il cuore da mille punture,
la bocca me la sentivo ammutolire e venir meno il coraggio, e le dicevo: “Cara
obbedienza, tu sai quanto ti amo e che volentieri per amor tuo darei la vita;
ma veggo che qui non posso e tu stessa vedi lo strazio dell’animo mio. Deh, non
farti nemica, non essere meco spietata, sii più indulgente verso chi tanto ti
ama! Deh, vieni meco tu stessa e discorriamo insieme quello che più ci conviene
dire”.
Così pare che ha deposto il suo
furore e lei stessa dettava quello che più era necessario, rinchiudendo in
poche parole tutto il senso delle diverse cose che riguardavano la carità,
sebbene delle volte voleva essere più minuta ed io le dicevo: “Basta che per un
poco di riflessione capiscano ciò che significa; non è meglio rinchiudere in
una parola tutto il significato, che in tante parole?”
Delle volte cedeva l’ubbidienza,
delle volte io, e così pare che siamo andate d’accordo. Quanta pazienza ci
vuole con questa benedetta signora obbedienza, veramente signora, che basta che
[le] si dà il diritto di signoreggiare, cambiandosi[89]
in aspetto di mansuetissima agnella; lei stessa ne fa il sacrificio della
fatica e, l’anima, la fa riposare col suo Signore, mettendosi intorno lei con
occhio vigilante per fare che nessuno ardisca di molestarla ed interromperle il sonno. E mentre l’anima dorme,
questa nobile signora che fa? Oh, sta gocciolando sudore dalla sua fronte,
affrettando la fatica che toccava all’anima! Cosa veramente che fa stupire ogni
mente umana più intelligente, e che scuote ogni cuore ad amarla.
Ora mentre ciò dico, nel mio
interno vado dicendo: “Ma che cosa è quest’obbedienza? Di che è formata? Qual è
l’alimento che la sostiene?”
E Gesù che mi fa sentire la sua
armoniosa voce al mio udito, che dice: “Vuoi sapere che cosa è l’ubbidienza?
L’ubbidienza è la quint’essenza dell’amore; l’ubbidienza è l’amore più fino,
più puro, più perfetto, estratto dal sacrifizio più doloroso, qual è il
distruggere sé medesimo per rivivere di Dio. L’ubbidienza, essendo nobilissima
e divina, non ammette nell’anima niente d’umano, che non fosse suo. Perciò
tutta la sua attenzione è distruggere nell’anima tutto ciò che non appartiene
alla sua nobiltà divina, qual è l’amor proprio; e fatto questo, poco si cura
che essa sola stenti fatica in ciò che appartiene all’anima, e l’anima la fa
tranquillamente riposare. Finalmente l’ubbidienza sono io medesimo”.
Chi può dire come sono restata
meravigliata e rimasta estatica nel sentire questo parlare di Gesù benedetto?
Oh santa obbedienza, quanto tu sei incomprensibile! Io mi prostro ai tuoi piedi
e ti adoro, ti prego d’essermi guida, maestra, luce nel disastroso cammino
della vita, ché guidata, ammaestrata, scortata dalla tua luce purissima, posso
con sicurezza prendere possesso del porto eterno.
Finisco, quasi sforzandomi
d’uscire da questa virtù dell’ubbidienza, altrimenti non la finirei mai di
parlare; è tanta la luce che veggo di questa virtù, che potrei scrivere sempre
su di essa; ma altre cose mi chiamano, perciò faccio silenzio e ritorno dove
lasciai.
Onde vedevo il mio Gesù afflitto,
e ricordandomi che l’ubbidienza mi aveva detto di pregare per una persona,
quindi con tutto il cuore l’ho raccomandato, e Gesù mi ha detto: “Figlia,
[egli] faccia che tutte le sue opere risplendano, però di sole virtù; ma
specialmente gli raccomando di non imbrogliarsi nelle cose d’interesse di
famiglia. Se tiene qualche cosa la desse pure, se non tiene non voglio che lui
s’impicci d’altro. Lasciasse che le cose le facesse chi ne è dovuto, e lui se
ne rimanga spedito, libero, senza infangarsi nelle cose terrene; altrimenti
verrebbe ad incorrere nella sventura degli altri, che da principio, avendo
voluto impicciarsi di qualche cosa di famiglia, poi tutto il peso è gravato sulle
loro spalle, ed io per sola mia misericordia, ho dovuto permettere di non
prosperarli, ma piuttosto d’ammiserirli, e così fare toccare con mano quanto è
disdicevole ad un mio ministro l’infangarsi nelle cose terrene; mentre è parola
uscita dalla mia bocca che ai ministri del mio santuario, sempre che non
toccassero affatto le cose terrene, mai sarebbe mancato il cibo quotidiano.
Ora questi tali, se io li avessi
solamente prosperati, avrebbero infangato il loro cuore e non avrebbero badato
né a Dio né alle cose appartenenti al loro ministero. Ora tediati, stanchi del
loro stato, vorrebbero sbrigarsi, ma non possono, e questo è in pena di ciò che
non dovrebbero fare”.
Dopo gli raccomandai un infermo,
e Gesù mi mostrava le sue piaghe fattegli da quell’infermo, ed io ho cercato di
pregarlo, placarlo e ripararlo, e pareva che quelle piaghe si saldavano. E Gesù
tutto benignità mi ha detto: “Figlia mia, tu oggi mi hai fatto l’uffizio d’un
peritissimo medico, che non solo hai cercato di medicarle, fasciarle, ma anche
di guarirle le mie piaghe fattemi da quell’infermo, perciò mi sento molto
ristorato e placato”.
Onde ho compreso che pregando per
gli infermi si viene a fare l’uffizio di medico a Nostro Signore, che soffre
nelle stesse sue immagini.
Ottobre 7, 1899 (81)
Vede Gesù sdegnato contro le
genti.
Questa mattina il benedetto Gesù
non ci veniva ed ho dovuto molto pazientare per aspettarlo; nel mio interno
andavo dicendo: “Mio caro Gesù, vieni, non farmi tanto aspettare! È da ieri
sera che non vi ho visto e l’ora si fa troppo tarda; e voi non ci venite
ancora? Vedete quanto ho pazientato ad aspettarvi. Deh, non fate che giunga ad
impazientirmi, perché indugiate lungamente a venire! Perché poi la causa ne
siete voi, coi vostri indugi. Perciò venite, che più non posso”.
Or mentre andavo dicendo questi
ed altri spropositi, il mio unico Bene è venuto; ma con sommo mio rammarico
l’ho visto quasi sdegnato con le genti. Subito gli ho detto: “Mio buon Gesù, vi
prego a far pace col mondo”.
E lui: “Figlia non posso; io sono
come un re che vuole andare dentro una casa, ma quella casa è piena di cose
immonde, di marciume e di tant’altre sporcizie. Il re, come re, ha il potere
d’entrarvi; non c’è nessuno che [glie]lo possa impedire; ed anche con le sue
proprie mani può pulire quell’abitazione, ma non vuol farlo perché non è
decente alla sua reale persona scendere a tante bassezze, e fino a tanto che
quell’abitazione non verrà pulita da altri, con tutto ciò che ne tiene il
potere, il volere ed un gran desiderio, fino a soffrire, mai si benignerà a
mettervi il piede. Tale sono io, sono Re che posso e voglio, ma voglio la loro
volontà; voglio che tolgano il marciume delle colpe, per entrarvi e far pace
con loro. No, non è decente alla mia regalità l’entrarvi e rappacificarmi con loro,
anzi non farò altro che mandare castighi. Il fuoco della tribolazione
l’inonderà dappertutto, fino ad atterrarli, acciocché si ricordino che esiste
un Dio, che solo che può aiutarli e liberarli”.
Ed io interrompendo il suo dire,
gli ho detto: “Signore se volete mettere mani ai castighi, io me ne voglio
venire, non voglio più stare in questa terra. Come potrà resistere il mio cuore
a vedere soffrire le tue creature?”
E Gesù, prendendo un aspetto
benigno, mi ha detto: “Se tu te ne vieni, io dove andrò a dimorare su questa
terra? Per ora pensiamo a starci insieme di qua, che nel cielo avremo a starci
a lungo, quant’è tutta l’eternità. E poi, troppo presto hai dimenticato
l’uffizio di farmi da madre sulla terra. Quindi, mentre castigherò le genti, io
verrò a rifugiarmi e dimorerò con te”.
Ed io: “Ah Signore, a che pro il
mio stato di vittima, per tanti anni? Qual bene è venuto ai popoli? Mentre voi
mi dicevate che mi volevate vittima per risparmiare le genti, ed ora fate
vedere che questi castighi, invece di succedere tanti anni prima, succedono
dopo, né più né meno di questo”.
E lui: “Figlia mia, non dire
così; la mia longanimità è stata per amor tuo, ed il bene che ne è venuto da
questo è stato che terribili castighi dovevano infierire per lunghissimo tempo,
mentre con ciò sarà più breve. E non è questo un bene, che uno invece di stare
per lunghi anni sotto il peso d’un castigo vi stia per pochi? Poi, in questi
scorsi anni passati, guerre, morti improvvise, che non dovevano aver[90]
tempo di convertirsi, ed invece l’hanno avuto, e si son salvati; non è questo
un gran bene? Diletta mia, per ora non è necessario il farti capire il pro del
tuo stato per te e per i popoli; ma te lo mostrerò quando verrai nel cielo, ed
il giorno del giudizio lo mostrerò a tutte le nazioni. Perciò non parlare più
in questo modo”.
Ottobre 14, 1899 (82)
Gesù le mostra la necessità
dei castighi e le parla in modo commovente della speranza.
Questa mattina mi sentivo un po’
turbata e tutta annientata in me stessa; mi vedevo come se il Signore mi
volesse discacciare da sé. Oh, Dio, che pena straziante è mai questa! Mentre mi
trovavo in tale stato, il benedetto Gesù è venuto con una cordicella in mano, e
percuotendo il mio cuore tre volte mi ha detto: “Pace, pace, pace. Non sai tu
che il regno della speranza è regno di pace ed il diritto di questa speranza è
la giustizia? Tu, quando vedi che la mia giustizia si arma contro le genti,
entra nel regno della speranza e, investendoti delle qualità più potenti che
lei possiede, sali fin sul mio trono e fai quanto puoi per disarmare il mio
braccio armato; e questo lo farai con le voci più eloquenti, più tenere, più pietose,
con le ragioni più possenti, con le preghiere più calde che la stessa speranza
ti detterà. Ma quando vedi che la stessa speranza sta per sostenere certi
diritti di giustizia che sono assolutamente necessari, e che volerli cedere
sarebbe un voler fare affronto a sé stessa, ciò che non può mai essere, allora
conformati a me e cedi alla giustizia”.
Ed io, più che mai atterrita, che
dovevo cedere alla giustizia, gli ho detto: “Ah, Signore, come posso far ciò?
Ah, mi pare impossibile! Il solo pensiero che dovete castigare le genti, perché
tue immagini non posso tollerarlo; almeno fossero creature che non
appartenessero a voi! Eppure questo è niente; ma quello che più mi strazia è
che debba vedere voi stesso, quasi sto per dire, colpito da voi stesso,
schiaffeggiato, addolorato da voi stesso, perché i castighi scenderanno sopra
le tue stesse membra, non sopra le altre, e quindi voi stesso verrete a
soffrire. Dimmi, mio solo ed unico Bene, come potrà resistere il mio cuore a
vedervi soffrire, colpito da voi stesso? Che vi fanno soffrire le creature,
sono sempre creature ed è più tollerabile, ma questo è tanto duro che non posso
ingoiarlo; perciò non posso conformarmi teco, né cedere”.
E lui, impietosendosi e tutto
intenerendosi di questo mio dire, prendendo un aspetto afflitto e benigno mi ha
detto: “Figlia mia, tu hai ragione che resterò colpito nelle mie stesse membra,
tanto che nel sentirti parlare tutte le mie viscere me le sento e commosse e
muovere a misericordia, ed il cuore me lo sento spezzare per tenerezza. Ma
credi a me, che sono necessari i castighi, e se tu non vuoi vedermi colpito
adesso un poco, mi vedrai colpito poi più terribilmente, perché più assai mi
offenderanno; e questo non ti dispiacerebbe di più? Perciò conformati meco,
altrimenti mi costringerai, per non vederti dispiaciuta, a non dirti più
niente, e con questo mi verrai a negare il sollievo che prendo nel conversare con
te. Ah, sì, mi ridurrai al silenzio, senza avere [io] con chi sfogare le mie
pene!”
Chi può dire quanto sono restata
amareggiata da questo suo dire? E Gesù, volendomi quasi distrarre dalla mia
afflizione, ha ripreso il suo dire sulla speranza dicendomi: “Figlia mia, non
ti turbare; la speranza è pace, e siccome io, nell’atto stesso che faccio
giustizia sto nella più perfetta pace, così tu immergendoti nella speranza
statti nella pace. L’anima che sta nella speranza, col volersi affliggere,
turbare, sconfidare, incorrerebbe nella sventura di colei che mentre possiede
milioni e milioni di monete, ed anche è regina di vari regni, va fantasticando
e menando lamenti, dicendo: ‘Di che debbo vivere? Come devo vestirmi? Ahi,
muoio dalla fame! Sono ben infelice! Mi condurrò alla più stretta miseria,
finirò col perire!’
E mentre ciò dice, piange,
sospira e passa i suoi giorni, triste, squallida, immersa nella più grande
mestizia. E questo non è tutto, quel ch’è peggio di costei, [è] che se vede i
suoi tesori, se cammina nei suoi poderi, invece di gioire, più si affligge,
pensando alla sua fine ventura, e vedendo il cibo non lo vuole toccare per
sostentarsi, e se qualcuno vuole persuaderla col farle toccare con mano, mostrando[glie]le,
le sue ricchezze, e che non può essere che si ridurrà alla più stretta miseria,
non si convince, rimane sbalordita, e più piange la sua triste sorte. Or che si
direbbe di costei, dalle genti? Che è pazza, si vede che non ha ragione, ha
perduto il cervello; la ragione è chiara, non può essere diversamente.
Eppure può darsi che questa tale
può incorrere nella sventura che va fantasticando; ma in che modo? Coll’uscire
dai suoi regni, abbandonando tutte le sue ricchezze, andasse[91]
in terre straniere, in mezzo a gente barbara, che[92]
nessuno si benignerà di darle una briciola di pane. Ed ecco che la fantasia si
è verificata; ciò che era falso ora è verità; e chi n’è stata la causa? Chi
incolparne d’un cambiamento di stato sì triste? La sua perfidia, ed ostinata
volontà. Tale è appunto un’anima che si trova in possesso della speranza; il
volersi turbare, scoraggiare, già è la più grande pazzia”.
Ed io: “Ah, Signore, come può
essere che l’anima possa stare sempre in pace, vivendo nella speranza? E se
l’anima commette qualche peccato come può stare in pace?”
E Gesù: “Nell’atto che l’anima
pecca già esce dal regno della speranza, giacché peccato e speranza non possono
stare insieme. Ogni ragione ritiene che ognuno è obbligato a rispettare, coltivare ciò che è suo. Chi è quell’uomo
che va nei suoi terreni e vi brucia ciò che possiede? Chi è che non tiene
gelosamente custodita la sua roba? Credo nessuno. Ora l’anima che vive nella
speranza, col peccato offenderebbe la speranza, e se stesse in suo potere
brucerebbe tutti i beni che possiede la speranza. Ed allora si troverebbe nella
sventura di quella tale che, abbandonando i suoi beni, va a vivere in terre
straniere; così l’anima, col peccato, uscendo da questa madre paciera della
speranza, sì tenera e pietosa che giunge ad alimentarla con le stesse sue carni,
qual è Gesù in sacramento, oggetto primario di nostra speranza, se ne va a
vivere in mezzo a gente barbara, quali sono i demoni, che negandole ogni minimo
ristoro non l’alimentano d’altro che di veleno, qual è il peccato. Eppure
questa madre pietosa della speranza che fa? Mentre l’anima s’allontana da lei,
se ne starà forse indifferente? Ah, no! Piange, prega, la chiama con le voci
più tenere, più commoventi, le va appresso, ed allora si contenta quando la
riconduce nel suo regno”.
Il mio dolce Gesù continua a
dirmi: “La natura della speranza è pace, e ciò che lei è per natura, l’anima
che vive nel seno di questa madre paciera conseguisce per grazia”.
E nell’atto stesso che Gesù
benedetto dice queste parole, con una luce intellettuale mi fa vedere, sotto
una similitudine d’una madre, ciò che ha fatto questa speranza per l’uomo. Oh,
che scena commovente e tenerissima, che se tutti la potessero vedere
piangerebbero di compunzione anche i cuori più duri, e tutti si
affezionerebbero tanto che riuscirebbe loro impossibile distaccarsi per un sol
momento dalle sue ginocchia materne. Ed ecco, che mi provo a dire ciò che
comprendo e posso.
L’uomo viveva incatenato, schiavo
del demonio, condannato alla morte eterna, senza speranza di poter rivivere
all’eterna vita; tutto era perduto, ed andata in rovina la sua sorte. Questa
madre viveva nell’empireo, unita col Padre e lo Spirito Santo, beata, felice
con loro. Ma pareva che non fosse contenta, voleva i suoi figli, le sue care
immagini intorno a lei, l’opera più bella uscita dalle sue mani. Ora mentre
stava nel cielo, il suo occhio era intento all’uomo, che va perduto sulla
terra. Ella tutta s’occupa per il modo come salvare questi amati figli, e
vedendo che questi figli non possono assolutamente soddisfare la Divinità,
anche a costo di qualunque sacrifizio, perché molto inferiori a loro[93],
che cosa fa questa madre pietosa? Vede che non c’è altro mezzo per salvare
questi figli che dare la propria vita per salvare la loro e prendere sopra di
sé le loro pene e miserie e fare tutto ciò che loro dovevano fare per loro
stessi.
Onde che pensa di fare? Si
presenta innanzi alla divina giustizia questa madre amorosa, con le lacrime
agli occhi, con le voci più tenere, con le ragioni più potenti, che il suo
magnanimo cuore le detta, e dice: “Grazie vi chiedo per i miei perduti figli;
non mi regge l’animo di vederli da me separati, ed a qualunque costo voglio salvarli;
sebbene veggo non altro mezzo che mettere la mia propria vita, la voglio
mettere pure, purché riacquisti la loro. Che cosa volete da loro? Riparazione?
Vi riparo io per loro. Gloria, onore? Vi glorifico ed onoro io per loro.
Ringraziamento? Vi ringrazio io. Tutto ciò che volete da loro, ve lo faccio io,
purché li possa avere insieme con me a regnare”.
La Divinità ne resta commossa nel
vedere le lacrime, l’amore di questa madre pietosa, e convinta dalle sue
ragioni potenti si sente inclinata ad amare questi figli, e ne piangono insieme
la loro sventura, e concordemente concludono che accettano il sacrifizio della
vita di questa madre, restandone pienamente soddisfatti, per riacquistare
questi figli. Non appena è firmato il decreto, scende immantinente dal cielo e
viene sulla terra, e deponendo le sue vesti regali che aveva nel cielo, si
veste delle miserie umane come se fosse la più vilissima schiava, e vive nella
povertà più estrema, nelle sofferenze più inaudite, nei disprezzi più
insopportabili all’umana natura; non fa altro che piangere coll’intercedere per
i suoi amati figli. Ma quel che più fa stupire, e di questa madre e di questi
figli, è che mentre lei ama tanto questi figli, questi, invece di riceverla
questa madre a braccia aperte, che veniva per salvarli, fanno il contrario.
Nessuno la vuole ricevere né riconoscere, anzi la fanno andare raminga, la
disprezzano, ed incominciano a macchinare come uccidere questa madre sì tenera,
e sviscerata amante di loro.
Che farà questa madre così tenera
nel vedersi sì malamente corrisposta dai suoi ingrati figli? Si arresterà ella?
Ah, no, anzi più si accende di amore per loro e corre da un punto all’altro per
riunirli in grembo! Oh, come fatica, come stenta fino a gocciolare sudore, non
solo d’acqua, ma ancora di sangue! Non si dà un momento di tregua, sta sempre
in attitudine per operare la loro salvezza, provvede a tutti i loro bisogni,
rimedia a tutti i loro mali passati, presenti e futuri; insomma non c’è cosa
che non ordina e dispone per loro bene.
Ma che cosa fanno questi figli?
Si son forse pentiti dell’ingratitudine? Che fecero nel riceverla? Hanno mutato
i loro pensieri in favore di questa madre? Ah, no! La guardano di malocchio, la
disonorano con le calunnie più nere, le procurano obbrobri, disprezzi,
confusioni; la battono con ogni sorta di flagelli, riducendola tutta una piaga,
e finiscono col farla morire con una morte, la più infame che trovar si
potesse, in mezzo a crudeli spasimi e dolori. Ma che cosa fa questa madre in
mezzo a tante pene? Odierà forse questi figli sì discoli e protervi? Ah, no,
mai! Allora più che mai li ama svisceratamente, offre le sue pene per la stessa
loro salvezza e spira con la parola della pace e del perdono. O madre mia
bella! O cara speranza, quanto sei in te stessa amabile; io ti amo! Deh,
tienimi sempre in grembo a te e sarò la più felice del mondo!
Mentre son determinata a cessare
di parlare della speranza, una voce mi risuona dappertutto, che dice: “La
speranza contiene tutto il bene presente e futuro, e chi vive in grembo a lei
ed è allevata sulle sue ginocchia, tutto ciò che vuole ottiene. Che cosa vuole
l’anima? Gloria, onore? La speranza le darà tutto l’onore e la gloria più
grande in terra presso tutte le genti, ed in cielo la glorificherà eternamente.
Vorrà forse ricchezza? Oh! Questa madre che è la speranza è ricchissima e,
quello ch’è più, [è] che dando i suoi beni ai suoi figli, non restano punto
scemate le sue ricchezze, poi queste ricchezze non sono fugaci e passeggere, ma
sempiterne. Vorrà piaceri, contenti? Ah, sì! Questa speranza contiene in sé
tutti i piaceri e gusti possibili che trovar si possono in cielo ed in terra, e
che nessun altro potrà mai pareggiarla, e chi al suo seno si nutrisce, a
sazietà ne gusta; ed oh, come è felice e contenta! Vorrà essere dotta,
sapiente? Questa madre speranza contiene in sé le scienze più sublimi, è la
maestra di tutti i maestri, e chi da lei si fa insegnare apprende la scienza
della vera santità”.
Insomma, la speranza ci
somministra tutto, di modo che, se uno è debole gli darà la fortezza, se un
altro è macchiato, la speranza istituì i sacramenti, ed ivi ha preparato il
lavacro alle sue macchie; se vi sente fame e sete, questa madre pietosa ci dà
il cibo più bello, più gustoso, quali sono le sue delicatissime carni, e per
bevanda il suo preziosissimo sangue. Che altro può fare di più questa madre
paciera della speranza? E chi altro mai è simile a lei? Ah, solo lei ha
rappacificato cielo e terra, la speranza ha congiunto con sé la fede e la
carità ed ha formato quell’anello indissolubile tra l’umana natura e la divina.
Ma chi è questa madre? Chi è questa speranza? È Gesù Cristo, che operò la
nostra redenzione e formò la speranza dell’uomo fuorviato.
Ottobre 16, 1899 (83)
Gesù le parla dei castighi.
Questa mattina il mio dolce Gesù
non ci veniva. È da ieri sera che non l’ho visto, [quando] si fece vedere in un
aspetto che faceva pietà e terrore insieme; si voleva nascondere per non vedere
i castighi che lui stesso stava mandando sulle genti ed il modo come doveva
distruggerle. Oh Dio, che spettacolo straziante, non mai visto!
Mentre aspettavo e riaspettavo,
nel mio interno andavo dicendo: “Com’è che non viene? Chi sa che non venga
perché io non mi conformo alla sua giustizia? Ma come posso far ciò? Mi pare
quasi impossibile dire Fiat Voluntas Tua”. Poi dicevo ancora: “Forse non viene
perché il confessore non lo manda”. Ora mentre [ciò] pensavo, l’ho visto
appena, e quasi l’ombra, e mi ha detto: “Non temere, la potestà ai sacerdoti è
limitata; solo che a misura che si prestano a pregarmi di farmi venire a te, e
[ad] offrirti a farti soffrire per fare che risparmiassi le genti, così
nell’atto che io manderò i castighi li guarirò e li risparmierò. Se poi non si
daranno nessun pensiero, neppure io avrò nessun riguardo per loro”.
E detto ciò è scomparso,
lasciandomi in un mare d’afflizione e di lacrime.
Ottobre 21, 1899 (84)
Gesù le parla ancora dei
castighi.
Dopo aver passato giorni
amarissimi di privazione, mi sentivo stanca e sfinita di forze, sebbene andavo
offrendo quelle stesse pene dicendo: “Signore, tu sai quanto mi costa l’esser
priva di te, ma però mi rassegno alla tua santa Volontà offrendo questa pena
acerbissima come mezzo per attestare il mio amore e placarvi. Queste noie,
fastidi, fiacchezze, freddezze che sento, intendo mandarveli come messaggeri di
lodi e di riparazione per me e per tutte le creature. Questo ho e questo offro;
è certo che voi accettate il sacrifizio della buona volontà, quando vi si offre
ciò che si può senza riserva alcuna, ma venite, che più non posso!”
Molte volte mi veniva la
tentazione di conformarmi alla giustizia e pensavo che la causa che [Gesù] non
ci veniva ero io stessa, perché Gesù nei giorni passati mi aveva detto che, se
non mi conformassi, [lo] avrei costretto a non farlo venire ed a non dirmi più
niente per non tenermi dispiaciuta; ma non mi dava l’animo di farlo, molto più
perché l’ubbidienza neppure vi consentiva. Mentre mi trovavo in queste
amarezze, prima è venuta una luce con una voce che diceva: “A misura che
l’anima s’intromette nelle cose terrene, così si allontana e perde la stima dei
beni eterni. Io ho dato le ricchezze perché se ne servissero per la loro
santificazione, essi se ne son serviti per offendermi e formare un idolo per il
loro cuore, ed io distruggerò loro e le ricchezze insieme con loro”.
Dopo ciò ho visto il mio
carissimo Gesù, ma tanto sofferente, offeso e sdegnato con le genti, che
metteva terrore. Io subito ho cominciato a dirgli: “Signore, ti offro le tue
piaghe, il tuo sangue, l’uso santissimo dei tuoi santissimi sensi, che ne
facesti nel corso della tua vita mortale, per ripararvi le offese ed il cattivo
uso dei sensi, che ne fanno le creature”.
E Gesù, prendendo un aspetto
serio e quasi tuonante, ha detto: “Sai tu come son divenuti i sensi delle
creature? Come quelle grida delle bestie feroci che coi loro ruggiti allontanano
gli uomini invece di farli avvicinare. È tanto il marciume e la molteplicità
delle colpe che scaturiscono dai loro sensi, che mi costringono a fuggire”.
Ed io: “Oh, Signore, come vi
veggo sdegnato! Se voi volete continuare a mandare i castighi, io me ne voglio
venire oppure voglio uscire da questo stato. A che pro starvi, una volta che
non posso più offrirmi vittima per risparmiare le genti?”
E lui, parlandomi serio, tanto
che mi sentivo atterrire, mi ha detto: “Tu vuoi toccare i due estremi: o che
vuoi che non faccio niente o che te ne vuoi venire; non ti contenti che le
genti siano risparmiate in parte? Credi tu che Corato sia il migliore, od il
minore nell’offendermi? Che l’abbia risparmiato a confronto degli altri paesi è
cosa da niente? Perciò contentati e quietati, e mentre io mi occuperò a castigare
le genti, tu accompagnami coi tuoi sospiri e con le tue sofferenze, pregandomi
che gli stessi castighi riescano per la conversione dei popoli”.
Ottobre 22, 1899 (85)
Gesù le mostra i pregi della
croce.
Continua Gesù a farsi vedere
afflitto; nell’atto ch’è venuto si è gettato nelle mie braccia tutto sfinito di
forze, quasi volendo un ristoro, mi ha partecipato qualche poco delle sue
sofferenze e dopo mi ha detto: “Figlia mia, la via della croce è una via
battuta di stelle, e conforme[94]
si cammina quelle stelle si cambiano in soli luminosissimi. Quale felicità sarà dell’anima per tutta l’eternità,
l’essere circondata da quei soli? Poi il premio grande che do alla croce è
tanto, che non c’è misura, né di larghezza né di lunghezza; è quasi
incomprensibile alle menti umane, e questo perché nel sopportare le croci non
ci può essere niente d’umano, ma tutto divino”.
Ottobre 24, 1899 (86)
Gesù le mostra il suo
dispiacere e la necessità di castigare l’uomo, riprodotto dell’Essere Divino.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa, in mezzo alle genti, e
Gesù pareva che guardava con occhio di compassione le creature, e gli stessi
castighi comparivano sue infinite misericordie uscite dal più intimo del suo
cuore amorosissimo. Onde, rivolto a me, mi ha detto:
“Figlia mia, l’uomo è un
riprodotto dell’Essere Divino, e siccome il nostro cibo è l’amore sempre
reciproco, conforme e costante tra le Divine Persone, quindi [l’uomo] essendo
uscito dalle nostre mani e dall’amor puro disinteressato, è come una particella
del nostro cibo. Ora questa particella ci è divenuta amara, non solo, ma la
maggior parte, discostandosi da noi, si è fatta pascolo delle fiamme infernali
e cibo dell’odio implacabile dei demoni, nostri e loro capitali nemici. Eccoti
la causa principale del nostro dispiacere della perdita delle anime, è questa,
perché son nostre, è cosa che ci appartiene. Come pure la causa che mi spinge a
castigarli è l’amor grande che nutro per loro e per poter mettere in salvo le
loro anime”.
Ed io: “Signore, pare che questa
volta non avete altre parole da dire che di castighi. La vostra potenza tiene
tant’altri mezzi come salvare queste anime, e poi se fossi certa che tutta la
pena cadesse sopra di loro, col restare voi libero senza soffrire in loro, pure
mi contenterei; ma veggo che già state soffrendo molto per quei castighi che
avete mandato; che sarà se continuate a mandare altri castighi?”
E Gesù: “Con tutto ciò che
soffro, l’amore mi spinge a mandare più pesanti flagelli, e questo perché non
c’è mezzo più potente di far entrare in sé stesso l’uomo e fargli conoscere che
cosa è il suo essere, col far[gli] vedere disfatto sé stesso; gli altri mezzi
pare che lo ingagliardiscono di più, onde conformati alla mia giustizia. Veggo
bene che l’amore che tu mi vuoi ti spinge tanto a non conformarti meco, e non
hai cuore di vedermi soffrire; ma anche mia Madre mi amò più di tutte le creature,
che nessun’altra può mai pareggiarla, eppure per salvare queste anime si
conformò alla giustizia e si contentò di vedermi tanto soffrire. Se ciò fece
mia Madre, come non lo potresti tu?”
E nell’atto che Gesù parlava, mi
sentivo tirare la mia volontà talmente alla sua, che quasi non sapevo più
resistere di non conformarmi alla sua giustizia. Non sapevo che dire tanto mi
sentivo convinta, ma però non ancora ho manifestato la mia volontà. Gesù è
scomparso ed io son rimasta in questo dubbio, se devo o no conformarmi.
Ottobre 25, 1899 (87)
Gesù le parla del suo grande
amore per le creature anche quando le castiga.
Continua il mio dolcissimo Gesù a
manifestarsi quasi sempre lo stesso; questa mattina ha soggiunto: “Figlia mia,
è tanto l’amore verso le creature, che come un eco risuona nella regione
celeste, riempie l’atmosfera e si diffonde sopra tutta quanta la terra. Ma qual
è la corrispondenza che fanno le creature a quest’eco amoroso? Ahi!
Corrispondono con un eco d’ingratitudine, velenoso, ripieno d’ogni sorta
d’amarezza e peccato; con un eco quasi micidiale, atti solo a ferirmi. Ma io
spopolerò la faccia della terra, acciocché quest’eco risuonante di veleno più
non assordisca le mie orecchie”.
Ed io: “Ah, Signore, che dite?”
E Gesù: “Io non faccio altro che
come un medico pietoso, che ha gli estremi rimedi verso i suoi figli, e questi
figli sono ripieni di piaghe. Che fa questo padre e medico che ama i suoi figli
più che la propria vita? Lascia incancrenire queste piaghe? Li farà perire per
timore che applicando il fuoco e i ferri verranno essi a soffrire? No, mai;
sebbene sentirà come se sopra di sé si applicassero tali strumenti, con tutto
ciò mette mano ai ferri, squarcia e taglia le carni, vi applica il veleno, il
fuoco, per impedire che più s’inoltri la corruzione. Sebbene molte volte
succede che in queste operazioni i poveri figli muoiono, non era questa la
volontà del padre medico, ma la sua volontà è di vederli risanati. Tale sono
io, ferisco per risanarli, li distruggo per risuscitarli; che molti ne periscono,
non è questa la mia Volontà, questo è effetto solo della loro malvagia ed
ostinata volontà, è effetto di quest’eco velenoso che, fino a vedersi
distrutti, vogliono inviarmelo”.
Ed io: “Dimmi, mio unico Bene,
come potrei raddolcirvi quest’eco velenoso che tanto vi affligge?”
E lui: “L’unico mezzo è che tu
faccia sempre tutte le tue operazioni per solo fine di piacermi, e che impieghi
tutti i sensi e le potenze tue per il fine d’amarmi e di glorificarmi. Siccome
ogni tuo pensiero, parola e tutto il resto, non vorrà altro che l’amore che hai
verso di me, così il tuo eco salirà gradito al mio trono e raddolcirà il mio
udito”.
Ottobre 28, 1899 (88)
Gesù l’ammaestra mostrandole
il suo Tutto ed il niente di lei.
Questa mattina il mio amabile
Gesù è venuto in mezzo ad una luce, e guardandomi come se mi penetrasse da per
tutto, tanto che mi sentivo annichilita, mi ha detto: “Chi sono io e chi sei
tu?”
Queste parole mi penetravano fino
alle midolla delle ossa, scorgevo l’infinita distanza che passa tra l’infinito
e il finito, tra il Tutto e il niente; non solo, ma vi scorgevo la malizia di
questo nulla, ed il modo come si era infangato. Mi pareva come un pesce che
nuota nelle acque; così l’anima mia nuotava nel marciume, nei vermi e in tante
altre cose, atte solo a mettere orrore alla vista. O Dio, che vista abominevole!
L’anima mia avrebbe voluto fuggire dinnanzi alla vista di Dio tre volte Santo;
ma con altre due parole mi lega, e cioè: “Qual è l’amor mio verso di te? E qual
è il tuo contraccambio verso di me?”
Ora mentre alla prima parola
avrei voluto fuggire, spaventata dalla sua presenza, alle seconde parole: “Qual
è l’amor mio verso di te?”, mi son trovata legata, inabissata e legata da tutte
le parti dal suo amore, sicché la mia esistenza è un prodotto dell’amore suo;
onde se quest’amore cessava, io più non esistevo. Quindi mi pareva che i
palpiti del cuore, [l’]intelligenza e fino il respiro, d’essere[95]
un riprodotto del suo amore. Io nuotavo in lui, ed anche a voler fuggire mi
parrebbe impossibile farlo, perché il suo amore da per tutto mi circonda. Il
mio amore poi mi pareva come una gocciolina d’acqua gettata nel mare, che
scomparisce, non si sa più discernere.
Quante cose ho compreso, ma il
volerle dire, andrei troppo per le lunghe. Quindi Gesù è scomparso ed io son
rimasta tutta confusa; mi vedevo tutta peccati, e nel mio interno imploravo
perdono e misericordia. Dopo poco il mio unico Bene è ritornato, ed io mi
sentivo tutta inzuppata dall’amarezza e dal dolore dei miei peccati, e lui mi
ha detto:
“Figlia mia, quando un’anima è
convinta d’aver fatto male nell’offendermi, già fa l’uffizio della Maddalena che
bagnò i miei piedi con le sue lacrime, li unse col balsamo e li asciugò coi
suoi capelli. L’anima, quando incomincia a rimirare in sé il male che ha fatto,
mi prepara un bagno alle mie piaghe; vedendo il male, ne riceve un’amarezza e
ne prova un dolore, e con questo viene ad ungere le mie piaghe con un balsamo
squisitissimo. Da questa conoscenza l’anima vorrebbe fare una riparazione, e
vedendo l’ingratitudine passata si sente nascere in sé l’amore verso un Dio
tanto buono, e vorrebbe mettere la sua vita per attestare l’amore suo, e questo
sono i capelli che,[96]
come tante catene d’oro, si lega all’amore mio”.
Ottobre 29, 1899 (89)
Gesù la porta nelle sue
braccia e l’ammaestra.
Continua il mio adorabile Gesù a
venire, ma questa mattina, appena venuto mi ha preso fra le sue braccia e mi ha
trasportata fuori di me stessa; ed io trovandomi in quelle braccia comprendevo
molte cose, specialmente che per poter stare liberamente nelle braccia di
Nostro Signore, ed anche entrare a bell’agio nel suo cuore ed uscirne come
[al]l’anima più piacerebbe, e per non essere di peso e di fastidio al benedetto
Gesù, era assolutamente necessario spogliarsi di tutto. Quindi con tutto il
cuore gli ho detto:
“Mio caro ed unico Bene, quello
che vi chiedo per me è che mi spogliate di tutto, perché veggo bene che per
essere rivestita da voi e vivere in voi, e voi rivivere in me, è necessario che
neppure l’ombra io abbia di ciò che a voi non appartiene”.
E lui, tutto benignità mi ha
detto: “Figlia mia, la cosa principale per entrare io in un’anima e formare la
mia abitazione è il distacco totale da ogni cosa. Senza di questo, non solo non
posso io dimorarvi, ma neppure nessuna virtù può prendere abitazione
nell’anima. Dopo, poi che l’anima ha fatto uscire tutto da sé, allora vi entro io,
ed unito con la volontà dell’anima fabbrichiamo una casa. Le fondamenta di
questa si basa[no] sull’umiltà, e quanto più profonde tanto più alte e forti
riescono le mura. Le dette mura saranno fabbricate da pietre di mortificazione,
incalcinate d’oro purissimo di carità. Dopo che si son costruite le mura, io
come eccellentissimo pittore, non con calce ed acqua, ma coi meriti della mia
passione, indicato per la[97]
calce, e coi dolori del mio sangue, indicato per l’acqua, le intonaco e vi
formo le più eccellentissime pitture, e questo servirà [per] ben munirla dalle
piogge, dalle nevi e da qualunque scossa. Appresso ne vengono le porte. Queste,
per far sì che fossero solide come legno, non soggette al tarlo, è necessario
il silenzio che forma la morte dei sensi esteriori.
Per custodire questa casa è
necessario un guardiano che vigili da per tutto, entro e fuori, e questo è il
timor santo di Dio che la guarda da qualunque inconveniente, vento ed altro che
potrà sovrastarla. Questo timore sarà la salvaguardia di questa casa, che farà
operare non con timore della pena, ma per timore d’offendere Dio ch’è il
padrone di questa casa; questo timore santo non deve fare altro che far tutto
per piacere a Dio, senza nessun’altra intenzione. In seguito si deve ornare
questa casa ed empirla di tesori; questi tesori non devono essere altro che
desideri santi, che lacrime; questi erano i tesori dell’Antico Testamento, ed
in essi [gli uomini] trovarono la loro salvezza; nell’adempimento dei loro
voti, la loro consolazione, la fortezza nelle sofferenze; insomma tutta la loro
fortuna [la] riponevano nel desiderio del futuro Redentore, ed in questo
desiderio operavano da a-
tleti.
tleti.
L’anima senza desiderio opera
quasi da morta, anche le stesse virtù; tutto è noia, fastidio, rancore, nessuna
cosa le piace, cammina quasi strisciando per la via del bene. Tutto all’opposto
l’anima che desidera; nessuna cosa le dà peso, tutto è allegria, vola, nelle
stesse pene trova i suoi gusti, e questo perché v’era un anticipato desiderio,
e le cose che prima si desiderano poi vengono ad amarsi, ed amandosi si trovano
i più graditi piaceri. Perciò questo desiderio va accompagnato da prima che si
fabbricasse questa casa. Gli ornamenti di questa casa saranno le pietre più
preziose, le perle, le gemme più costose di questa mia vita, basata sempre sul
patire, ed il puro patire. E siccome colui che l’abita è il datore d’ogni bene,
vi mette il corredo di tutte le virtù, la profuma coi più soavi odori, fa
olezzare i più leggiadri fiori, fa risuonare una musica celestiale delle più
gradite, fa respirare un’aria di paradiso”.
Ho dimenticato di dire che
bisogna vedere se c’è la pace domestica, e questa non deve essere altro che il
raccoglimento ed il silenzio dei sensi interiori.
Dopo ciò io continuavo a stare
nelle braccia di Nostro Signore e mi trovavo tutta spogliata, ed in questo
mentre vedevo il confessore presente; Gesù mi ha detto, ma mi pareva che voleva
fare uno scherzo per vedere che cosa io dicessi:
“Figlia mia, tu ti sei spogliata
di tutto, e tu sai che quando uno si spoglia ci vuole un altro che pensi a
vestirla, a nutrirla e che le dia un luogo dove farla dimorare. Tu dove vuoi
stare, nelle braccia del confessore o nelle mie?”
E mentre così diceva faceva
l’atto di mettermi nelle braccia del confessore. Io ho incominciato ad
insistere che non ci volevo andare; lui, che voleva. Dopo un po’ di contesa mi
ha detto: “Non temere, ti tengo nelle mie braccia”, e così siamo restati in
pace.
Ottobre 30, 1899 (90)
Gesù le parla dei castighi.
Questa mattina il benigno mio
Gesù è venuto tutto afflitto, e le prime parole che mi ha detto sono state:
“Povera Roma, come sarai distrutta! Nel rimirarti io ti compiango!” Ma lo
diceva con tal tenerezza che faceva compassione; ma non ho capito se siano
persone sole o uniti gli edifici.
Io, siccome avevo l’ubbidienza di
non conformarmi alla giustizia, ma di pregare, perciò gli ho detto: “Mio
diletto Gesù, quando si parla di castighi non bisogna più contendere, ma
pregare solamente”. E così ho incominciato a pregare, a baciare le sue piaghe
ed a fare atti di riparazione. E mentre ciò facevo, lui di tanto in tanto mi
diceva:
“Figlia mia, non farmi violenza;
facendo così tu vuoi violentarmi per forza, perciò statti quieta”.
Ed io: “Signore, è l’ubbidienza
che così vuole, non sono io che ciò faccio”.
Lui ha soggiunto: “Il fiume
dell’iniquità è tanto che giunge ad impedire la redenzione delle anime, e la
sola preghiera e queste mie piaghe impediscono che questo fiume impetuoso non
si l’assorbisca[98]
tutto in sé”.
Deo gratias!
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